30 settembre 2010

Anno de erba

Angelo Peretti
Chiamatela esperienza, chiamatela saggezza, chiamatela quel che volete, ma a forza di guardare le stagioni e di tramandarsi le informazioni, nei secoli i contadini si son messi insieme un loro sapere che a volte funziona anche oggidì, alla faccia delle previsioni meteo e della tecnologia applicata. Così, se i villani del Veneto asserivano senza mezzi termini: "Anno de erba, anno de merda", qualche ragione dovevano pur averla. Magari il motto è un po' volgare, ma non gli si possono negare immediatezza ed efficacia espositiva. E quest'anno si sta dimostrando che purtroppo un quakche ragione l'avevano.
Di pioggia ne ha fatta tanta già dall'inverno, e di neve pure, nella stagione fredda. Le conseguenze sono quelle ben descritte dall'Assoenologi nel suo rapporto di fine agosto: "Le basse temperature hanno determinato un ritardato risveglio della vite agevolato da abbondanti precipitazioni, che hanno ricostituito, in particolar modo nell'Italia centro meridionale, le riserve idriche e in settentrione garantito una quantità d’acqua di tutta considerazione che ha favorito un germogliamento lussureggiante, tanto che, in alcune regioni, i millimetri di pioggia sono stati quattro vote quelli caduti nel 2009". La descrizione tecnica è perfetta: "germogliamento lussureggiante". I contadini, quando se ne sono avveduti, han cominciato a dirlo, sottovoce: "Anno de erba..."
L'estate non è andata meglio. Luglio caldo e umidissimo. Poi, lascio ancora la parola ad Assoenologi: "Ad un caldissimo luglio è seguito un agosto con sbalzi di temperatura anche di 10 gradi. Abbondanti, in particolar modo al Centro Nord, le piogge che in certi casi hanno rischiato di 'annegare' la produzione mentre le alte temperature del Sud hanno rischiato di 'bruciarla'."
Scrivevo ai primi del mese che non ci resta che sperare in un buon settembre. Be', settembre non è stato granché.
E allora? Anno da buttare? Come sempre, il giudizio andrà dato ai vini. Ma certo è una vendemmia difficile. Sperando che questo comunque almeno ci preservi dai comunicati stampa sull'annuale "annata del secolo". Però dico che mica si può "fare di ogni erba un fascio" (e dagliela coll'erba), e dunque quest'anno si vedrà probabilmente ancora più che altre volte una distinzione piuttosto netta fra chi ha lavorato bene in vigna e chi no. Ma anche i primi avranno vini probabilmente sottili, che però non vuol dire banali. Anzi (almeno dal mio punto di vista). Vini che dunque dovranno giocare sulla nuance, sull'esaltazione della fragilità, sull'eleganza dell'evanescenza, salvo scorretti dopaggi in cantina.
M'avvedo dunque che se così fosse, se l'eleganza dell'esilità venisse in primo piano, dovrei un po' ricredermi sui proverbi. Ché a me piaccioni i vini semplici ma appunto non banali, quelli che chiamo i vinini. Che sono poi i più difficili da ottenere. Ecco, speriamo che l'anno de erba ci regali (almeno) questo.

29 settembre 2010

Pojer & Sandri: Rosso Fajé, vent'anni di storia

Mario Plazio
In occasione della recente edizione di Vinix ho avuto il piacere di essere invitato ad una degustazione dei primi venti anni di Rosso Fajé. Uscito per la prima volta nel 1989, è un vino al quale, accanto alle uve prettamente bordolesi, si è voluto aggiungere il lagrein, in omaggio alla tradizione locale. La degustazione ha messo in rilievo una unità stilistica tra le varie annate e una mano delicata nel cogliere le sfumature. Le rese non sono mai eccessivamente basse, e questo contribuisce a dar vita a vini di buon equilibrio e privi delle ormai consuete concentrazioni muscolari. Il legno è dosato sempre meglio e resta in sottofondo nei primi anni, per poi sparire nel tempo. Le note vegetali, punto dolente di tanti vini trentini e altoatesini, si percepiscono solo in qualche annata minore e sono tutt’altro che nocive.
Ecco le mie note di assaggio.

2009. Vino ancora in botte. Vinoso, pulito, spezie, ciliegia, cacao. Legno presente ma elegante. Bocca ancora troppo giovane e sensazione alcolica da domare, da cui deriva la nota pungente. Bello il frutto, sembra un po’ troppo semplice, ma il giudizio va riveduto dopo la messa in bottiglia. Ricorda stranamente un teroldego in purezza o un lagrein.
84?? Con molti interrogativi

2007. Spezie, cuoio, tartufo, frutta nera, estremamente elegante. Fine, meno alcolico del precedente, aromi di menta. Sensazione di una materia non perfettamente matura per il finale corto e senza la dovuta “cattiveria”.
85

2006. Naso di confettura, frutto profondo e bella mineralità. Al palato si allunga molto senza essere eccessivamente potente. Ancora molto giovane eccellente potenziale. Coi minuti si richiude. Chiusura sapida. Il migliore tra quelli degli ultimi anni. Attualmente in vendita in azienda a 21 euro.
87

2004. Impressione di maturità più spinta, vaniglia, caramello e legno più evidente. Anche in bocca il rovere si fa sentire e i tannini restano rigidi con il rischio di seccare nel finale tra qualche anno. Il finale manca della dovuta continuità.
85

2003. Fine ed elegante, didattico nelle note di lampone, tartufo e spezie. La beva è elegante, senza inutili concentrazioni, al limite del fragile ma paradossalmente profonda e continua. Non avrei mai pensato si dovesse trattare di un 2003. Mario Pojer conferma che la vendemmia è stata salvata dall’Ora, il benefico vento del Garda che ha garantito freschezza anche in una annata tropicale.
89

2001. Sensazione iniziale di alcol e ciliegia sotto spirito. Poi lampone e tabacco. Al palato appare come leggermente diluito, anche se ha una buona persistenza. Col tempo si appesantisce e appare più vegetale (brodo di verdura) e non tra i più nitidi.
84

2000. Altra espressione decisamente bordolese, con cassis e grafite in evidenza, accanto a cuoio e tabacco. Composto e profondo, è anche floreale. Tra i più fini, forse a scapito della pura concentrazione, ma anche tra i più bevibili.
88

1998. Un vino a parte, che avevo giudicato come pirata. Al colore è già più evoluto, mentre al naso è affascinante, marino e minerale. Molti hanno detto che “pinoteggia”. Equilibrato al palato, dove escono aromi di cuoio, animale e fiori secchi. Presente e continuo, rimane fresco e di buona beva nonostante la notevole energia di cui è dotato. Splendido. Mario ha confermato l’anomalia del millesimo: infatti non c’è traccia di cabernet sauvignon, che è stato sostituito dal cabernet franc. A mio avviso una pista da esplorare, nonostante l’avviso contrario del vigneron. D’altra parte spesso le cose più interessanti non nascono dal caso?
92

Château Margaux 1993: vino pirata. Evoluto, carne, cuoio e spezie. Meno pulizia dei vini vicini. Coi minuti sembra migliorare. Tannini abbastanza duri e vegetali, manca di consistenza nel finale.
85

1993. Naso concentrato. Tamarindo, ciliegia. Bocca viva e presente, maturo senza essere pesante. Il finale potrebbe essere migliore, manca di un pizzico di complessità ma risulta tra i più gradevoli da bere.
88

1993. Magnum. Servito a tavola il magnum ha confermato, se ce n’era bisogno, la superiorità dei grandi formati nell’invecchiamento. Il naso è più fresco, esco una fine nota fumé e di goudron, rimane una certa sensazione di vegetale, ma molto gradevole. E poi terra e humus. Sapido e lungo, resta elegante salvo un tannino leggermente asciugante e non perfettamente muturo nel finale.
90

