31 marzo 2011

Cade (finalmente) un tabù: due premi a un rosso bio in Tetra Pack

Angelo Peretti
Premesso che non credo ai concorsi enologici, e che anzi li considero il retaggio di una maniera vecchia e stantia di affrontare il tema vino, almeno qui da noi in Italia, dove spesso i produttori diventano todos caballeros o quasi (in Francia ci sono buoni concorsi, e spesso mi capita di comprarne le bottiglie medagliate), dico che accolgo con soddisfazione la doppia medaglia d'oro conquistata da un vino americano a ben due competizioni vinicole.
A dire il vero, la notizia non la do per primo, ché m'ha preceduto Intravino. Pazienza: l'importante è sottolinearla. 
Il vino in questione è il CalNaturale 2008, un cabernet sauvignon d'un unico vigneto, il French Camp Vineyard, all'interno della denominazione del Paso Robles. Ha vinto in questo primo scorcio del 2011 la Florida State Fair International Wine Competition e la Monterey Wine Competition. Sul sito dell'azienda vedo anche che lo stesso vino già aveva conquistato l'oro nel 2010 alla San Diego International Wine Competition. Più un paio d'argenti. Plurimedagliato.
Perché ne gioisco? Perché, leggo in un comunicato, questo è "il primo e unico vino della California fatto con uve da agricoltura biologica certificata e reperibile nella confezione in Tetra Pack amica dell'ambiente". Attenzione: quel che mi preme sottolineare non è tanto e solo il fatto che si tratti di un vino bio, bensì che lo si vende in scatola, nel Tetra Pack. Vivaddìo, finalmente cade un tabù!
Direte: ma 'sto vino com'è? Non lo so e temo che non lo saprò mai. Ma non m'interessa. Registro solo che, oh, sì, quei ce la tiriamo tanto coi vini naturali e coi tappi di sughero e con tant'altre ameni dibattimenti del genere, e quest'altri invece, di là dell'oceano, fanno vino bio e lo mettono nella scatoletta. Perché il vino, prima di tutto, è un alimento che si porta in tavola. Altro che evoluzioni fighette al tavolo con coltellino, cavatappi, decanter e via discorrendo.
Sia chiaro: amo che il vino stia nel vetro, perché, se possibile, adoro berlo in là con gli anni, e nel Tetra Pack non lo si puà far invecchiare. Ma chi mi legge lo sa: vorrei quanto meno la capsula a vite al posto del sughero. Avanti con la tecnologia, se è amica del vino, e la capsula a vite è amica del vino. E spazio al Tetra Pack e al bag-in-box quando ce n'è l'opportunità. Il resto temo che molto spesso sia fuffa. Perché finiamo far contare troppo spesso più la forma che la sostanza. E la sostanza sarebbe il vino.

30 marzo 2011

Marx sbagliava: la religione è il colesterolo dei popoli

Angelo Peretti
Ma, dico, l'avete letto di quella ricerca che hanno fatto alla Northwestern University, in America? Risulterebbe che "i giovani più legati alla Chiesa sono anche quelli che con più probabilità saranno obesi da adulti". Lo dimostrerebbe uno studio fatto su più di duemila e quattrocento persone che sono state seguite per la bellezza di diciott'anni (diciott'anni, accidenti!). Lo racconta la versione on line del Corriere della Sera (mica la Gazzetta di Roncobilaccio, voglio dire) che spiega che "mettendo a confronto i livelli di partecipazione ad attività religiose di giovani tra i 20 e i 32 anni d'età con il loro indice di massa corporea 18 anni dopo, i ricercatori hanno scoperto che tra i più religiosi la probabilità di essere obesi era del 50 per cento superiore".
Oh, signùr. Vabbé che le ideologie sono morte e sepolte, ma Carletto Marx ha sbagliato proprio tutto. Lui era convinto che la religione è l'oppio dei popoli. Invece 'sti qua dicono che la religione è il colesterolo dei govani. Ma per piacere…
Domando: ma c'è proprio proprio proprio mica di meglio da studiare coi soldi per la ricerca?

29 marzo 2011

Spumantisti, la data di sboccatura scrivetela in etichetta!

Angelo Peretti
Oggi rubo il pane: quel che vado a scrivere non è farina del mio sacco, bensì d'un altro wine blog, il TerraUomoCielo di Giovanni Arcari. Il quale ha lanciato una proposta che, per quel che conta, condivido e ripropongo. Questa: "E se la data di sboccatura diventasse obbligatoria?"
La sboccatura è quella "fase del processo di produzione degli spumanti con metodo classico (in francese dégorgement), nella quale si elimina la feccia dalla bottiglia dopo il processo di rifermentazione": la citazione virgolettata è presa dall'Enciclopedia del Vino edita da Boroli. Detta la definizione tecnica, aggiungo che è anche una delle fasi critiche per la nascita d'un vino con le bolle, ché è a questo momento che si decide se aggiungere o meno zuccheri nel liqueur d'expédition, e dunque se fare un vino più o meno secco o più o meno morbido.
Ma, a prescindere dal dosaggio del liqueur, è davvero importante sapere quand'è avvenuta la sboccatura? Sissignori, per me lo è, eccome. E lo è anche per Giovanni Arcari, che scrive così: "Una delle cose che ritengo indispensabili per capire e valutare questa tipologia di vini è la data di sboccatura, di dégorgement per i francesi. Certamente un dato fondamentale, poiché da sempre il vino è indissolubilmente legato al tempo e quest’operazione di espulsione dei lieviti dalla bottiglia, rappresenta l’elemento che un degustatore evoluto non può non tenere in considerazione. Non credete che uno Champagne o un Franciacorta possa evolversi o morire, cavalcando l’inesorabile corsa del tempo? Non credete possa essere quantomeno curioso, capire come la vostra 'bollicina' preferita sia in grado di mutare i propri aspetti organolettici, dopo un paio d’anni dalla sboccatura? Magari non sarebbe più la vostra preferita…"
Ebbene sì, sarebbe importantissimo sapere quand'è stata degorgiata quella bottiglia di bolle che stai per stappare, perché da quella data dipende lo stadio evolutivo del vino che ti troverai nel bicchiere.  In genere, io amo bere bolle che siano abbastanza vicine alla sboccatura: non mi pacciono i sentori troppo evoluti in uno spumante. Dico in genere, ché c'è sempre l'eccezione a confermare la regola. Ma quel che per me conta è la regola, mica l'eccezione, e la mia regola è una relativa vicinanza temporale alla data di sboccatura. Solo che mica sempre e mica tutti gli spumantisti la data di sboccatura la scrivono, anzi! Trovarla è una rarità, in Italia come all'estero, ed è un peccato.
Qualche produttore dice: basta guardare il numero del lotto impresso in etichetta, perché generalmente l'apposizione del lotto coincide con la sboccatura. Mica facile, però, leggerli i lotti: a volte ed anzi spessissimo son fatti in modo che li comprenda solo chi li ha scritti.
Ecco, credo che sarebbe ora di scriverla sempre e comunque la data di sboccatura, almeno sugli spumanti delle denominazioni più importati. Aspetto dunque con ansia che ci sia chi dà il buon esempio, aspetto il primo consorzio spumantista che prenda il coraggio a due mani e modifichi il disciplinare di produzione rendendo obbligatoria l'indicazione della data di sboccatura. Festeggerei con abbondanti calici di bollicine di quella denominazione.
E insomma, la mia risposta alla domanda di Giovanni Arcari, ossia se si debba pensare di rendere obbligatoria la scrittura della data di dégorgement, è un sì incondizionato. E lo ringrazio per aver sollevato la questione.

28 marzo 2011

Rilancio: e se invece il Vinitaly lo aprissimo la domenica e lo chiudessimo il mercoledì?

