8 agosto 2011

Pausa di riflessione

Angelo Peretti
Stavolta per ferragosto mi fermo anch'io, come accade per tanti blog e giornali on line. Ma le ferie non c'entrano. Ho bisogno di una pausa di riflessione. Sospendo le pubblicazioni di InternetGourmet. Non so per quanto. Spero per poco, ma non so.
Ecco, sì, una pausa di riflessione. Per pensare, per rivedere il mio rapporto con il vino e con il suo mondo e con il mio ruolo in quel mondo. Ruolo minore, da comparsa. Di più temo proprio di non valere.
Ho bisogno di verificare se possano esservi ancora motivazioni, essendosi affievolite, se non del tutto esaurite, quelle che sin qui mi hanno guidato. È stato un periodo tumultuoso. Ho bisogno di interiorizzare gli eventi, i cambiamenti, gli accadimenti. Di riflettere, anche, su quest'ultima manciata d'anni di crescente dedizione, alla ricerca assidua, e talvolta troppo insistente, di un'anima del vino che oggi mi sfugge. Mi ha coinvolto con intensità. Cercavo testardamente di creare o almeno intravedere condizioni e percorsi anche laddove sembrava non potessero esistere.
Seguendone i sentieri, dalla sola scrittura, dalla compilazione di articoli, di guide o di libri, sono passato nei tre ultimi anni ad assumere anche incarichi istituzionali, ed è stata una scelta non facile per me che istituzionale lo sono stato assai raramente nei miei cinquant'anni di vita.
Sì, è stato un periodo impegnativo, faticoso, ma anche, per ampi tratti, bellissimo e gratificante. Oggi però mi sento vuoto, stanco. Ho bisogno di rintracciare le strade per uscire dalle consuetudini. Almeno di verificare se di strade ne esistano. Forse ho bisogno di sfide nuove e delle energie per affrontarle.
Lo stop coincide con il periodo delle ferie agostane, quando le visite al web si fanno meno intense. Meglio così. Mi scuso con chi si connette alla rete anche quando le città e gli uffici si fermano: mi dispiace non stare qualche minuto con loro attraverso le parole affidate al vento digitale. Ci sentiremo più avanti.
Con questo post, InternetGourmet ha superato i mille interventi pubblicati dopo la registrazione come testata on line. Un piccolo punto d'arrivo. Forse questa pausa arriva nel momento giusto.
Intanto, seguiterò a scrivere, o almeno ci proverò, ma senza pubblicare. Vorrei scrivere per me. Ho bisogno di confidarmi con la parola scritta. La scrittura è un'amica fedele. Non ci sono omissioni, men che meno bugia. Le racconto i sogni, le aspirazioni, i desideri, le convinzioni, i dubbi, i sentimenti, le passioni, la vita. Non potrei vivere senza.
Arrivederci.

7 agosto 2011

I francesi amano la retorica

Finalmente, tra le viti a terrazze e i peschi a spalliera, apparve un contadino che dimostrava apertamente il suo malumore. Comunque al primo sguardo capii subito che si trattava di un caso di retorica. Mi piacciono i francesi perché amano la retorica e quando sono in Francia riesco a diventare io stessa retorica. In meno di un minuto il contadino si era ammorbidito, in meno di due era diventato cortese ed espansivo; in meno di cinque ci ritrovammo tra le mele e le pere che si stavano maturando sulle stuoie, i mantici sulfurei e la damigiane nel vano circolare della torre del castello, gareggiando l'uno con l'altro in eloquenza e distinzione dei modi.
Veron Lee, "Genius Loci", Sellerio 2007