1992. Buona materia che coi minuti si disunisce. Piuttosto disordinato, ma stranamente giovanile. Confettura di mirtilli, cioccolato, pepe e minestrone. Più largo che lungo, bei tannini, cede col tempo.
86

1990. Vino chiuso ed introverso, animale, cuoio e pepe. Tannico forse in eccesso, segno di uve maturate in annata particolarmente calda. Vino quadrato, migliora nel bicchiere e lascia l’impressione che un passaggio in caraffa potrebbe fargli molto bene. Potente e solare finisce con aromi di erbe in infusione.
90

28 settembre 2010

Il vino italiano? Come Agassi e Bill Clinton

Angelo Peretti
Come Andre Agassi e Bill Clinton: eccolo qui l'identikit del vino italiano. Parola di Decanter, la rivistona britannica.
Il numero d'ottobre del magazine inglese è tutto dedicato ai risutati dei World Wine Awards 2010, la competizione enologica di Decanter. E c'è dunque un capitolo d'approfondimento per ciascuna delle "regioni" vinicole prese in esame dai giurati. A proposito: per la Francia, le "regioni" son grosso modo tali (Bordeaux, Borgogna, Alsazia eccetera), mentre per l'Italia la "regione" è la nazione tutta, e quest'è già un giudizio: significa - mi par di capire - che da noi non c'è un'area che si stacchi così nettamente da meritare trattazione a sé stante.
Probabilmente per alleggerire un po' la trattazione - vivaddìio, mica ci si può prendere sempre terribilmente sul serio! - la redazione di Decanter ha chiesto ai capi d'ogni panel "regionale" di rispondere ad un curioso (e simpatico) quesito: "Se la tua regione fosse un personaggio famoso, chi potrebbe essere e perchè?".
Per la "regione" Italia i capi panel erano Rosemary George e Jane Hunt, entrambe master of wine. Ebbene, la prima paragona l'Italia del vino al tennista Andre Agassi, descrivendolo così: "Imprevedibile; un individualista che può far cose giustissime e altre volte così orribilmente sbagliate". La seconda prende ad esempio l'ex presidente americano: "Bill Clinton: carismatico, talentuoso e capace di grandi cose, ma troppo spesso troppo sicuro si sé, selettivo e rinnegatore degli errori". Oh, oh: due esempi che la dicono lunga su come al'estero l'Italia vinicola la vedano in chiaroscuro. Luci e ombre, figlie insieme del talento e della presunzione.
Vediamo le luci, intanto.
La George dice di amare i bianchi italiani: "I migliori hanno un'eleganza e un'originalità tali da offrire una beva appagante". Però "perché possano esser vini di successo non devono vedere i loro sottili profumi sovrastati dal legno", ché sennò "perderebbero la loro originalità". Ben detto. Consiglia poi - passando ai rossi - di tener d'occhio il Chianti Classico, che "sta perdendo il suo complesso di inferiorità nei confronti del Brunello o di Bolgheri".
La Hunt sostiene che "l'Italia resta davvero intesamente regionale in così larga parte della sua personalità, includendo quella dei suoi vini e dei loro stili". Però per trovare il meglio "bisogna esser pronti a pagare prezzi elevati, perché altrimenti si corre il rischio di considerevoli delusioni". E consiglia i Soave top (ma dice anche di evitare di sprecare denaro per quelli più ordinari), gli Arneis piemontesi, i Gewurztraminer e i Pinot Bianchi dell'Alto Adige. il Fiano e la Falanghina in Campania e perfino l'Albana in Emilia, oppure qualche bianco friulano, in special modo i Sauvignon. "Ma ricordate - scrive ai lettori - che, a dispetto delle massicce vendite, il Pinot Grigio ha pochi profumi (questo può spiegare la sua popolarità?)". Tra i rossi, invece, suggerimenti d'acquisto per le Riserve del Chianti Classico e anche per qualche Montepulciano d'Abruzzo e perfino, ma con "prudenza" per qualche siciliano e pugliese".
Ora, le ombre. Che cosa "lasciare sugli scaffali", evitando l'acquisto?
Per la George, la delusione maggiore durante le degustazioni della competizione è venuta dal Brunello di Montalcino, "a causa del legno eccessivo: il Sangiovese e il legno nuovo non si aiutano l'un l'altro". Insomma: parecchi vini che strizzano l'occhio al mercato globale, senza però mettere in liuce il carattere autentico del Brunello. E sono parole che devono - credo - far riflettere. E il legno, secondo la master of wine, è il problema anche di altri rossi italiani, così come i vitigni alloctoni: "Se compro italiano - scrive -, non voglio che i profumi siano adulterati da varietà internazionali, quando la tecnica enologica è migliorata a tal punto da non chiedere più aiuti esterni". E anche questa fa pensare.
La Hunt è invece delusa dalla Sardegna, regione per la quale vorrebbe dare la luce verde al semaforo enologico, ma che non appare ancora pronta alla partenza. Sicilia e Puglia offrono qualche bella bottiglia, ma c'è troppa roba ordinaria ancora. "Ed evitate le denominazioni dai nomi importanti offerte a prezzi troppo bassi - Chianti Classico, Brunello di Montalcino e Barolo - perché di vini veramente buoni in queste aree semplicemente non ne esistono a prezzi bassi".

27 settembre 2010

Valpolicella: i comunicati del Consorzio di tutela e delle Famiglie dell'Amarone

Angelo Peretti
Si dice che ambasciator non porta pena. Provo dunque a fare l'ambasciatore, incrociando le dita.
Mi riferisco alla questione nata in Valpolicella a seguito di un recente comunicato dell'associazione delle Famiglie dell'Amarone d'Arte, un testo che ha fatto molto rumore sia nel mondo dell'informazione via web, sia nel panorama produttivo veronese.
Ora, il 27 settembre, ecco uscire con un comunicato di chiarimento il Consorzio di tutela dei vini della Valpolicella. Lo pubblico, ma ugualmente pubblico il comunicato delle Famiglie, datato 14 settembre, in ordine cronologico. E per ora mi limito a far l'ambasciatore.