Angelo Peretti
Giovedì 7 aprile a Verona si apre la quarantacinquesima edizione del Vinitaly. E come ogni anno ci sarà chi dice che non si può mancare e chi afferma che non ci va neanche morto e chi sostiene che è un caos e chi assicura che se non ci vai non sei nel business, e via discorrendo. D'altro canto, non fa parlar di sé solo chi non conta, e se invece Vinitaly fa tanto parlar di sé è perché, evidentemente, conta.
Il problema, semmai, è che anche quest'anno il Vinitaly apre di giovedì.
E dunque avremo il solito tran tran, con gli affari che (se si fanno) si fanno dal giovedì al sabato mattina, e poi il sabato pomeriggio e la domenica c'è l'assalto della folla (ma non è una fiera solo per addetti ai lavori?) e il lunedì trionfa solo la stanchezza.Un anno fa la situazione la descrivevo così: "L'attuale formula funziona, ma scricchiola. Per più ordini di motivi. Il primo: la stampa e i buyer internazionali sono a Vinitaly dal giovedì al sabato. Poi rientrano, anche per questioni di voli (la domenica è più complicato). Poi: il sabato la fiera resta in balìa di troppi visitatori che col business e con la passione del vino non c'entrano niente (dice niente il numero degli sbronzi in giro per i padiglioni la sera?). La domenica è un bagno di folla, il che è positivo in termini di fidelizzazione del consumatore finale, ma non consente di fare affari: costo puro per i produttori (che tra l'altro la domenica, dopo tre giorni di fiera, sono già 'cotti'). Il lunedì è il giorno della stanchezza e dell'oblio, mentre dovrebbe essere la giornata dei ristoratori, che invece - con buona ragione, essendo gli espositori in smobilitazione - disertano".
E facevo una proposta: "Mettiamo invece il caso che si apra la domenica per chiudere il mercoledì. Il sabato potrebbero agevolmente arrivare gli operatori esteri e per loro - così come per la stampa di settore - si potrebbero allestire serate promozionali in città e nelle province vicine: un'occasione di business extra fiera in più. Per gli arrivi a Verona, il sabato ci sarebbe l'opportunità di sfruttare voli low cost, minor affollamento sui treni e autostrade meno trafficate. La domenica - con gli espositori ancora 'freschissimi' - ci sarebbe il consueto bagno di gente, ma senza i caciaroni-ubriaconi del sabato. La domenica costituirebbe poi un'occasione d'oro per i media generalisti, che troverebbero pane per la loro smania di folla e di gossip, con corrispondente visibilità della fiera. Dal lunedì al mercoledì si farebbe effettivamente business, oltretutto con la ristorazione che potrebbe 'riappropriarsi' della fiera".
Simili proposte arrivarono da qualche consorzio di tutela. Poi non ne ho più saputo nulla. Che sia il caso di rilanciare?

27 marzo 2011

Coteaux du Loir Pineau d’Aunis 2002 Domaine de la Charrière

Mario Plazio
A metà tra un rosso e un rosato, il pineau d’aunis è un vitigno semi-dimenticato che si coltiva nella valle del Loir, a nord della Loira e di Tours. Molto scorbutico, è in grado di rivelare rare emozioni presso quei produttori che lo sanno trattare e che ci dedicano preziose attenzioni.
Questo 2002 è evoluto (non è un vino da grandi invecchiamenti), profuma di spezie, pepe rosa in particolare, di frutta sotto spirito, di ferro e di ciliegia.A dominare il palato è una sferzante acidità che aiuta la progressione del liquido. I tannini sono appena accennati e il tutto è decisamente e gradevolmente rustico.
Una bottiglia da abbinare al cibo e da bere entro 3 o 4 anni dalla vendemmia.
Due – faccini :-) :-)

26 marzo 2011

La nuova moda americana: vino pre dinner

Angelo Peretti
Leggo che il 59% degli americani che consumano abitualmente vino in casa lo bevono da solo, magari mentre preparano la cena, o al massimo con uno snack. Ad affermarlo è un sondaggio di Wine Opinions, un'agenzia statunitense specializzata in ricerche sul mercato vinicolo.
Ecco, è per questo che continuo a dire che noi del vecchio mondo delle vigne e del vino non abbiamo chance se non quella di tornare a portare il vino al proprio posto: a tavola. Altrimenti saremo sempre schiavi delle mode americane: prima lo Chardonnay in barrique, poi i rossi concentrati e muscolosi e marmellatosi, poi il Pinot Grigio, adesso il bicchiere pre dinner. E poi a tavola ci si mette altro, magari gassato, magari dolce. Non abbiamo altra chance, ripeto, che favorire la riscoperta del vino della convivialità e della tavola. E seguiterò a scriverlo fino alla noia.

25 marzo 2011

Viva l'Italia dei cuochi e dei sommelier

Angelo Peretti
Leggo sempre con interesse La Madia, il mensile diretto da Elsa Mazzolini. La mia lettura parte dall'editoriale, e mica perché è il primo testo che compare sfogliando le pagine. Nossignori: la ragione è che la Mazzolini dice cose interessanti, sulla tavola, sulla cucina, sulla ristorazione.
Sul numero di marzo, per esempio, celebrando l'elezione di Massimo Bottura a "miglior cuoco del mondo" da parte dell'Accademia internazionale della cucina (sede a Parigi) e ricordando che un altro italiano (anzi, un altro emiliano-romagnolo, come Bottura e come la stessa Elsa) è stato proclamato "miglior sommelier del mondo", la direttrice si chiede, appunto: "Ora abbiamo il più grande sommelier del mondo e il più grande cuoco del mondo, ma pensate che questo cambierà qualcosa nelle strategie e nel sentire comune di chi ci governa?"La risposta - dico io - è tristemente scontata: no, l'avere due campioni del genere non ha cambiato e non cambierà nulla, stante l'ottusità della nostra classe politica. Checché se ne pensi dei concorsi e dei premi - ed io non sono di certo tra quelli che s'infiammano d'orgoglio per simili questioni, tutt'altro - non c'è dubbio che una simile accoppiata di vincenti - cuoco e sommelier - andrebbe sfruttata al meglio per un paese come il nostro, che di vino e di gastronomia ci vive. I francesi ci marciano su cose del genere, gli spagnoli anche. Noi niente: interessano altre cose, altroché.
"Sono anni - scrive la Mazzolini - che, dal mio modesto pulpito, predico che potremmo vivere quasi unicamente di enogastronomia e turismo, se solo li si considerasse patrimoni nazionali di vitale importanza. Possediamo, in entrambi i settori, i tesori più apprezzati al mondo. Eppure, guardate: l'ambiente si degrada ogni giorno irrimediabilmente sotto le più orrende speculazioni, il patrimonio artistico si sgretola, la nostra meravigliosa agricoltura è svilita e svenduta, la nostra ristorazione è solo una gallina da spennare e da ostacolare con burocrazie e balzelli insopportabili".
Vero, purtroppo vero. Ed è sconfortante.