6 agosto 2011

Ludwig Pinot Nero Alto Adige 2006 Elena Walch

Mauro Pasquali
Per me che amo ben pochi Pinot Neri italiani e, quei pochi, tutti provenienti da Mazzon, una piacevole conferma, questo Pinot Nero di Elena Walch. D’altronde siamo a Glen, pochi chilometri da Mazzon e, sebbene le due località siano separate dalla vallata di Molini, godono più o meno della stessa esposizione e, forse, della stessa composizione del terreno.
La scheda del vino recita: vigneti a 650 metri con esposizione sud-ovest, pergola di 38 anni e guyot di 9, maturazione per 14 mesi in barriques parzialmente nuove.
Ecco: il risultato è quello che mi aspetto da un Pinot Nero. Un bel colore trasparente, quasi scarico con venature granate. Un naso che si apre, quasi ritroso, con erbe aromatiche di campo, un che di balsamico, piccoli frutti rossi e, poi, cuoio, liquirizia, cacao ma in modo non invadente, giocando più sui toni dell’eleganza che della forza.
La bocca è piacevolmente equilibrata, a esaltare un’alcolicità non eccessiva, la sapidità e l’acidità. Il bel frutto croccante e la speziatura riempiono piacevolmente il palato e rimangono in bocca molto a lungo. Bel finale asciutto e pulito.
Un vino pronto, da bere con piacevolezza oggi, ma con una bella aspettativa di vita davanti a sé.
Due beati faccini :-) :-)

5 agosto 2011

Voilà, il tappo-sgabello

Angelo Peretti
Della serie: cose che un vero appassionato di vino non dovrebbe mai farsi mancare. Siòri e siòre ecco a voi l'unico, irrinunciabile tappo-sgabello in puro "sughero portoghese della miglior qualità". La pubblicità degli "extra large cork stools" - gli sgabelli a forma di tappo extra large - l'ho vista su Decanter. E da lì sono passato al sito The Wine Journal, che commercializza questi prodotti. E lì ho scoperto che per la modica cifra di 65,40 sterline ci si può accaparrare uno dei centottanta sgabelli a forma di tappo da Champagne da centimetri 50 (altezza) per 34 (larghezza), per un peso di 10,7 chili. "Robusti, stabili e innovativi", come dice l'annuncio, sono oggetti "super cool" e perfino "eco friendly", per via che, essendo in sughero, si possono totalmente riciclare. Ebbene, cosa aspettiamo a prendercene uno per il nostro giardino? Sai che gusto bere un bicchiere di bolle seduti su un super-tappo a fungo?
In alternativa, c'è uno sgabello-tappo raso che è costruito con mille tappi di sughero l'uno appiccicato all'altro (58,80 sterline) o un tappone-sgabello che riproduce un tappo di Bordeaux del 1989 (54 sterline), entrambi, come lo champagnoso, in soli centottanta pezzi. Un'occasione. Per chi ama il genere.

4 agosto 2011

Ma lo Chardonnay va nel bicchiere panciuto?

Angelo Peretti
Urca, adesso non capisco. Vabbé che generalmente faccio fatica a bere Chardonnay (sono un bevitore A-B-C: Anything but Chardonnay, qualunque cosa purché non sia Chardonnay). Capisco anche che gli americani amino invece gli Chardonnay, e soprattutto i loro, che a volte - spesso - ci van giù pesante col legno. Capisco tutto. Ma siamo sicuri che per bere Chardonnay occorre usare un bicchiere largo stile balloon?
Perché è esattamente quel che si vede sulla copertina del numero di luglio di Wine Spectator, la rivistona del vino a stell'e strisce. Numero che ha come cover story l'articolo su più di cento Chardonnay californiani valutati 90 e più punti. E c'è la foto d'un vin bianco che esce dalla bottiglia e finisce nel bicchiere. E il bicchiere è un bicchierone da rosso, un balloon, di quelli - bicchieri - che non mi piacciono proprio per niente, ché li trovo tremendamente scomodi.
Mi sbaglio io, oppure c'è da discutere sulla scelta iconografica di Wine Spectator? A meno che...
A meno che 'sti Chardonnay panciuti e cicciuti che vanno così bene negli States non siano, appunto, così grassocci e concentrati e legnosi che van serviti come fossero un rosso. Boh?