Famiglie dell'Amarone d'Arte, sovrapproduzione e prezzi low cost minacciano prestigio e qualità del vino simbolo della Valpolicella
“L’Amarone è espressione territoriale e simbolo della Valpolicella e del Veneto; vino originale per storia, caratteristiche organolettiche, varietà autoctone, tecnica produttiva attraverso l’appassimento delle uve. L’Amarone è oggi minacciato dall’eccessiva produzione, che non tiene conto delle zone vocate e si adegua ai minimi dei parametri di legge con un conseguente abbassamento della soglia qualitativa e subisce azioni commerciali che rispondono spesso a logiche di basso prezzo, in canali distributivi di massa”.
Sono queste le premesse del Manifesto dell’Amarone d’Arte, il documento identitario e programmatico presentato oggi a Milano dall’associazione che riunisce 12 famiglie storiche di produttori di Amarone (Allegrini, Begali, Brigaldara, Masi Agricola, Musella, Nicolis, Speri, Tedeschi, Tenuta Sant'Antonio, Tommasi, Venturini, Zenato).
Per Sandro Boscaini, presidente delle Famiglie dell’Amarone d’Arte, “Il Manifesto risponde a una visione di politica enologica che riteniamo essere fondamentale, basata sulla qualità e non sulla quantità. Infatti – ha proseguito Boscaini - da qualche anno, in Valpolicella, assistiamo a un fenomeno di sovrapproduzione, a fronte di una contrazione sul versante dei prezzi e, di rimbalzo, dei ricavi per i produttori. Nel 2008 sono stati venduti 6,75 milioni di litri di Amarone, mentre l’anno scorso 9 milioni. In termini di bottiglie questo significa che siamo passati da 9 a 12 milioni nel giro di due sole annate (2006-2007)”. Diversi invece i numeri sul fronte del fatturato legato all’Amarone che – ha spiegato Boscaini - “Anziché crescere, ha registrato un andamento opposto: a fronte di un + 33% sui volumi, l’asticella del valore ha perso il 16%, con una flessione da 81 milioni di euro a 68 milioni di euro”. Segno negativo anche per il prezzo delle uve, passato da quattro euro il chilogrammo nel 2007 a 1,50 di quest’anno, mentre i costi di produzione hanno registrato un trend opposto.
Uno scenario preoccupante, quello dell’impennata produttiva di Amarone, che porta le Famiglie storiche della Valpolicella ad “arroccarsi sulla collina” per difendere la qualità e l’eccellenza di uno dei tre grandi rossi italiani più famosi al mondo stoppando, ormai da anni, la loro produzione a 2milioni di bottiglie l’anno. “Alla vigilia dell’ingresso sul mercato dell’annata 2008 con i suoi 16 milioni di bottiglie, ci chiediamo quale altro record negativo andremmo a toccare con i prezzi”, si chiede ancora il presidente Boscaini che aggiunge: “Di questo passo si rischia di disorientare anche il consumatore che potrebbe trovarsi a scegliere tra bottiglie che portano lo stesso nome ma con prezzi fortemente diversificati e una qualità ai limiti dei parametri di legge”. Due anni fa, infatti, il prezzo medio per ogni litro di Amarone venduto all’ingrosso era di 12 euro, mentre l’anno scorso si è fermato ad appena 7,50 euro.
Al Manifesto, le Famiglie dell’Amarone d’Arte - 2000 anni di storia enologica alle spalle – abbinano anche l’ologramma distintivo che caratterizzerà il loro vino, per ribadire la forza della qualità senza compromessi, men che meno sul prezzo.
Il Manifesto, redatto in 7 punti e sottoscritto da tutti i produttori, marca le differenze tra la nuova tendenza low cost e il prodotto ‘raro e caro’ che ha fatto la fama e la storia dei vigneti dell’Amarone. “Con queste due azioni, Manifesto e Ologramma,- ha concluso Sandro Boscaini- intendiamo sensibilizzare e nel contempo lanciare un appello a tutti i protagonisti del mondo produttivo dell’Amarone. Insieme possiamo condividere politiche di produzione e prezzo che non sviliscano il prodotto e il suo prestigio”. (Fonte dati: Osservatorio Famiglie Amarone d’Arte)

Consorzio Tutela Vino Valpolicella, prezzi stabili e remunerativi per le uve Valpolicella
“Grazie alle azioni intraprese dal Consorzio di Tutela Vino Valpolicella atte a tutelare la produzione, i prezzi delle uve per la vendemmia 2010 rimarranno costanti e addirittura in lieve aumento rispetto agli anni scorsi”, dice Luca Sartori presidente del Consorzio per la Tutela dei Vini Valpolicella, “il dialogo e la collaborazione di tutti i componenti della filiera ha, infatti, consentito di portare avanti scelte importanti per la nostra denominazione e garantire così redditività ai nostri produttori”.
Una considerazione questa che trova conferma nei dati ufficiali dei mercuriali. Le quotazioni delle uve destinate alla produzione di Amarone negli ultimi quattro anni sono state all’insegna della stabilità con valori medi/anno oscillanti tra euro 1,55 e euro 1,75 al kilo, così pure le quotazioni dell’Amarone sfuso si attestano da 8 anni a questa parte nell’intervallo tra i 6,50 euro e gli 8,00 euro, con una punta di 11,20 euro dovuta ad una bolla speculativa che ha coinciso con l’anno di maggior produzione, cioè il 2008 (fonte dati CCIAA di Verona).
Il quantitativo di vino imbottigliato invece è rimasto costante negli ultimi quattro anni tra gli 8 e i 9 milioni di bottiglie, salvo l’isolata impennata delle vendite nel 2010, grazie ad una sapiente azione di marketing e al raggiunto traguardo della docg.
“La riconferma della riduzione della percentuale delle uve messe a riposo ed il blocco dell’iscrizione all’albo vigneti Valpolicella per i prossimi 3 anni, ma anche la fascetta di stato per il Ripasso, hanno sicuramente consolidato i prezzi e gettato solide basi per assicurare condizioni favorevoli anche per gli anni a venire”, prosegue Sartori, “In questo contesto, altamente positivo nonostante il periodo di crisi, trovo estremamente fuori luogo la presa di posizione dell’Associazione Famiglie dell’Amarone dell’Arte, che sembra voler dipingere un quadro ingiustamente negativo sulla nostra denominazione, comunicando dati che non corrispondono al vero”.
Che la Valpolicella d’altra parte sia particolarmente ambita è dimostrato dalla continua ricerca di terreni a vigneto, stabilmente quotati intorno ai 500.000 euro/ettaro e dal continuo incremento delle superfici vitate che ha portato al decreto di blocco degli impianti sopracitato proprio per evitare sovrapproduzioni. La ricchezza dell’Amarone sta proprio nella differenza che esiste tra una microzona e l’altra, tra i diversi stili di interpretare il vino secondo le tradizioni di ogni singolo produttore, tutti legati da un unico e grande denominatore che è la piacevolezza al consumo. Esiste un disciplinare che determina i requisiti minimi a livello chimico, mentre le caratteristiche organolettiche del prodotto vengono certificate e lasciate al gusto del consumatore. Il Consorzio può con certezza affermare che tutto l’Amarone certificato è Amarone con la 'A'maiuscola, non esiste una produzione che possa prendere le distanze da un'altra”, conclude Sartori, “esistono invece tanti produttori che lavorano ottimamente, ricevendo quotidianamente premi e attestazioni di stima, nel rispetto della propria tradizione e nella piena legittimità di un sistema consortile che sta dimostrando di funzionare molto bene, l’unico tavolo interprofessionale riconosciuto per legge che ha l’incarico di tutelare, difendere, valorizzare e promuovere la denominazione”.

Soave Colli Scaligeri Castelcerino 2009 Filippi

Mario Plazio
Non mi capita spesso di recensire vini così giovani (questo è in bottiglia da appena due mesi). Preferisco invece bere cose più vecchie o comunque con qualche tempo di bottiglia.
Faccio con piacere uno strappo alla regola con questo Soave per due motivi. Primo perché mi è davvero piaciuto molto, e secondo perché voglio vedere cosa verrà fuori tra qualche anno, quando scriverò una nuova recensione su Internetgourmet. Sempre che Angelo non si stufi prima e si ritiri in qualche eremitaggio.
Filippo Filippi è alla sua prima vendemmia sotto la sua totale responsabilità. Questo Castelcerino ’09 è un eccellente biglietto da visita.
Mi ha colpito l’estrema eleganza dell’insieme. Nulla è fuori di posto od eccessivo.
I profumi sono ovviamente in divenire ma già si sente un accenno di mineralità.
E va giù che è un piacere, fresco, fine e con la giusta acidità.
Non mi va di perdermi in mille descrittivi: è semplicemente un buonissimo vino, che può facilmente accompagnare molti piatti in virtù della sua capacità di mettersi al servizio del piatto.
Aspetto di assaggiare l’intera gamma del 2009, questo è il vino “base”.
Due faccini :-) :-)