24 marzo 2011

Champagne Brut 1990 Jacques Beaufort

Mario Plazio
Sono numerose le cuvée di Jacques Beaufort, questo produttore di Ambonnay. Questo ’90 proviene in particolare dai vigneti di Polisy.
È una bella sorpresa, a distanza di 20 anni mantiene una freschezza e una purezza che molti champagne più celebrati nemmeno si sognano.
I vini di questa maison sono piuttosto rustici, nel senso migliore e “contadino” del termine. Questa bottiglia è invece di una finezza che non mi aspettavo.
Al naso dominano gli agrumi (un bellissimo mandarino), mentre al palato si stagliano aromi di frutta secca e candita, spezie e cedro. La spuma è finissima, impalpabile. A colpire è però la grande spontaneità dell’insieme.
Una eccellente bottiglia, finita come da copione troppo presto.
Tre faccini :-) :-) :-)

23 marzo 2011

Ancora il terroir, ancora Nossiter: il gusto sia individuale

Angelo Peretti
Qualche giorno fa su quest'InternetGourmet dicevo del libro di Jonathan Nossiter, "Le vie del vino", edito da Einaudi, e di come in quelle pagine il regista - assurto a gloria fra gli enoappassionati per il suo film-documentario Mondovino - trattasse l'argomento del terroir. Con idee a tratti spiazzanti, intelligentemente.
Il tema del terroir è il filo conduttore della narrazione. Ed oltre ai passi che ho già citato allora, ce n'è un altro paio che vorrei porre all'attenzione di chi non si sia ancora cimentato nella lettura del volume.
C'è un certo punto in cui Nossiter scrive così, a proposito di certi vini troppo perfetti enologicamente e dunque omologati e privi d'anima: "È un po' come entrare al MoMA di New York e trovare non i Jackson Pollock e i de Kooning, ma delle copie ben fatte. Sempre copie sono. Peggio ancora: sarebbe come se le copie fossero presentate al pubblico come originali. E tali diverrebbero, per legge e per consuetudine. La gente assentirebbe, senza entusiasmo, per paura di affermare le proprie sensazioni, pur notando che i Pollock e de Kooning sono piatti, senza luce interiore, spenti. Temendo di 'sbagliare', di non essere 'certi del proprio gusto', lo abbandonerebbero, semplicemente. Oppure direbbero: 'Non provo nulla... Dev'essere perché non ci capisco niente. È colpa mia'. Ed ecco come si può nuocere in modo sottile al 'gusto' del pubblico. Glielo si toglie, lo si priva dell'affermazione della sua individualità, della sua libertà".
Ecco, sì: credo sia quello che è accaduto nel mondo del vino dalla fine degli anni Ottanta in poi, sotto la spinta di una critica pressoché globalmente orientata al "gusto internazionale". Il pubblico è stato spinto verso vini scuri, concentrati, alcolici, tannici, muscolosi, vanigliati, legnosi. Per timore di sbagliare, non si obiettava: si rischiava di far la figura degli stolti che non comprendono la grandezza d'un "tre bicchieri" o d'un "95 centesimi". Ma pian piano il vino è stato accantonato, messo in un angolo, perché divenuto incomprensibile.
Dunque, non è il formalismo stilistico, non è l'adesione al canone quel che conta. Quel che conta è la personalità del vino. E la lettura della personalità l'abbiamo smarrita per tanto tempo. Invece, come scrive Nossiter, "quello che conta è il terroir". Insomma, e cito nuovamente: "Un viticoltore sta a metà strada tra la levatrice e il mago. Senza la bacchetta magica, il terroir non si esprime. Quindi cosa scegliere, tra autore e terroir? Sono indispensabili tutti e due. L'uomo, senza contesto culturale, è perso, e ogni cultura, senza espressione individuale, è morta".
Ecco, il vino è un fatto culturale, prima di tutto. Ed è anche individuale. Riscopriamo il gusto. Il nostro.

22 marzo 2011

Cotes du Rhone Saint Esprit 2008 Maison Delas Frères

Mauro Pasquali
Il maestrale è un vento violento, temuto da tutti i velisti per le sue caratteristiche, che possono portare instabilità e temperature fredde. Temuto ma anche amato, al punto da dare il suo nome ad una barca a vela. In Provenza e un po’ in tutta la Francia del Sud il maestrale viene chiamato mistràl, che altri non è che la traduzione dell’antico provenzale maestral. Il mistral, provenendo da ovest, dall’Atlantico, entra nella Valle del Rodano scavalcando il Massiccio Centrale e acquista velocità, al punto da caratterizzare con tempeste di vento anche violente la zona. La zona è caratterizzata da una stagionalità delle piogge molto marcata e da temperature calde con grande insolazione.
I vigneti Saint Esprit si trovano nella parte nord del dipartimento dell’Ardèche, situato più o meno al centro della parte meridionale della Valle del Rodano. La maison Delas Frères è una grande azienda che nasce nella prima metà dell’Ottocento come négoce e che solo recentemente si è rinnovata nella direzione del rispetto della territorialità e delle caratteristiche di ciascuna zona in cui ha vigneti.
Il Saint Esprit è un syrah al 70% accompagnato da grenache al 20% e piccoli saldi di mourvedre e carignan. Il risultato è un vino caratteristico nei profumi e nel gusto cui il passaggio solo parziale in barriques non toglie freschezza e frutto.
Si apre al naso con aromi varietali dove la prevalenza del syrah si fa sentire: piccoli frutti rossi, violetta, liquirizia. Purtuttavia la grenache si nota sul fondo e marca in modo caratteristico con la sua freschezza e le sue note vinose. In bocca ampio e rotondo si distingue per la finezza e la facilità di beva. Bella lunghezza con finale asciutto.
Un beato faccino e quasi due :-)

21 marzo 2011

Ullallà, un Chiaretto con le bolle, ma del '94 (e forse del '91)

Angelo Peretti
Due premesse. La prima: mi sarebbe piaciuto che a bere 'sto vino ci fosse stato anche Franco Ziliani perché ne potesse scrivere su Le Mille Bolle Blog, dove parla di bollicine classiche. La seconda: sono in pieno conflitto d'interesse, visto che è un'etichetta della "mia" denominazione, ma siccome è un vino che non c'è più, che insomma non è in commercio, e siccome ancora la cosa l'ho trovata assolutamente di là da ogni mia previsione ed ipotesi, be', non riesco proprio a resistere e ne scrivo.
Ora, la faccenda è questa: accompagnavo un giornalista del vino, un collega, a visitare Monte Saline, l'azienda bardolinista di Romano Giacomelli, a Cavaion Veronese. Romano è da più di mezzo secolo sperimentatore e produttore d'un Chiaretto spumantizzato col metodo classico, e mentre chiacchieravamo di bollicine e di rosati, ha tirato fuori da un ripostiglio una boccia che ci ha lasciati tutt'e tre - lui per primo, e anche il collega e me - affascinati e stupiti.
Era un Chiaretto Spumante, certo. Ma la sboccatura risaliva al 1994. Il che vuol dire che il vino di partenza era del '91 o del '92. Sissignori, un Chiaretto bardolinista d'inizio anni Novanta. Con le bolle.
Se ha resistito? Macché resistito: era spettacolare. Ed è un peccato che Romano non ne abbia in cantina, ché non rinuncerei a comprarmene una cassa.
Ora, che un Chiaretto superi i vent'anni e si ripresenti dopo così tanto tempo in forma perfettissima, be', non me lo sarei mai neppure immaginato. Vero, Chiaretto metodo classico. Ma proprio non pensavo. E dunque dovrò rivedere le mie idee sui vini della mia stessa terra, accidenti.
Ora, cerco di darne la descrizione.
Colore fra il rosa antico e il dorato, elegantemente.
Naso avvolgente di spezie e miele di castagno e fiori appassiti e petali di rosa.
Bocca cremosa. Ancora tanta spezia dolce. La ciliegia, la fragola disisdratata. E il croissant burroso, la vaniglia, la crema inglese. E un che di mandorla, anzi, di confetto alla mandorla. E poi il petalo di rosa, o forse il rosolio. E la nespola del Giappone. E un pizzico di timo. E il sale. Già, il sale, che caratterizza i vini più autentici del territorio gardesano.
Non me lo sarei aspettato, già. Che sorprese che ti sa dare, il vino, quand'è fatto con passione. La passione di Romano per la bollicina autoctona. Bravo.