3 agosto 2011

Trovare un vecchio Chianti base e rileggere la guida

Angelo Peretti
Ecco, a volte ti capita di scendere in cantina e trovarci bottiglie che non ti ricordavi proprio d'avere. A me è successo con un Chianti dei Colli Semesi del Castello di Farnetella annata 1997, mica ieri. Ora, quest'è un vino "basic", e dunque berlo dopo tant'anni poteva essere una scommessa, al punto che ho portato con me un'altra bottiglia d'altro vino, temendo di trovarlo di là della sopravvivenza. E invece.
Invece il vino era in bella forma. Colore pressoché perfetto, rubino brillante con vene violacee e solo appena una sottile unghia aranciata. Naso e bocca tra il fruttato e il terroso, molto in linea con quanto m'aspetto dal sangiovese, soprattutto con qualche annetto. E un tannino vivo, integro, saldo. Unico peccatuccio: era un po' corto, ma mica si può pretendere, vivaddìo.
Per curiosità, ho voluto andare a vedere cosa ne avessero detto le guide d'allora. Ordunque, Gambero Rosso 2000, era lì che han recensito l'annata '97 del Chianti della Farnetella. Valutazione: un solo bicchiere. Testo: "Molto piacevole anche il Chianti Colli Senesi '97, un rosso che a sua volta fa della freschezza e di una bevibilità spensierata i suoi punti di forza". Be', se i vini "freschi e spensierati" sapessero tutti mostrare la sprepitosa tenuta di questo Chianti della Farnetella, direi che avremmo trovato la quadratura del cerchio.
Sommessamente dico: viva i vinini, se i vinini son questi. Pardon, codesti, alla toscana.

2 agosto 2011

Bag in box: chiamatelo bib

Angelo Peretti
Insomma, a me il bag in box piace, come soluzione per il vino "da tutti i giorni". Letteralmente, bag in box significa "borsa nella scatola". In effetti, il contenitore è fatto proprio così: una scatola di cartone con dentro una sacca di plastica alimentare nella quale viene immesso il vino. Il tutto è corredato da un rubinetto di plastica, che permette di spillare. Semplice. Con un vantaggio: man mano che il vino esce, la sacca si restringe e così non c'è contatto fra vino e ossigeno, e pertanto niente ossidazione. Dunque, il vino si conserva anche per settimane dopo la prima spillatura. E la scatola da 3 litri, secondo me la più pratica, sta perfettamente in frigo. Eppoi il riciclo a fine uso è rapido: si strappa il cartone, si toglie il rubinetto e i tre pezzi vanno nei contenitori della differenziata. Senza il peso e l'ingombro del vetro da buttare nelle introvabili campane.
Niente a che vedere coi brik in tetrapak: altro concetto, altra funzionalità. Meglio, molto, il bag in box.
Mi si dirà: roba da vinelli, roba da mercati di basso profilo. Obietto: nossignori. In Scandinavia il bag in box è un oggetto che invita alla convivalità, e loro, gli scandinavi, ci vogliono dentro vini di valore: si mette la scatola in mezzo alla tavola e si spilla a turno. E la diffusione non è limitata ai paesi non produttori di vino. Prendiamo la Francia: ormai il bag in box è entrato nell'uso comune. Le catene della gdo ne hanno decine e decine di referenze, allineate su intieri scaffali dei supermercati, di fronte alle bottiglie di punta. Impressionante. Ed impressiona anche vedere quanti ne vendono di bag in box: tra gli scaffali, i varchi lasciati dalle scatole vendute sono evidenti. E mica comprano i bag in box solo le casalinghe disperate o i pensionati. Un signore davanti a me alla cassa dell'Auchan di Mâcon aveva nel carrello una bottiglia di un rosé di un cru provenzale e anche un bag in box d'un altro rosé della stessa regione: probabilmente, la bottiglia per la cena festiva, la scatola per la bevuta domestica quotidiana. Eppoi nelle enoteche francesi i bag in box dei vini meglio griffati stanno in vetrina insieme alle bottiglie di valore. Durante una recente visita nel Jura ho visto che un po' tutti, anche qualcuno fra i più celebri vigneron indépendant, hanno una linea in bag in box, e non si vergognano affatto nel proporla insieme con le bottiglie. Insomma: i francesi ormai il bag in box - loro lo chiamano in sigla bib, e mi piace 'sto bib - l'hanno adottato seza problemi. Invece qui da noi siamo appena agli albori, ai primi balbettii. E i pochi bib che si trovano nella gdo in genere sono proposti accanto ai brik, alle dame da 5 litri, alle bottiglie si plastica, ai bottiglioni tappo-vite di vecchia generazione. L'immagine che diamo al bag in box, in Italia, è ancora quella del vino di caduta, di basso livello. Ed è un errore. Grave.