26 settembre 2010

28 settembre: cena dell'alleanza e percorso della corvina al ristorante Vecchia Malcesine

Il progetto dell’alleanza fra i cuochi italiani ed i produttori di quelle eccellenze agroalimentari che recano il marchio dei presìdi di Slow Food approda martedì 28 settembre a Malcesine, nel tratto settentrionale della sponda veronese del lago di Garda, presso il ristorante Vecchia Malcesine, dove Slow Food del Veneto presenterà una cena che vedrà come protagonisti alcuni dei prodotti regionali garantiti dal movimento della chiocciolina (il formaggio Monte Veronese di malga, il riso di Grumolo delle Abbadesse, la gallina padovana, l’agnello d’Alpago, il mais biancoperla) ed una serie di vini a base di corvina veronese, la principale uva rossa del territorio scaligero, vera e propria biodiversità del Garda e della Valpolicella, madre sul Garda del Chiaretto e del Bardolino e in Valpolicella dell’Amarone e del Recioto, oltre che degli altri rossi valpolicellesi.
Lo chef Leandro Luppi, unica stella Michelin del Garda Veronese, proporrà nel suo ristorante Vecchia Malcesine un percorso gastronomico che vedrà sfilare in tavola tempura di lago, tortino di Monte Veronese di malga con crema di patate e ragù di bogóni (lumache), risotto di riso di Grumolo delle Abbadesse al burro affumicato e tinca del Garda, taglierini in brodo di gallina padovana con la sua polpa e i fegatini, agnello d’Alpago arrostato alle erbe e patate al sale e per finire polenta di mais biancoperla e latte.
Nei bicchieri, “le declinazioni della corvina veronese”, partendo con Bardolino Chiaretto Spumante (sarà quello di Benazzoli), per proseguire con il Bardolino Chiaretto (Giovanna Tantini), il Bardolino (Le Fraghe), l’Amarone della Valpolicella e il Recioto della Valpolicella (entrambi dell’azienda agricola La Giaretta). Sarà dunque l’occasione per scoprire, assieme ai prodotti dei presìdi di Slow Food, anche la straordinaria duttilità della corvina veronese, che, in associazione con altre uve, rondinella in primis, in area gardesana dà vita a vini freschi, fruttati e speziati come il Chiaretto, rosato oggi di notevole successo, e il rosso Bardolino, mentre in Valpolicella, anche attraverso il ricorso alla tecnica dell’appassimento, dà origine a rossi strutturati, quali appunto l’Amarone e il Recioto, che dell’Amarone è storicamente il progenitore.
Prezzo decisamente interessante per un evento del genere: 45 euro.
Prenotazioni direttamente al ristorante Vecchia Malcesine: 045 7400469.

25 settembre 2010

Sorpresa: un Prosecco fatto con lo chenin blanc

Angelo Peretti
Dunque, cerchiamo di ricapitolare. Una volta, quando il prosecco era un vitigno, dava vita a un vino che si chiamava Prosecco (chi mi segue da un po' sa che scrivo i nomi dei vitigni con la minuscola e quelli dei vini con la maiuscola, così per esempio se scrivo riesling minuscolo intendo l'uva e se invece dico Riesling maiuscolo mi riferisco al vino). Adesso il prosecco - uva - non si chiama più prosecco, bensì glera. E il nome del Prosecco - vino - non fa dunque più riferimento a un vitigno (che non si chiama più prosecco), bensì a un paese del Carso o giù di lì. Siamo passati insomma da una denominazione varietale a una geografica.
Sì, lo so, è complicato, ma forse neanche tanto: bisogna farci l'abitudine. Il problema viene quando trovi un Prosecco (vino) fatto con lo chenin blanc (uva).
"Che scandalo, che infamia, che follia!" urlerà qualcheduno. "Impossibile!" strepiterà qualchedunaltro. Invece un Prosecco fatto coll'uva della Loira l'ho trovato. In America. Mi correggo, negli Stati Uniti. Lo fa la Prospero Winery, a Pleasantville, nello stato di New York.
Loro, i Prospero, hanno origini abruzzesi. La famiglia viene dalle parti dell'Aquila. Tony, il più giovane di tre fratelli, è emigrato in terra americana: storia comune di molt'italiani. E là, negli States, proprio a Pleasantville, insieme con la moglie Silvana ha cominciato, nel 1973, a fare commercio di frutta. Vendevano, tra l'altro, uva californiana. Nel 1999 il passaggio dal commercio d'uva alla produzione vinicola. Con un catalogo che via via è andato arricchendosi. Tant'è che adesso comprende un'ampia linea di rossi, qualche bianco (tra i quali un immancabile Pinot Grigio), qualche vino da dessert (c'è anche un Muscat Canelli: dice niente agli astigiani?) e tre sparkling wines: un Fragolino (e te pareva...), uno Spumante (fatto anch'esso col moscato), e appunto, un Prosecco, un "American sparkling wine" interamente made in California.
E se poi si va a vedere la scheda di questo benedetto Prosecco statunitense, ecco che vien fuori che è "made entirely from Chenin Blanc grapes grown in California", e cioè che è fatto interamente con uve di chenin blanc coltivate in California. Alla faccia del Prosecco.
Il costo? Nello shop on line della Prospero Winery lo si vende a 13,99 dollari la bottiglia.
Viva il Prosecco.
PS: chi lo dice al Governatore Zaia?

24 settembre 2010

Rheingau Oestricher Lenchen Riesling Spätlese 2007 Peter Jakob Kühn

Angelo Peretti
Il vino perfetto, o giù di lì, per chi ami mettere insieme dolcezza e freschezza, leggerezza e personaltà, polpa e succosità, avvolgenza e snellezza. Con un equilibrio che solo i grandi Riesling tedeschi riescono a donare.
E qui ti domandi: ma come cavolo fanno lassù in Germania a tirar fuori dei bianchi del genere? Qual è il segreto, qual è la formula magica? Perché riescono a mettere in ordine fattori così apparentemente fuori registro creando un assieme tanto armonioso? Come possono fare in modo che si stappi un vino così alto di residuo zuccherino e che lo si possa bere con assoluta nonchalance a tavola infischiandosene altamente di quale portata ti sia stata messa nel piatto?
L'acidità, si dirà: il segreto sta qui. Troppo facile: provate a bere un vino che sia prevalentemente acido, e vedrete se riuscite a vuotarne che dico la bottiglia, nemmeno il bicchiere.
Al naso e in bocca frutta matura, agrumi (mandarino, direi, soprattutto), spezie dolci, tracce balsamiche.
Una lunghezza notevolissima.
Una beva assoluta.
In enoteca lo si trova sui 20-25 euro, assolutamente ben spesi.
A proposito, particolare non banale: è tappato con la capsula a vite, ed anche questo ne fa un vino perfetto.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