20 marzo 2011

Ipotesi viadotto sulle vigne: la Strada del Soave prende posizione

Angelo Peretti
Oh, bene! Qualche giorno fa riportavo la notizia del progetto di un viadotto alto diciassette metri che si vorrebbe far passare sopra le vigne del Soave. Ed auspicavo che il mondo del vino soavista prendesse posizione.
Ora la presa di posizione c'è, ad opera della Strada del vino Soave. Ne dà notizia un comunicato stampa che dice così: "Un viadotto alto 17 metri tra i vigneti del Soave, meta di migliaia di turisti ogni anno? No grazie! Anche il Consiglio della Strada del Vino Soave, riunitosi giovedì 10 marzo scorso, si schiera con Provincia, Comuni di Soave, Monteforte e Belfiore nella battaglia contro il progetto di far passare la sopraelevata su viadotto. 'Il nostro territorio basa la propria economia sulla produzione di vino e sull'enoturismo e un obbrobrio di cemento di quella portata - afferma Paolo Menapace, presidente della Strada - avrebbe un impatto devastante sul paesaggio delle colline del Soave, con gravi effetti sia sull'ambiente che sul turismo'. 'Il Consiglio ha già indetto un'Assemblea degli oltre 100 soci per il 30 marzo in cui si parlerà della sopraelevata - afferma Menapace -, nel frattempo, ci uniamo alla richiesta che il sindaco Gambaretto ha fatto al Ministero dell'Ambiente nonché all'assessore regionale Renato Chisso di capire se l'ipotesi della sopraelevata su viadotto sia veritiera. Nel qual caso - conclude Menapace - faremo fronte comune per opporci a questo scempio ambientale e per far passare la tangenziale in galleria o con un tracciato diverso'."
Bene. Speriamo che si faccia fronte comune.

Colli Berici Tocai Rosso Colpizzarda 2005 Dal Maso

Mario Plazio
Non ho ancora capito se il Tai Rosso (all’epoca si poteva ancora chiamarlo Tocai) è “il vino” dei Colli Berici. Certo rappresenta una opportunità da esplorare. Appunto, una opportunità. Non ancora una realtà diffusa. Si è infatti tentato di passare da anonimi rosatelli da trattoria a vini di concentrazione mostruosa, neri come la pece e dopati da dosi di legno del tutto inutili. Forse, come spesso accade, la verità è nel mezzo.
Va apprezzato comunque lo sforzo di ricerca fin qui profuso, sperando che molti altri produttori si inseriscano in questo filone apportando nuova linfa e un vitale spirito di concorrenza.
Tra i primi a credere nel progetto Tai Rosso va annoverato Dal Maso, che qui propone una versione, la 2005, dai toni muscolari. È un vino per palati robusti, dentro c’è tanto di tutto, legno, materia, confettura, alcol. Manca invece l’eleganza e la bevibilità, che speriamo arrivino dalle versioni successive.
Un faccino e mezzo :-)

19 marzo 2011

E adesso a Soave ci sono due associazioni di vigneron

Angelo Peretti
Mmh, qui la storia si fa complicata. A Soave adesso ci sono due associazioni di piccoli produttori. Una fuori dal consorzio di tutela, l'altra dentro. Dichiaratamente fuori consorzio (ma in realtà mi pare che l'uscita avvenga solo a fine anno, visto il regolamento consortile) sono i Vignaioli del Soave, che aderiscono alla Fivi, la Federazione italiana dei vignaioli indipendenti. Dentro al consorzio c'è il neonato team di Soavecru. Tutt'e due i sodalizi hanno al loro interno microaziende sconosciute, ma anche nomi di punta della produzione soavista. Tutt'e due hanno un logo da riportare sulle bottiglie: i Vignaioli del Soave usano il marchietto della Fivi, mentre i vigneron di Soavecru hanno previsto un marchio tutto loro.
Tutt'e due le associazioni sostengono di volere il bene del Soave e s'impegnano per la difesa del territorio. I Vignaioli sul loro sito internet dichiarano: "La missione principale dell’associazione dei Vignaioli del Soave è quella di ridare dignità al vino Soave agli occhi del consumatore, attraverso un’operazione di trasparenza e di informazione. I Vignaioli del Soave si assumono la responsabilità della propria attività nel rispetto dell’ambiente, nell'equilibrio dell’eco sistema, dell'intero ciclo produttivo nei confronti dei consumatori sensibili e interessati a conoscere l’origine e la tracciabilità produttiva del vino e garantiscono la qualità dello stesso.". I soci di Soavecru nel loro primo comunicato stampa dicono: "Nostro obiettivo è rispondere alle nuove esigenze del mercato e interpretare un grande vino, il Soave, già nel 1931 ridefinita come prima zona tipica di vini pregiati italiani. Il nostro approccio è nuovo perché abbiamo scelto di creare una forte sinergia tra piccoli produttori uniti dall’amore per la propria terra e dalla volontà di tramandare un ambiente sano e ben conservato ai nostri figli". Bene, sono convinto che dopo aver fatto queste dichiarazioni li vedremo fianco a fianco a difendere il territorio soavese dall'incombente minaccia di un viadotto alto diciassette metri. O no?
Detto questo, la domanda è: chi sono gli uni e gli altri? Vedo di elencarli.
Ai Vignaioli del Soave aderiscono: Ca' Rugate, Inama, Nardello, Pieropan, Prà, I Stefanini, Strele, Tamellini, Tenuta Grimani, Tessari, Villa Mattielli, Dama del Rovere.
A Soavecru aderiscono: Portinari, Dal Cero, Gabriele Martinelli, Villa Canestrari, Montetondo, Antonio Fattori, Vicentini, Le Mandolare, El Vegro, Tenuta Solar, Balestri Valda, Maria Patrizia Niero (Corte Moschina), Antonio Franchetto, Corte Mainente, Corte Adami, Gini.
In bocca al lupo a tutti quanti. Che vinca il Soave.

18 marzo 2011

Ma la solitudine del vino, per favore, quella no

Angelo Peretti
Non conosco Fabio Pracchia, salvo averlo forse incrociato occasionalmente. Gli riconosco peraltro un merito: quello d'animare con le sue riflessioni Slowine, il sito "enoico" di Slow Food, di cui è caporedattore. Lo seguo volentieri. E con questo non voglio dire d'esser sempre d'accordo con lui. Per esempio, non sono d'accordo con la visione del vino che ha espresso di recente in un pezzo titolato: "Il miglior matrimonio tra cibo e vino? La separazione". Dice: "Esiste l'abbinamento perfetto? Probabilmente un bravo sommelier è capace di voli pindarici nel cercare l'equilibrio tra vino e piatto. Invece le accolite di appassionati di vino, tra i quali ci sono anche io, stappano memorabili annate in serie senza pensare nemmeno che tipo di cibo possa accompagnarsi a tali nettari". E poi: "Credo che i grandi vini possano volare da soli, senza piatti prelibati, ai quali va comunque tutto il mio rispetto, ma solo se compresi nella loro unicità ed essenza. Questa per me è la celebrazione di una grande bottiglia".
Ecco, non sono d'accordo, perché - l'ho già detto altre volte, e l'ho ribadito di recente qui su InternetGourmet - per me il vino nasce per il cibo, ed è col cibo che s'esprime. Certo, se la mettiamo sul piano della ricerca dell'abbinamento "perfetto", be', allora concordo: son cazzate. Nel senso che non mi va che il mangiare e il bere diventino motivo d'intellettualismi razionalistici: non sono una scienza esatta, ed anzi è il gusto personale che deve prevalere. Ma non ho dubbi: il vino lo capisci appieno col cibo. Altrimenti si rischia di nuovo di tornare nel campo del cerebralismo. Eppoi non ho dubbi: un bel vino sta praticamente con tutto, escluso il dessert. Ci sarà un abbinamento che ti convince di più, un altro che ti va di meno, un altro ancora che proprio non t'aggrada. Ma è lì, a tavola, col cibo il luogo dove il vino esprime compiutamente se stesso.
Questo non vuol dire che un buon vino non lo si possa aprezzare anche "stand alone", da solo, senz'accompagnamento mangereccio. Ci macherebbe altro! Vivaddìo, la piacevolezza mica per forza deve passare per la tovaglia. E dunque ben venga condividere una buona bottiglia, accompagnandola con la conversazione, il confronto, l'incontro. Ma insisto: questa condivisione meglio s'esprimerebbe - ma è parer mio - condita con la convivialità, con lo spezzar d'un pane e lo sbocconcellar d'un formaggio, se proprio non con una cena. Se si può, niente solitudine del vino.
Mie opinioni, ovviamente. E comunque seguiterò a leggere con interesse il sito del vino della chiocciolina.