1 agosto 2011

Il tema è quello: la sostenibilità (e mi fa paura)

Angelo Peretti
Il tema è sempre quello: la sostenibilità. Parola magica. Se non fai viticoltura sostenibile, non vali niente. Se non fai vino sostenibile non sei nessuno. La nuova liturgia è questa. Sia chiaro: sono per le politiche sostenibili, sotto il profilo ambientale, umano, economico. Ma non deve diventare una moda. Invece lo sta diventando.
Ho sentito uno dei profeti della sostenibilità affermare che i cittadini vogliono che venga coniugata la sicurezza alimentare con la sicurezza ambientale. Bravo. Però.
Il però è che tutto questo ha un costo. Economico. Ma di questi tempi mi sembra che pochi siano in grado di permetterselo, questo costo. Dunque, mi sa di demagogia. Ti racconto la storia della sostenibilità e poi ti propino il prodotto industriale. Sano, sicuro. Impersonale.
Il fatto è che se fai vino - o qualunque altro bene agroalimentare, sia chiaro - nel pieno rispetto della sostenibilità, fai una bella cosa, ma fai una cosa cara. Cara di prezzo, intendo, perché cara di costi di produzione. Costosa. Dunque, solo chi ha quattrini può permettersi di comprarlo, quel vino, quel bene. Ma ad avere quattrini è sempre meno gente, perché così si vuole, perché i ricchi devono essere pochi. Dunque, non ci credo alle politiche di sostenibilità ad ampio spettro, alla sostenibilità di massa. Non ci credo perché non puoi produrre a costo elevato e vendere a prezzo basso. Perché altrimenti fallisci. Ma se invece i conti riesci a farli quadrare lo stesso, allora c'è qualcosa che mi rende sospettoso. Il rischio è quello delle scorciatoie. Per esempio gli ogm sono una scorciatoia. Massiva, per certi versi perfino sostenibile (maggiore resistenza alle malattie significa minore uso di fitofarmaci: è sostenibilità anche questa). È lì che ci vogliono portare? Credo di sì.
Ci porteranno lì prendendoci per necessità. Temo che questo sia il disegno. Per questo occorre eliminare quello che sin qui hanno chiamato il ceto medio. S'è deciso che non serve più. Che anzi è pericoloso, perfino destabilizzante. Ci si deve tornare a dividere fra ricchi - pochi, dicevo, sempre più pochi e più ricchi - e poveri.  S'è deciso che il divario deve aprirsi sempre di più. È questa l'essenza del progetto neoliberista.
S'è deciso che la libertà d'impresa non va più bene perché non è funzionale all'interesse delle multinazionali ed anzi ne disturba il dominio. S'è deciso che la libera attività della piccola impresa dev'essere gravata di lacci e laccioli, strozzata dalla burocrazia e dagli adempimenti formali, salassata da un fisco vorace, soggetta alla pressione costante e opprimente di una macchina pubblica implacabile nell'esigere il formalismo fine solo all'applicazione di nuove, irritanti, inutili sanzioni. S'è deciso che il welfare pubblico è non già un lusso, come ci raccontano, bensì un inciampo per le privatizzazioni che concentrano il controllo della sanità e della previdenza nelle mani di pochi. S'è deciso che il mais, la soia, il riso, il frumento devono avere pochi, onnipotenti padroni. Se controlli quelli, allora controlli anche la pasta, il pane, ma pure la carne, il latte (gli animali li devi nutrire). Di pochi deve essere il controllo dell'acqua. Anche il vino segue lo stesso destino, fatto da vigne tutte uguali, che producono uva tutta simile per fare vini su domanda, gestiti da pochi operatori che agiscono su larghissima scala. Anche per il vino, come per qualunque bene si debba usare per vivere, tutto deve concentrarsi sotto il controllo di pochi soggetti. Che daranno un nuovo ordine globale a questo povero mondo.
Sostenibilità, la chiamano, ed è un bel nome: suona bene, piace, ed è per questo che mi fa paura.