23 settembre 2010

Per favore, non facciamoci del male: basta convegni su vino e salute

Angelo Peretti
Questo non è un articolo, ma una lettera aperta indirizzata a chi, per lavoro o per forza, organizza convegni dedicati al vino. Lo so - anche per esperienza diretta - che è difficile, tanto difficile, riempire oggi una sala in cui si svolga un convegno. Non funzionano (quasi più) questi incontri fiume con tot relatori che dicono la loro. E sono spesso noiosissimi. Ma vi garantisco - cari organizzatori - che una mano ve la do, solidarizzando con voi. Verrò a un convegno ogni tre, così avrete una seggiola occupata in più, ma a una precisa condizione: che non mettiate più nella scaletta interventi medici o paramedici dedicati a "vino e salute".
Dobbiamo smetterla di voler dimostrare a tutti i costi che "il vino fa bene". Sarà anche vero, ma è controproducente. Ogni volta che noi che amiamo il vino facciamo una sottolineatura del genere finiamo per scatenare nei proibizionisti reazioni uguali e contrarie - o meglio, contrarie e disuguali, perché oggi van di moda loro, gli anti-vino, ed hanno titoloni a tutto spiano.
Eppoi quelli che ci si scatenano contro han gioco facile: "Il vino contiene alcol e l'alcol è comunque una sostanza tossica", sostengono, ed evocano agghiaccianti scene di incidenti causati da delinquenti fatti di alcol. Poco importa, a loro, se quelli si erano sballati d'altri alcolici: "Il vino contiene comunque alcol", sostengono. Ancora meno importa se di mezzo c'era un criminale mix di alcol e droghe. Comunque vada, di fronte alla loro campagna demagogica noi abbiamo perso il confronto.
I tempi in cui le vendite galoppavano sull'onda della suggestione del French paradox e delle proprietà salutistiche del vino son finiti: se la mettano via, i produttori. Oggi va in scena la recita contraria, e dunque smettiamola, ché sennò ci facciamo del male.
Eppure si continua. L'ho sentito pochi giorni fa nell'ennesimo convegno. Col relatore che spiega, come non l'avessimo già sentito mille e più volte, che il vino contiene antiossidanti (ma li contiene, e di più, anche l'olio) e che un bicchiere al pasto preserva dalle malattie cardiocircolatorie, neuroendocrine, gastroenteriche, tumorali. Notizie già pervenute chissà quante volte. Saranno anche vere, ripeto, ma non fanno più leva. "Il vino allunga la vita" dicono i pro-vino. "No, il vino la accorcia" urlano gli anti-vino. E siamo daccapo, perché sui giornali, oggi, finiscono i secondi: si vende di più prendendo la loro posizione.
Io il vino lo bevo, ovvio. E non me ne frega proprio niente che mi prevenga da tutte quelle rogne lì, perché facciamo un po' tutti una vita che non basta un bicchier di vino a salvarci. Dal vino voglio altro. Voglio il piacere. La piacevolezza della tavola, della chiacchiera, della storia, della cultura, del territorio, della personalità d'un produttore che esprime sé stesso e il proprio pensiero e la propria terra dentro a una bottiglia. Voglio, insomma, trovarci dei valori. E quando lo bevo, ne bevo più di un bicchiere: lo so, sono incorreggibile. Ma non credo con questo né di allungarmi, né di accorciarmi la vita. Nonno Piero di vino ne beveva parecchio di più di un bicchiere al giorno ed è morto a novanta e passa anni. Di crepacuore, perché pochi mesi prima era arrivata al capolinea nonna Rosi. Sarò anche zotico, ma mi basta questo. Mi basta sapere che il sentimento viene prima.

22 settembre 2010

Ruberpan 2006 Pieropan

Mario Plazio
Un vino rosso facile facile dai vigneti piantati negli scorsi anni in Val d’Illasi a 450 metri di altitudine.
A tratti pinoteggia e si compiace del suo buon portamento.
Alla ciliegia fresca si accompagnano anche belle sfumature floreali. Peccato però che aleggi sempre una sensazione di legno non sempre in linea con la purezza del frutto. Questo si traduce in una certa dolcezza della beva che, pur non stonando, toglie definizione al profilo del vino e impedisce che l’insieme abbia un finale ancora più lungo e profondo.
A conti fatti un vino certamente godibile e versatile, che però per fare un balzo in avanti dovrebbe affrancarsi dall’insistenza del rovere e cercare equilibri diversi.
Un faccino e mezzo

21 settembre 2010

E vai con l'Amarone style!

Angelo Peretti
Amarone style: va di moda. In America, in Argentina, in Australia, in Nuova Zelanda. Tutti a far vini rossi da uve appassite. Tutti a parlare di bottiglie in stile Amarone.
Ne ho trovato uno, per esempio (ma se cercate sul web avete da sbizzarrirvi) in Australia. Uno Shiraz (e verrebbe da dire "ovviamente", trattandosi di un rosso australiano, terra elettiva dello shiraz, appunto). Lo fa Hobbs, ad Angaston, nel Sud dell'Australia. E sul suo sito web lo presenta così: Hobbs Shiraz Gregor (Amarone).
Dice che l'uva è stata semiappassita e che mettendo insieme i metodi tradizionali dell'appassimento e lo stile di cantina del produttore si è ottenuto un "full bodied Australian Amarone-style shiraz", un corposo Shiraz australiano Amarone-style.
Più avanti si avverte che "this Amarone style wine is made from Shiraz vines planted in the late 80's", questo vino in stile Amarone è stato prodotto dal vigne di shiraz piantate sul finire degli anni Ottanta.
Vabbé, mi piacerebbe provarli questo ed altri Amarone style wines fatti qui e là per il "nuovo" mondo enologico. Mi piacerebbe vedere se l'effetto terroir giochi davvero - come spero - la differenza a favore della Valpolicella rispetto alle imitazioni estere. Altrimenti avrei di che preoccuparmi.
Una preoccupazione però credo sia nell'aria: se cresce la consuetudine a bere rossi Amarone style, sarà ancora possibile spiegare che l'Amarone è un vino italiano, veneto, veronese, valpolicellese, oppure non si rischierà di finire per riconoscere nell'Amarone un puro e semplice stile di produzione vinicola, slegato da qualunque riferimento territoriale? L'insidia mi pare enorme per gli amaronisti valpolicellesi.

20 settembre 2010

Tripperia Il Magazzino - Firenze

Angelo Peretti
Vi piace la trippa? Se, come accade nel mio caso, la risposta è affermativa, sapete certamente che Firenze è una sorta di paradiso terrestre, ché qui la trippa - pardon, il lampredotto - lo si trova ad ogni angolo, servito nei panini dai trippai piazzati con le loro bancarelle negli angoli storici della città.
Ma se non vi va di mangiar la trippa per strada, allora segnatevi l'indirizzo di questo ristorante: Il Magazzino in Piazza della Passera, vicino a Ponte Vecchio, subito di là dall'Arno.
Il locale è piccolino. Fuori ci son quattro o giorni minuscoli tavolini, a lato della piazzetta. Dentro, alle pareti ci sono dei poster d'autore che interpretano il tema dell'uccelletto che dà nome allo slargo antistante.
In tavola è trippa e trippa e trippa. L'antipasto del trippaio prevede lingua in salsa e, ovviamente, trippa. Poi c'è la straordinaria, strepitosa trippa fritta che da sola vale la sosta. Poi ancora gli spaghetti alla chitarra col ragù di lampredotto (che sempre trippa è). Poi di nuovo trippa (e verdure) nel cartoccio.
Oh, non spaventatevi: se la trippa non vi piace c'è dell'altro. Un esempio? I buonissimi coccoli con la stracciatella, che son poi delle frittelle di pane con la burrata.
Lista dei vini con tanta Toscana, ovviamente.
A proposito: sui tavolini tovagliette di carta da macelleria. E conto sui 30 euro.
Il Magazzino - Piazza della Passera 2-3 - Firenze - tel. 055 215969

18 settembre 2010

Amarone d'arte: sbaglio o quell'ologramma l'avevo già visto?