17 marzo 2011

Il lessico e il linguaggio nel vino: un post da leggere

Angelo Peretti
In febbraio, Franco Ziliani se n'è inventata una delle sue. Ha lanciato l'idea dell'ospite e l'invitato. Che sarebbe uno scambio di post fra wine blogger. Ho avuto il privilegio d'essere protagonista del primo appuntamento: Franco ha scritto un post sul vino dell'unità d'Italia per il mio InternetGourmet e io, contraccambiando con piacere, ho scritto qualcosa sui vini naturali per il suo Vino al Vino. Oggi, la bella sorpresa: seconda puntata su Vino al Vino con uno splendido intervento di Mauro Erro, patron del wine blog Il viandante bevitore. Titolo del post di Mauro: "Il lessico e il linguaggio nel vino". Consiglio caldamente di andare a leggerlo: è un pezzo esemplare.

Ma un vino dell'unità d'Italia per fortuna non c'è

Angelo Peretti
Qualche tempo fa, Franco Ziliani scriveva su questo mio InternetGourmet un pezzo in merito al vino dei 150 anni dell'unità d'Italia voluto dalle Città del Vino. Una trovata, 'sto vino unitario, che anch'io ritengo completamente inutile e per di più retoricamente fastidiosa. Ho letto peraltro qui e là che c'è pure chi s'è sbizzarrito a far sondaggi su quale sia il "vero" vino dell'unità nazionale, e i più hanno indicato come emblema il cavouriano Barolo. Ora, lasciate che in questo 17 marzo celebrativo del secolo e mezzo dell'Italia dica pure io la mia sul vino nazional-unitario. E la mia è questa: grazie al cielo un vino che rappresenti l'unità d'Italia non c'è. Sì, grazie al cielo, perché se c'è una cosa che fa bella l'Italia è il suo essere la terra dei cento, dei mille campanili, e dei cento e dei mille formaggi, dolci, vini, frutti, e delle cento e mille lingue, culture, tradizioni, usanze. Ecco: è questa la bellezza dell'Italia, quel che la rende unica al mondo. Magari difficilmente gestibile, certo, ma irripetibile. Sissignori. Valorizziamola, la diversità!
Credo fermamente nel principio di sussidiarietà, quello secondo il quale prima di tutto viene la persona e poi le aggregazioni via via crescenti delle persone - la famiglia, le associazioni - e poi gli enti locali, e poi quelli sovralocali, e poi le istituzioni nazionali e poi quelle internazionali, in una specie di continua successione di cerchi concentrici nei quali tuttavia il più importante non è quello più ampio, bensì quello che viene subito prima. E il cerchio superiore interviene solo quando quello inferiore non può autodeterminarsi, non può insomma essere in grado di arrangiarsi da solo. Teoricamente, anche l'Italia i padri costituenti l'hanno concepita così. Teoricamente.
Ebbene, se credo in questo principio, come posso non essere sostenitore di quelle meravigliose diversità che vengono dai territori, dalle comunità di persone, dalle persone stesse? E nel mondo del vino, come posso non pensare che la bellezza stia nella splendida diversità di ciò che i francesi chiamano terroir, che prima di tutto si basa sulle persone e sulle comunità delle persone?
Nossignori: neppure se mi pagassero oggi stapperei uno pseudo-vino dell'unità nazionale. Scenderò invece in cantina a prendere qualche bottiglia a caso fra quelle provenienti dalle più diverse zone di questa multiforme Italia. Magari un rosso da uve langarole di nebbiolo insieme a un bianco avellinese fatto col fiano e ad una bolla lambruschista emiliana e ad un sangiovese toscano e ad un passito siciliano, chissà. Sì, ne prenderò alcune a caso, ché casualmente son finite insieme sulle scansie. E festeggerò a mio modo, brindando all'imperfetta bellezza della diversità italiana.

Testo e foto: t(Re)

Enrico Lucarini
O meglio 3. Già, tre spessori in un’unica pasta. Questo il segreto che una sera il signor Benedetto Cavalieri in modo quasi carbonaro ci rivelava: le ruote pazze (questa è la denominazione del formato) sono meravigliose perché han tre spessori differenti. I raggi son più sottili e risulteran ben cotti, il “battistrada” leggermente più spesso sarà al dente, ed il mozzo più che al dente. Vero. Deliziosamente vero. E la forma seduce e cattura la salsa, ed il dimensionamento è perfetto per il boccone. Il re dei formati.
È bello trovare la perfezione nelle piccole cose: in un numero o in una pasta dalla forma scherzosa.
Visto che ci siamo, complici col condimento abbiamo tre colori freschi di giornata: verde, bianco, e rosso.

16 marzo 2011

Il terroir è un concetto dinamico

Angelo Peretti
Mi è venuto in mente ieri leggendo quel che Mario Plazio scriveva su quest'InternetGourmet a proposito del Mas de Daumas Gassac e di Mondovino. Ecco: non ho mai visto Mondovino. Massì, il film-documentario di Jonathan Nossiter, presentato fuori concorso al Festival di Cannes, e che fece grande scalpore. Un atto d'accusa verso quella globalizzazione del vino, quella corsa al gusto internazionale che ha infatuato i produttori di mezzo mondo (e anche più di mezzo).
Ho però letto proprio in questi giorni "Le vie del vino. Il gusto e la ricerca del piacere", il libro di Nossiter uscito in Italia per Einaudi nella collana Stile libero extra. Vorrei dire che è un libro-documentario. Nel senso che indugia sul racconto degli incontri avuti durante la lavorazione di Mondovino. E li narra come potrebbe avvenire in presa diretta davanti alla macchina. In questo rischia d'essere autoreferenziale, e a tratti francamente un po' noioso. Però qui e là ci sono dei lampi di genialità, e non poteva essere altrimenti, sapendo l'approccio originale dell'uomo. Per cui comunque la lettura è consigliata. Anzi, per certi versi raccomandata, soprattutto per quelle pagine nelle quali Nossiter si sofferma a dare la propria interpretazione del concetto di terroir.
Ne riporto qui di seguito un paio di brani, che ritengo possano essere elementi di riflessione per chiunque ami davvero il vino.
"La difesa del terroir non è sinonimo di attaccamento reazionario e ostinato alla tradizione. Anzi. È una volontà di procedere verso l’avvenire rimanendo saldamente radicati in un passato collettivo, in cui le radici possono crescere, spingersi liberamente in superficie, nel presente, per creare un’identità ben definita e meritata”.
“Il terroir non è una cosa fissa, in termini di gusto o di percezione delle cose. È una forma di espressione culturale che non ha mai smesso di evolvere”.
“Nella misura in cui appunto né il terroir, né la natura, né gli uomini sono cose fisse, e in cui il vino stesso è destinato ad essere consumato – cioè a scomparire – un vino di terroir è per definizione una fonte di memoria indefinibile e non quantificabile. Per il più grande cruccio dei razionalisti e pragmatici di ogni campo, ossessionati dalle classificazioni e dai criteri assoluti – e per la gioia di tutti gli altri”.
Dunque, tre sono le considerazioni attorno alle quali ruota l’idea di terroir proposta da Nossiter.
La prima: il terroir appartiene ad una collettività, e quindi non ad un suolo o ad un vitigno o ad un clima, e nemmeno alla pura interazione tra questi elementi materiali, come ci vorrebbe far credere un certo razionalismo agronomico ed enologico di stampo italiano. E su questo concordo assolutamente, e ne ho scritto più volte.
La seconda: il terroir non è un concetto statico, bensì dinamico, poiché, appartenendo all’uomo e alla collettività, si trasforma con questi, così come si trasforma ciò che appartiene alla sfera della cultura. Non ci avevo mai pensato e devo rifletterci sopra parecchio. Ma è un concetto profondo. Per ora, non propongo alcuna considerazione al riguardo. Ma sono spiazzato, e amo quando un’idea è capace di offrirti un nuovo punto di vista.
La terza: il razionalismo e il pragmatismo non riusciranno mai a spiegare il terroir. Qui ovviamente sono concorde, e del resto lo si capisce da quanto ho scritto sopra.
Be’, basterebbero tre idee del genere per giustificare la lettura di un libro.

15 marzo 2011

Vin de Pays de l’Hérault Rouge 1994 Mas de Daumas Gassac

Mario Plazio
Dall’arcinemico della famiglia Mondavi (vedi Mondovino), quell’Aimé Guibert che ha impedito ai noti produttori americani di mettere radici nel sud della Francia ad Aniane, a pochi passi dal suo Mas de Daumas Gassac, un vino dal profilo elegante e raffinato.
Il lato più interessante di questo Rouge è che riesce alla perfezione a fondere il classicismo bordolese con il carattere più sudista rappresentato dal territorio.
A suo tempo Guibert fece scalpore piantando cabernet sauvignon in una zona dedita a tutt’altre uve. Il clima freddo della valle del Gassac era però ideale per le uve bordolesi, i cui aromi e freschezza risultavano preservati dal suolo e per l’appunto dal microclima del tutto particolare. Ecco allora che accanto al pepe nero e ai piccoli frutti troviamo il cuoio, il cacao, la menta secca e la liquirizia.
L’aspetto più austero si rivela al palato, dove i tannini fanno sentire la loro presenza e l’acidità concorre ad alimentare la freschezza. Il rovere è perfettamente dosato e la mineralità nel bicchiere è crescente. Un pizzico più rustico di un Pauillac, ma comunque una gran bella bottiglia. E vivaddio originale.
Tre faccini :-) :-) :-)

14 marzo 2011

Olio extravergine di oliva Veneto Valpolicella 2010 Bonamini

Angelo Peretti
Quando si parla della responsabilità sociale d'impresa - ci hanno scritto dei volumi e organizzati convegni su convegni - s'intende che un'attività imprenditoriale ha sempre e comunque un impatto diffuso sul territorio, sulla gente che ci vive e su una pluralità di soggetti che in inglese si chiamano stakeholder, ossia "portatori d'interesse": dipendenti, clienti, fornitori, istituzioni pubbliche, comunità locali. Mi viene in mente questo pensando a certi frantoi oleari delle mie terre, che supportano la passione di centinaia di piccoli e talvolta piccolissimi olivicoltori, gente che magari ha dieci, venti ulivi, mantenuti con passione tramandata in famiglia, oppure semplicemente piantati in giardino a scopo ornamentale, ma comunque produttivi. Ebbene, questi frantoi "di periferia" hanno una funzione sociale diffusa: permettono alla tradizione olivicola di sopravvivere e in una certa misura facilitano indirettamente la conservazione di quel che resta del paesaggio agrario. Uno di questi frantoi è quello che i Bonamini hanno ad Illasi, nell'est veronese: indubbiamente punto nodale della marginale ma interessante olivicoltura della vallata e delle valli confinanti.
I Bonamini - non ho dubbio al riguardo, ché ne conosco la produzione ormai da un decennio - lavorano bene. Per sé e per gli altri. E fanno, a loro marchio, un pregevole extravergine nella dop del Veneto, sottozona della Valpolicella.
Ha, quest'olio valpolicellese (della Valpolicella "allargata" se parlassimo di vino) una limpida e brillante colorazione gialla.
Propone all’olfatto piacevoli, freschi sentori agrumati di limone (è il tratto distintivo delle olive della varietà locale del grignano) uniti a memorie floreali ed a tracce erbacee.
La freschezza vegetale è ancora meglio espressa al palato, dove le note erbacee si fondono con accenni di basilico e ancora di foglia di limone in un mix di bella eleganza. La pasta, sottile, è innervata da una piccantezza ben modulata. Lungo il finale sui toni della frutta secca.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

13 marzo 2011

Mozart, il Marzimino e il farfallone

Angelo Peretti
Non lo sapremo mai se l’eccellente Marzimino citato nel Don Giovanni di Mozart fosse quello di Isera o l’altro di Refrontolo. Vicino a Refrontolo c’era nato Lorenzo Da Ponte, il librettista, però presso Isera c’era stato Mozart, da giovane. Magari la parola serviva semplicemente per far rima con “versa il vino”.
Quando transito vicino ad Isera, lungo l’autostrada del Brennero, mi viene spontaneo canticchiare, ma solo se viaggio da solo, “in Italia seicento e quaranta; in Almagna duecento e trentuna; cento in Francia, in Turchia novantuna; ma in Ispagna son già mille e tre”. Poi passo al “non più andrai, farfallone amoroso”, che tuttavia non è nel Don Giovanni, ma nelle Nozze di Figaro.

12 marzo 2011

Champagne Cuvèe Vive Grand Cru Extra Brut Claude Cazals

Mario Plazio
Bella scoperta questa cuvée dal piccolo prezzo (credo costi intorno ai 15 euro in cantina), ma di grandissima soddisfazione.
Se amate gli Champagne minerali, diritti, gessosi e salati, questa etichetta non deve sfuggirvi. Un vino perfetto, senza fronzoli, grande da aperitivo e da pesce crudo.
Credo sia un 100% chardonnay proveniente da Mesnil-sur-Oger, e quindi vanta un pedigree di assoluto prestigio.
Un altro piccolo produttore di sicuro interesse. Spero di poter assaggiare presto il resto della sua produzione.
Due faccini e mezzo :-) :-)

11 marzo 2011

Diciassette metri di viadotto tra le vigne del Soave?

Angelo Peretti
L'Arena è il quotidiano di Verona. In prima pagina, in alto, ieri titolava così: "Sì al viadotto 'mostro' tra i vigneti del Soave". Spiegava: "La tangenziale sopraelevata tra Soave e San Bonifacio, alta 17 metri che dovrebbe 'atterrare' fra Villanova e Monteforte, sarebbe già stata approvata, addirittura l'estate scorsa, dalla commissione di Valutazione ambientale nazionale (Via) del ministero dell'Ambiente, nell'ambito del Sistema di Tangenziali Venete. Secondo le indiscrezion si sarebbe già all'ultimo passo, prima dell'attuazione, anche se né dicastero né Regione hanno comunicato l'ultimo progetto varato a livello nazionale, a comuni e Provincia".
Scrive nell'articolo di approfondimento Zeno Martini: "Secondo le indiscrezioni che arrivano da Roma, la struttura su piloni dovrebbe alzarsi dal piano di campagna prima della ferrovia, superare il cavalcavia sulla regionale 11 dopo il casello autostradale, proseguire in sopraelevata oltre il Tramigna e le abitazioni del piano di recupero 'Fornace' a Soave e scendere tra Villanova e Monteforte, proprio dove si sono verificati i danni peggiori nella recente alluvione di novembre".
Di fronte alle colline della zona classica del Soave e in mezzo alle vigne della zona doc passerebbe dunque una nuova strada. Il Veneto ha bisogno di normalizzare la sua viabilità, ma certe scelte appaiono incomprensibili. Questa è incomprensibile, ma mi piacerebbe che i produttori del Soave dicessero la loro, facessero sentire una voce. Magari unanime. Fatevi avanti!
Non vorrei che invece passasse l'idea dell'ineluttabilità delle scelte della politica. Non vorrei prevalesse lo scoramento. Del resto, le vigne sembrano avere poco potere contro le strade. In Lugana l'alta velocità potrebbe portarsi via ettari di vigneto. Nel territorio dei grandi bianchi della Mosella c'è il progetto di un mostruoso ponte, probabilmente inutile, su alcuni dei più grandi cru del riesling.
Nel nome del progresso. Probabilmente, un malinteso progresso.