Angelo Peretti
In Valpolicella c'è l'Amarone è c'è l'Amarone d'Arte. O così almeno sostengono dodici produttori - tra i quali anche qualcheduno tra i miei preferiti, e comunque tutta gente che sa il fatto suo in materia di vino - che si sono riuniti in un'associazione, quella delle Famiglie dell'Amarone d'Arte. Ci sono Allegrini, Begali, Brigaldara, Masi, Musella, Nicolis, Speri, Tedeschi, Tenuta Sant'Antonio, Tommasi, Venturini, Zenato. Un bel parterre.
Di recente han presentato il loro logo. Pardon, ologramma. "Esclusivo e distintivo", lo definisce un comunicato stampa. E sarà (ed è) sulle bottiglie "per renderle riconoscibili e garantirne l’autenticità e l’alta qualità".
Dicono, i vignaioli delle Famiglie, che "l’Amarone è oggi minacciato dall’eccessiva produzione, che non tiene conto delle zone vocate e si adegua ai minimi dei parametri di legge con un conseguente abbassamento della soglia qualitativa e subisce azioni commerciali che rispondono spesso a logiche di basso prezzo, in canali distributivi di massa", ed è interessante che ci siano amaronisti che dicono queste cose. Ci sarebbero tutti i presupposti per aprire un dibattito sul presente e sul futuro del mondo valpolicellista. Soprattutto quando le Famiglie sostengono che "da qualche anno, in Valpolicella, assistiamo a un fenomeno di sovrapproduzione, a fronte di una contrazione sul versante dei prezzi e, di rimbalzo, dei ricavi per i produttori. Nel 2008 sono stati venduti 6,75 milioni di litri di Amarone, mentre l’anno scorso 9 milioni. In termini di bottiglie questo significa che siamo passati da 9 a 12 milioni nel giro di due sole annate (2006-2007)”, mentre il fatturato "anziché crescere, ha registrato un andamento opposto: a fronte di un + 33% sui volumi, l’asticella del valore ha perso il 16%, con una flessione da 81 milioni di euro a 68 milioni di euro” e c'è un "segno negativo anche per il prezzo delle uve, passato da quattro euro il chilogrammo nel 2007 a 1,50 di quest’anno, mentre i costi di produzione hanno registrato un trend opposto". Tutto questo si traduce, secondo il team, in "uno scenario preoccupante" e fa dire così: "Alla vigilia dell’ingresso sul mercato dell’annata 2008 con i suoi 16 milioni di bottiglie, ci chiediamo quale altro record negativo andremmo a toccare con i prezzi”,
Ok, prendiamo atto, ed auguriamo un bell'in bocca al lupo ai dodici. E alla Valpolicella. E all'Amarone.
Eppoi c'è l'ologramma. E quando l'ho visto, mumble mumble, mi faceva venire in mente qualche cosa. Non sapevo bene cosa. Ma c'era qualcosa che mi pareva famigliare in quell'A (A come Amarone, ovvio). Finché mi son ricordato d'aver veduto una volta una bottiglia con un'A (A per Amarone) che gli somigliava. Breve ricerca su Google, ed eccola ritrovata: l'Amarone di Alpha Zeta.
Direte, che c'azzezza Alpha Zeta? Gli è che Alpha Zeta è un'azienda (un marchio) che vede attivo in terra veronese un celebre winemaker neozelandese, Matt Thomson. Su internet ho trovato ancora traccia di un vino di Alpha Zeta che viene presentato come proveniente "from the reliability Allegrini & the genius of Matt Thomson", ossia dall'affidabilità degli Allegrini e dal genio di Matt Thomson. Quale sia - se c'è, se c'è stato - il collegamento fra Allegrini e Alpha Zeta non lo so, e non m'interessa saperlo. Dico solo che l'Amarone di Alpha Zeta si chiama A e che la A in etichetta mi par somigliare parecchio a quella dell'ologramma delle Famiglie. Le metto insieme - le due A - nella foto. Che ne pensate?

17 settembre 2010

Alto Adige Gewurztraminer Feld 2008 Weinhof Kobler

Angelo Peretti
A volte, quando assaggio un vino ad etichetta scoperta, mi pongo il problema di come e quanto possano influire nella mia personalissima valutazioni gli altrettanto soggettivissimi condizionamenti derivanti dalla conoscenza e dalla simpatia - o antipatia, perchè no? - nei confronti del produttore.
Dopo il primo sorso di questo Gewurztraminer il problema me lo sono per un attimo posto nuovamente, ché a produrlo è Armin Kobler, persona che stimo, vigneron che apprezzo ed anche bravo comunicatore del vino, con quel suo blog che tratta di faccende enologiche sudtirolesi (e credo sia l'unico ad occuparsi da blogger di quest'argomento). Ma, passata la prima incertezza e assaporato un secondo sorso, mi son rassicurato: no, il vino è certamente molto valido, la simpatia non c'entra.
E dunque eccoci qui con questo fascinosissimo bianco che mette assieme grande frutto e grande spezia. E in bocca è inconfondibile e netto il ricordo del rosolio, del liquore di petali di rosa.
Vino da assaporare con calma, con lentezza, così come lenta è stata la sua maturazione (attenzione: è un 2008). E non ti pesano i 14 gradi e mezzo d'alcol. Vino solare fatto in Alto Adige. Mica cosa da poco.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

16 settembre 2010

L'etilometro è inaffidabile (ma allora bisogna cambiare prospettiva)

Angelo Peretti
L’etilometro è inaffidabile. Lo dice la Fivi, la Federazione italiana dei vignaioli indipendenti. L’ha annunciato a Milano, ieri. In una conferenza stampa. Parole pronunciate da Costantino Charrère, presidente dei vigneron italici (lui è quello de Les Crêtes: io che non bevo chardonnay e che non amo il legno, ma talvolta faccio un’eccezione per la sua Cuvée Bois).
Il fondamento della perentoria affermazione sta negli studi di un professore americano, Michael Hlastala, dell’Università dello Stato di Washington, che in contributo in video (foto qui in fianco) ha dichiarato che “l’etilometro non è da ritenersi attendibile perché dovrebbe essere perfezionato tenendo conto dei fattori che incidono in modo rilevante sul respiro”.
Può darsi, non so, posso crederci, ma non sono competente. Però i temi, a mio avviso, sono altri. E sono due.
Il primo: la Fivi fa bene a rompere gli schemi, vivaddìo. Fin più o meno tutti, nel mondo del vino, hanno mostrato una sorta di sacro timore a dire le cose che vanno dette. Ossia che dalla campagna proibizionistica, troppo spesso concentrata sul vino, c’è qualcuno che ci guadagna. “Oggi la nostra filiera – ha spiegato Charrère – vive una delle più grosse crisi strutturali che mai si siano verificate. Cala il consumo del vino per dare spazio ad altre bevande industriali anche eccitanti. Questo si somma a una campagna di denigrazione del vino che va a colpire quei consumatori moderati per i quali il vino è alimento”. E poi: “Combattere il consumo di alcol con il proibizionismo abbatte il consumo di vino, ma non delle altre bevande alcoliche più pericolose, che i giovani continuano a consumare”. Finalmente qualcuno che lo dice, fra i produttori. Perché, se c’è qualcuno che ci guadagna, ci sono altri che ci rimettono. Ci rimettono i vignaioli, i ristoratori, certo. Ma anche i bevitori moderati, che siccome son moderati in tutto, quando è venuto fuori l’incubo del ritiro della patente hanno smesso di ordinare vino al ristorante. Perché niente e nessuno li tutela e li aiuta a verificare se sono in regola o no. Perché sono coscienziosi, fin troppo. E intanto che loro fanno astinenza, i ragazzotti in discoteca e i delinquenti a piede libero si sballano di superalcolici e pasticche e polverine bianche e altro, e del wine in moderation ed altre formule del genere non gliene frega proprio niente, perché col vino non si sballa, o fa meno fashion farlo.
Seconda questione. Questa la dico io, e me ne assumo la responsabilità. Che l’etilometro sia attendibile o meno è interessante - anzi, è giusto - saperlo, ma insistere ha un rischio. Nel senso che anche se si dimostrasse che è una patacca, si troverebbe un altro strumento, e quando si dimostrasse (e lo si dimostrerebbe, prima o poi) che anche questo non va bene, allora non resterebbe che una soluzione: tolleranza zero. Esattamente il contrario di quel che occorrerebbe. Intendo dire che ritengo non utile combattere la campagna di demonizzazione del vino cercando di demonizzare lo strumento di controllo. Serve altro. Serve far cultura.
Sposo dunque le idee di Giancarlo Trentini, presidente dell’Osservatorio permanente su giovani e alcol, pure presente a Milano: bisogna cercare di capire “che cosa fare non in difesa, ma pro il consumo intelligente del vino”. E poi: “Per i produttori di vino sarebbe meglio puntare su una strategia più difficile: una battaglia a favore del vino si può sostenere se è nel nome dei valori piuttosto che sulla confutazione delle idee scientifiche”.
Come tradurre in pratica una simile indicazione? Non lo so. Ma credo che prima di tutto sia necessario un salto di mentalità da parte di chi fa vino e di chi ama berlo: suvvia, lavoriamo “per” e non “contro”. Allora, cambiando prospettiva, la soluzione la troveremo.
Intanto, brava Fivi, che comincia ad esser presente nella società. Senza peli sulla lingua, senza sudditanze. Magari un po’ artigianalmente (come si fa a lasciar dire al moderatore che “non si è mai visto un alcolizzato bere Sassicaia o Tignanello”?), ma ci si deve pur fare le ossa.
Avanti: la strada giusta, quella della consapevolezza, è stata imboccata.