10 marzo 2011

Pensiero ancora più cattivo: e se le annate son dopate?

Angelo Peretti
E già, me lo son chiesto ieri su queste pagine virtuali: ma siamo proprio sicuri che noi che in Italia scriviamo di vino - o proviamo a farlo - le sappiamo leggere le annate?
Di suo, l'interrogativo dovrebbe essere - o almeno così ritengo - di quelli da far tremare i polsi. Ma Stefano Menti, vigneron, nel suo commento, ci mette un carico (si usa dire da prte di chi gioca alla briscola) evidenziando un altro limite, che è dettato dalla legge: ossia, secondo le norme nazionali, nel vino di un'annata è lecito farci entrare una parte - non irrilevante - di vino d'altra annata. Doping giuridicamente lecito, che complica ancora di più le cose, e rischia di fatto di rendere scarsamente leggibile, sotto il profilo critico, qualsivoglia millesimo.
Sarà mica per questo che per miracolo si fan vini concentrati e robusti e cicciosetti anche in quelle vendemmie che son di stagioni in cui c'è stata pioggia e grandine?
Oh, sì sì, ci sono in giro - eccome! - i geni della rinfrescatina dell'annata stanca. Mica è reato, nossignori. Ma poi stiamo qui a disquisire di identità, naturalità, terroir, vendemmia...

9 marzo 2011

Pensiero cattivo: ma le sappiamo davvero leggere le annate?

Angelo Peretti
Mi viene un pensiero cattivo, e cioè che molti di noi che scriviamo di vino in Italia abbiamo un difetto: non sappiamo leggere le annate. Non ci siamo allenati. Oppure ce ne dimentichiamo. O non siamo sufficientemente informati, e neppure veniamo informati, perché - si sa - ogni annata qui da noi è l'annata del secolo.
Lo dico rileggendo alcuni report delle anteprime delle varie denominazioni in questi ultimi anni: sono andato a riguardarmene un po' così, per sfizio, per cavarmi una curiosità.
Emergono spesse volte i vini perfettini. E l'imperfezione dell'annata, invece, dove sta? Non è che alla fine, a forza di cercar la perfezione, si finisce per "premiare" soprattutto la mano enologica, il lavoro di cantina? E il tempo, il clima, il sole, la pioggia?
Pensiero cattivo, sì, che mi mette in crisi.

8 marzo 2011

Sicilia Nero d'Avola Niuru 2008 Vero Vini

Angelo Peretti
Vero Vini è l'azienda che Angela Galia conduce a Paceco, nel Trapanese. Tempo fa ne no scritto parlando del suo Marsala, che m'era piaciuto. Avevo invece un certo timore ad affrontare questo rosso siciliano, un Nero d'Avola igt del 2008. Perché - chi mi segue lo sa - faccio un po' fatica a legare coi rossi strutturati, e qui mi trovavo a che fare con una bottiglia dal vetro pesante e dal colore impenetrabile e con un etichetta che, a mo' di warning, diceva che c'erano dentro 14 gradi di alcol, e son mica pochi, eppoi c'era perfino quel nome, Niuru, che significa "nero", se il mio scarso siculo d'impronta soprattutto camilleriana non mi induce in errore. Insomma, un sacco d'indizi che mi mettevano poca voglia.
Dunque, dopo averla messa sulla credenza e tenuta lì per un paio di settimane, mi sono deciso a stapparla. E ho cominciato a ricredermi già da subito dai miei pre-giudizi (col trattino: giudizi aprioristici), vedendo il vino nel bicchiere. Ché mica era scurissimo come me l'aspettavo, ma anzi d'un rubino-violaceo brillante, perfino cristallino.
Eppoi il profumo. Sì, la prugna, certo. E anche direi un po' l'amarena. Ma soprattutto un che di spezia, avvolgente. In bocca tornano frutto e spezia - ma che spezia è? non l'ho individuata, accidenti! - eppoi ci sono il tabacco, dolcissimo, da pipa e una florealità che non t'aspetti da un rosso. Il tannino non è ancora del tutto domo, e dunque penso che un altro po' di vetro gli farebbe bene. Ma non avverti bruciore alcolico.
Buon bicchiere.
Due lieti faccini :-) :-)

7 marzo 2011

Gigondas 1995 Domaine Saint Gayan

Mario Plazio
Semplicemente uno dei più buoni vini di questi ultimi mesi. Produttore che più tradizionale non si può, vino elevato in botti grandi e frutto di una unica cuvée di tutte le uve di proprietà a Gigondas (ricordo la cattiva abitudine di moltiplicare le etichette con diciture del tipo Vieilles Vignes, Réserve, ecc. con l’unico scopo di vendere le bottiglie più care).
Brillante e raffinato, respira i profumi del territorio che vanno dalle essenze della garriga alla oliva nera (tapenade), dal pepe bianco al minerale sottoforma di nota ferrosa evidente.
Perfettamente evoluto, al palato è pura seta, esemplare, manca qualsiasi asperità. Amarena e fiori caratterizzano l’uscita, l’insieme è quanto di più elegante si possa immaginare.
Un vino sudista dagli accenti nordici.
Ricordo infine che in cantina costa davvero poco.
Tre faccini :-) :-) :-)

6 marzo 2011

Olio extravergine di oliva Le Passioni 2010 Lucia Repele

Angelo Peretti
Non chiedetemi nulla sulla produttrice: non ho la minima idea di chi sia Lucia Repele, e anche il suo sito internet è pressoché muto, e dice solo che l'aziendina è a Nogarole Vicentino e che ha il tal telefono e talaltro indirizzo e che "“La Bellezza salverà il Mondo” (Dostoevskij).
Detto questo, specifico che ne parlo perché ho tastato l'olio che fa, ed è extravergine da ulivi gestiti secondo i canoni dell'agricoltura biologica. Ed è un buon olio.
Di colore ha una brillante tonalità gialla che sfuma delicatamente nel verde.
All’olfatto emergono freschi, nitidi sentori di erbe di prato appena sfalciate e di oliva a prima maturazione.
Altrettanto pulite e piacevoli sono le memorie di cardo e di rucola che emergono immediatamente al palato, innervando con la loro presenza amara, unita ad una piccantezza ben calibrata, una pasta di impianto delicato, ma anche di personalità molto ben delineata.
Buon olio, ripeto, ma non è una sorpresa, trattandosi di un olio vicentino. E qui me le vedo le facce stupite: sissignori, in provincia di Vicenza d'extravergine ne fanno poco, ma spesse volte è d'eccellente qualità.
Intanto, questo per me è da due lieti faccini :-) :-)

5 marzo 2011

Cahors Le Prestige 1998 Château du Cèdre

Mario Plazio
Bei vini quelli di Cahors. Meno patinati e glamour dei cugini di Bordeaux, esibiscono un carattere e una rusticità che profumano (almeno quelli seri) di autentiticità.
Grazie, paradossalmente, alla fama internazionale che si sono guadagnati i Malbech argentini, anche Cahors conosce una certa rinascita di interesse da parte dei consumatori francesi ed europei. A parte qualche bottiglia esageratamente cara, resta un fonte di bottiglie a prezzo di svendita. Le migliori etichette si trovano anche a meno di 10 euro e sarebbe un peccato non approfittarne.
Questo Prestige, nonostante il nome, è il vino base di uno dei produttori più validi del comprensorio.
È tutto spezie, fragole e tartufo. Tradizionale nell’approccio, ma moderno per la precisione della vinificazione e la purezza del frutto. Elegantissimo e slanciato, non esibisce nessuna concentrazione o tono di confettura. Il finale rivela l’impatto tannico notevole del vitigno e termina sugli agrumi e il balsamico della goccia di pino.
Un altro vino da destinare alla tavola, magari su un'anatra cotta a lungo e bella fondente.
Due faccini e mezzo :-) :-)

4 marzo 2011

Il Mediterraneo in riva al Garda: Rolly

Angelo Peretti
Mmh, faccenda seria quando le passioni sono di quelle che coinvolgono e finisci col metterle insieme. Fate conto per esempio che a uno piacciano il design e il mangiar-bere, e che dal lato della tavola sia il pesce d'acqua salsa al vertice dell'interesse. Ecco, se siete di questi, magari una capatina al Rolly di Manerba del Garda, sponda lombarda del Benacus lacus, segnatevi di farcela.
Attenzione: il "nuovo" Rolly, ché qui è cambiato tutto, ma proprio tutto. Il Rolly "di prima", di qualche anno fa, era un posto dove ci si andava - mi dicono - a giocare a tennis e a bere un bicchiere. Ora i campi di terra rossa non ci sono, e neppure il bar, e c'è invece un ristorantino da piccoli numeri e da considerevole fascino, con dehor da rilassatisima serata estiva e con vista lago e perfino con piscina per chi, prima di cena, nella stagione calda, ha voglia di farsi una nuotata, e, accidenti, ti vien voglia davvero, in quest'angolo quieto. E c'è la poi la passionaccia per i mobili di design che coltiva Stefano Baldelli, il patron, che ha accompagnato ogni tavolino con una serie di quattro sedie d'autore, e ti pare d'essere in una sorta di museo dell'ingegno contemporaneo, e stai seduto su pezzi bellissimi, che han fatto la storia dell'arredamento degli anni Quaranta e Cinquanta e fino ad oggidì. E c'è una cucina marinaresca di pesce che "sa" proprio di Mediterraneo - assolutamente - e che ti sorprende con quei sapori così dritti, netti, e anche complessi, eppure mai - come dire - complicati, ed anzi a mio dire del tutto armoniosi e avvolgenti. A darsi da fare ai fornelli è un giovane chef che mi par proprio che sappia il fatto suo, e che creo possa avere spazio d'ulteriore crescita: si chiama Gaspare Lamanna.
Ci sono stato che era autunno inoltrato, fine novembre, al Rolly, ma ne scrivo solo ora perché quello era l'ultimo giorno d'apertura prima della chiusura invernale eppoi - soprattutto - perché il locale riapre proprio oggi, e dunque credo possa essere interessante darne notizia, per chi ama il genere e ha così tanta nostalgia del sole che lo vuole almeno ritrovare nel piatto. E ripeto: chi ci andasse si prepari ad un tuffo nei sapori (e nei colori) della mediterraneità, anche se qui siamo in riva al Garda, che dal Mediterraneo è lontanino, anche se tavolta questo benacense laco ne evoca a suo modo le suggestioni.
Ora, descrivere questo o quel piatto è esercizio che temo del tutto sterile. E dunque, giusto per farsi un'idea, citerò solo la titolazione di qualcheduna delle proposte che ci ho trovato allora: che so, il filetto di scoglio su una leggera farcia di pecorino e verza (wow!), i paccheri di Gragnano al timo con alici, datterino fresco, olive taggiasche e capperi di Pantelleria (ri-wow!), il trancetto di gallinella di mare arrosto con guazzetto di vongole e verdure brasate, il filetto di sogliola farcita dal gambero rosso di Sicilia con piccola melanzana viola ripiena, e cose del genere, che già a leggerle capisci che a guidare la mano del cuoco è quella sua nostalgia d'un Sud che ha sapore e sapore e sapore.
A proposito: la fotina qui sopra l'ho presa dal Bresciaoggi, dov'è uscito un pezzo, appunto, sul Rolly, che potete leggere, se volete, cliccando qui.

3 marzo 2011

Ma il vino antico è un'anticaglia

Angelo Peretti
Leggo questo (lungo) titolo su un wine magazine: "Bere un vino dell’antico Egitto? Oggi si può, con i nettari prodotti in Medio Oriente. Fatti con metodi antichissimi e vitigni millenari, i vini dell’antichità sono poco corposi, minerali e con note di terra".
Accidenti, non riesco proprio a trattenere un interrogativo: "E chi se ne frega?"
Ecco, la domanda è proprio questa: a qualcuno interessa una roba del genere? Paccottiglia para-archeologica.
Basta, per favore, basta coi vini dell'antico Egitto e dell'antica Grecia e dell'antica Roma e dell'antica qua e dell'antica là. Ogni tanto riaffiorano 'ste solfe dell'antichità. Be', mettetevela via: sono anticaglie.

2 marzo 2011

Bourgogne Hautes-Côtes de Nuits En Gregoire 2005 Emmanuel Giboulot

Mario Plazio
Pinot nero didattico da un giovane produttore che lavora in biodinamica.
Naso piacevolmente vegetale, floreale e speziato.
Bocca svelta e lineare, priva di complicazioni, buona acidità.
Forse in tutto questo c’è un eccesso di perfezione. Sembra di andare incontro ad una certa standardizzazione del gusto, probabilmente dovuta ad una troppo disinvolta pre-fermentazione a freddo, con una omologazione degli aromi, tutti belli fruttatini, ma appunto scontati.
Detto questo non posso non rilevare che pur con tutti questi “peccati” si tratta di un pinot godibile e di eccellente beva, e che purtroppo non si vedono molti concorrenti in questa fascia in Italia.
Due faccini :-) :-)

1 marzo 2011

Champagne Grand Cru Extra Brut Marie-Noelle Ledru

Mauro Pasquali
Ci vuole grande mestiere per saper gestire quel vitigno scontroso e difficile qual è il pinot nero. Se poi si tratta del pinot noir di Ambonnay occorre anche grande carattere e personalità, tutto quello che non manca a Marie-Noelle Ledru, vigneron capace di produrre grandi Champagne nel solco di una tradizione famigliare vecchia di sei generazioni.
I suoi Champagne sono di grande spessore e struttura, ma mai monotoni, sempre in evoluzione. Li assaggi e credi di aver colto tutto di loro. Li riassaggi dopo qualche mese (o anno) e li scopri ancora in evoluzione là dove ti parevano aver raggiunto la stabilità e la tranquillità.
Marie-Noelle fa prodotti non semplici e che, forse, non tutti apprezzano, proprio per la loro grande personalità.
Il Grand Cru Extra Brut è, di fatto, un dosage zéro dove la grande personalità del pinot noir di Ambonnay esce prepotente, nervoso e dalle mille sfaccettature.
Croissant, erbe aromatiche, piccoli frutti rossi in primi ribes nero, un che di citrino per un naso estremamente complesso.
In bocca la grandissima acidità fa da cornice ad una grande eleganza. Lunghissimo, con un piacevole retrogusto di nocciole e balsamico.
Tre beati faccini :-) :-) :-)