15 settembre 2010

Nusserhof e quel Blaterle che non vuol farsi dimenticare

Angelo Peretti
Non so praticamente nulla di Nusserhof, l'azienda sudtirolese di Heinrich ed Elda Mayr, associata alla Freie Weinbauern Südtirol, i Liberi Vignaioli dell'Alto Adige. O meglio, so quel poco che si legge nel cataloghino della mostra annuale del sodalizio altoatesino, il Vinea Tirolensis, e dunque che è a Bolzano, e che ha appena 3 ettari di vigna, coltivata secondo i canoni dell'agricoltura biologica. Sul sito dell'associazione, in un italiano un po' precario (ma è Südtirol, vivaddìo), si legge che occupa un antico maso che dal 1788 è di proprietà dalla famiglia Mayr. Una zona rispettata dall'assalto urbanistico perché quest'è la casa natale di Josef Mayr-Nusser, "martire per la sua fede cristiana durante la seconda guerra mondiale". E mi fermo qui con le informazioni conosciute sull'azienda, che prima o poi mi deciderò a visitare. Ma vado avanti invece coi vini, ché da un paio d'anni m'intrigano assai e dovrò andare a comprarmi.
Sono vini che hanno personalità. Rustica, magari, ma spiccata. Vini che ti dà soddisfazione berli, anche se si fanno avanti più a spallate che in punta di piedi. Vini che, a rischio di essere frainteso, mi verrebbe da definire autentici, nel senso che nulla concedono a tendenze modaiole o ruffianerie internazionali. Vini mica facili, anche. Ma che se li avvicini con pazienza ti possono donare belle sensazioni.
Uno in particolare: il Blaterle. Un bianco raro e di stile antico, intrigantissimo, dall'omonimo e pressoché dimenticato vitigno. Ma mica solo questo. E dunque qui di seguito cerco di dar conto, per chi vorrà andare a far visita prima di me al maso, di cos'è attualmente in bottiglia. O meglio, di quel che ho tastato alla recente mostra di Bolzano nella quale si potevano trovare i vini dei vigneron indipendenti dell'Alto Adige.
Blaterle 2009 Vino da tavola tratto - dicevo - dall'omonimo vitigno. Bianco. Stupendo. Al palato è speziato e perfino piccante. Sì, piccante è l'aggettivo giusto. Incredibilmente. Leggermente agrumato, assai floreale. Credo abbia una capacità d'invecchiamento considerevole e mi piacerebbe tastarne qualche vecchia annata. Chissà. Costa sugli 11 euro in cantina.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Südtirol Lagrein Riserva 2006 Rosso rustico, tannicissimo. Deve ancora uscire dal guscio, eppure già da adesso sfoggia un frutto succoso e invitante e polputo. Speziatissimo, ed è spezia fine. Buono da bere, buono da mangiare, per la concentrazione. Bel vino, da mettere in cantina e lasciar lì ancora qualche anno. Costa 15 euro, e credo sia un affare.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Südtirol Lagrein Kretzer 2009 Se cercate un rosato dalla personalità spiccata, be', tenetelo presente. Credo che con un grande speck ci stia a meraviglia. Color buccia di cipolla. Salatissimo. Lampone. Buona lunghezza. Costa 9 euro.
Due lieti faccini :-) :-)
Tyroldego 2006 Vino da tavola - rosso - fatto coll'uva di teroldego. Piuttosto tannico e leggermente amaro, ma ha tanta di quella polpa che ci passi sopra. Emerge una curiosa e ben delineata memoria di noce. Un 2006 che ha ancora bisogno di tempo.
Un faccino e quasi due :-)
Elda 2007 L'Elda è un vino da tavola fatto con tutte le uve rosse delle vigne vecchie del maso, con la schiava in primo piano. E in effetti la schiava si avverte nella spezia molto pronunciata. Vino fresco, tannico, rusticissimo.
Un faccino e quasi due :-)

14 settembre 2010

Champagne Blanc de Blancs Grand Cru Le Mont Aigù Jack Legras

Angelo Peretti
Tutto chardonnay per questo cru champagnista prodotto, a quel che ho capito, in poche, pochissime bottiglie. E ancora se ho afferrato giustamente, potrebb'essere un millesimato, ché si fa con l'uve di una sola vendemmia, ma non il produttore non lo scrive in etichetta per suo vezzo. Sia come sia, quest'è una bolla che bevi con piacere, con quella sua cremosità che dir carezzevole non è esagerato.
Ho avuto occasione di berne un paio di bicchieri al Giardino delle Esperidi, il ristorantino di Bardolino che ha in Susy Tezzon un'appassionata ricercatrice di bolle franciose di quelle che lasciano il segno.
Al naso e in bocca è un tripudio di frutto giallo stramaturo, di mandorla, di zafferano, di crosta di panettone, di fruttino di sottobosco, di muschio perfino.
E c'è sale, tanto, che ti fa salivare e t'invita a metterci assieme un buon piatto. E c'è, dicevo, una cremosità che avvimce, con una bolla che non aggredisce proprio per nulla ed anzi accarezza.
Peccato sia pressoché introvabile.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

13 settembre 2010

Glögglhof, quelli della Schiava

Angelo Peretti
A Bolzano, durante la rassegna agostana dei Vignaioli dell'Alto Adige, ho assaggiato le Schiave, vini che spesso riescono a intrigarmi, quando sono ben fatti, per quella loro capacità di mettere assieme una speziatura fruttata e una beva di tutto rispetto. A dire il vero, non ne sono uscito convintissimo, epperò ho trovato un produttore che sa il fatto suo, per quel che riguarda la Vernatsch, la schiava, appunto, il vitigno.
L'azienda si chiama Glögglhof ed è di Franz Gojer, a Bolzano. Sei ettari di vigna, sulla collina (d'origine morenica, se ho letto bene) del Glögglhügel. E di vini a base d'uva schiava ne ha ben tre: una Vernatsch e due St. Magdalener. Tutt'e tre piuttosto interessanti (ed è parimenti buono anche il Lagrein, ma qui voglio parlar di Schiave).
Dice il depliant aziendale, che mi han dato al tavolino: "I vini di Glögglhof sono vini territoriali. La loro tipicità e il carattere particolare vengono plasmati da terreno, microclima e tecnica impiegata", il che credo corrisponda al vero, nel senso che li ho trovati assolutamente tipici e di bella personalità. E se devo fidarmi (e mi fido) del parere di Jens Priewe, ottimo wine writer tedesco, ecco che mi tocca riportare una sua affermazione che ho letto sul sito aziendale: “Se esiste un metro di misura per valutare la qualità del St. Magdalener, questo è dettato senz’altro dai vini di Franz Gojer". Il che mi conferma nella convinzione della territorialità di cui sopra.
Orbene, ecco cos'ho trovato nel bicchiere.
Südtirol St. Magdalener Classico 2009
Ha una grande beva, davvero. Fruttino, leggera ed elegante speziatura. Una leggerissima tannicità che conferisce carattere. Una lunghezza di tutto rispetto. Un bell'esempio di quello che per me è il vinino, il vino semplice ma non banale, fatto per esser bevuto con piacevolezza.
Due lieti faccini :-) :-)
Südtirol St. Magdalener Rondell 2009
Il vigneto Rondell è quello che ha i ceppi più vecchi. Al palato il vino sa esprimersi bene con quel suo bel fruttino rosso e la mora in rilievo e il mirtillo. ha spezia e tannino ben articolato. E una bella freschezza. Un vino che si fa bere e che pure ha carattere.
Due lieti faccini :-) :-)
Südtirol Vernatsch Karneid 2009
Viene da vigne coltivate sui seicento metri d'altitudine. Vino rotondo. Tanta mora. Succoso di fruttino. Ah, se avesse un pelo di freschezza in più: sarebbe irresistibile. In ogni caso, si beve beve.
Due lieti faccini :-) :-)

12 settembre 2010

Spendere senza un progetto

Angelo Peretti
Leggendo oggi La Repubblica, vedo che Massimo Mauro, a fronte della sconfitta patita ieri dal Milan dei supercampioni, scrive che si tratta di “una bocciatura sonora a chi spende soldi senza progetto, tanto per spendere”.
Ho pronunciato più volte la stessa frase in questi anni – e ancora la pronuncio – quando si tratta di valutare le iniziative assunte da tanti consorzi di tutela e da tant'altri organismi pubblici in relazione al mondo del vino: si spende senza un progetto, pensando che più si spende, più si ottengano risultati. Poi ti confronti con una neopromosa e perdi due a zero.

11 settembre 2010

Colli Euganei Rosso Passacaglia 2006 Vignale di Cecilia

Mario Plazio
Vigneron a tendenza “naturale”, Paolo Brunello dispone di un interessante parco di vigne inserite nella parte più solare e mediterranea dei Colli Euganei. Pare che da queste parti siano giunte a metà dell’800 le prime barbatelle di vitigni bordolesi (carmenère in particolare) in Italia. Sia come sia, è innegabile che dai Colli Euganei giungano alcune delle espressioni più interessanti e personali di questo tipo di vino, grazie ad un territorio vulcanico dai suoli e dalle esposizioni molto variati.
Il Passacaglia, come lo definisce il suo autore, è un vino sperimentale, un laboratorio nel quale tentare nuove strade o, forse, tornare a quelle di una tradizione rivisitata.
La versione 2006 trasmette bene il senso del calore, riuscendo nella difficile acrobazia di abbinare potenza (note di cioccolato) a finezza e godibilità.
Il legno, non nuovo, resta discreto discreto e scomparirà del tutto tra qualche tempo.
Il frutto è maturo e avvolgente, e si combina con note floreali e di erbe officinali. In nessun momento escono le note vegetali che troppo spesso penalizzano i vini queste zone.
In sostanza una bottiglia che fa parlare il territorio e che mi piacerebbe risentire tra qualche anno.
Sono sicuro che si farà amare.
Due faccini e mezzo :-) :-)

Rinnovato il direttivo dell'associazione dei produttori di spumante altoatesini

Sarà Josef Reiterer, proprietario della cantina Arunda-Vivaldi, a guidare per altri tre anni, in qualità di presidente, l’associazione dei produttori di spumante altoatesini. Lo affiancherà come vicepresidente Lorenz Martini, enologo presso la tenuta Niedermayr, nonché produttore (Comitissa). Del consiglio di amministrazione fa inoltre parte Wolfgang Tratter, enologo della cantina San Paolo. Luis Ochsenreiter della tenuta Haderburg di Salorno, Josef Romen di Kettmeir e Hannes Kleon della cantina Von Braunbach ricopriranno la carica di revisori dei conti.
Dell’associazione fanno parte sei produttori altoatesini di spumante: Arunda-Vivaldi di Meltina, Von Braunbach di Settequerce, la Cantina San Paolo Praeclarus di San Paolo, Lorenz Martini Comitissa di Cornaiano, Kettmeir di Caldaro e la tenuta Haderburg di Salorno.
Le elezioni coincidono con il ventesimo anniversario dell'associazione dei produttori altoatesini di spumante.
"La produzione di spumanti di alta qualità - dice una nota dell'associazione - trova in Alto Adige condizioni pressoché ideali. Soprattutto nelle aree al di sopra dei 500 metri di altitudine le uve sviluppano un’acidità tale da garantire, anche dopo la seconda fermentazione in bottiglia, quella vibrante freschezza che ci si aspetta da un buono spumante. La produzione annua di spumante altoatesino secondo il metodo classico ammonta a quasi 200.000 bottiglie. Per i vini base per la produzione dello spumante vengono impiegate esclusivamente uve selezionate, appartenenti alle tre varietà chardonnay, pinot bianco e pinot nero".

10 settembre 2010

Il 15 settembre la Fivi parla di vino e informazione

La Federazione italiana dei Vignaioli indipendenti (Fivi), presieduta da Costantino Charrère, ha programmato per il 15 settembre a Milano una conferenza stampa di riflessione e sensibilizzazione sul rapporto fra il vino (definito dalla Fivi "alimento positivo, portatore soprattutto in Italia di tradizione, cultura e legame stretto con il cibo e il territorio") e l’attuale campagna mediatica riferita all'uso di alcolici. Obiettivo dell’iniziativa – si legge in una nota della Fivi – “è quello di riuscire a fare chiarezza sugli aspetti che riguardano il consumo del vino (nel nostro paese) ed il consumo di altre tipologie di alcol”.
La nota prosegue così: “Su questi temi è infatti, secondo noi, necessario andare più a fondo per capire meglio i problemi, per proporre progetti di sensibilizzazione e di educazione volti a promuovere una coscienza critica ed un consumo responsabile e moderato. Ma anche per non generalizzare un argomento che invece richiede la massima attenzione e soprattutto una informazione corretta evitando di confondere prodotti molto diversi tra loro e modi, stili o occasioni di consumo non assimilabili tra di loro. Per questo sono invitati alla conferenza scienziati, medici, sociologi, osservatori delle dinamiche di consumo anche dell’alcool e delle situazioni di disagio soprattutto giovanile”.
Michael Hlastala, professore emerito in fisiologia, biofisica e medicina dell’Università dello Stato di Washington, illustrerà una sua ricerca sulle differenze fra gli alcol da fermentazione e gli alcol da distillazione e le loro conseguenze nel consumo avventato; parlerà inoltre delle imprecisioni legate all'uso dell’etilometro e della scorretta rilevazione dello stato di ebbrezza, oltre che dei metodi alternativi e più affidabili che attualmente vengono usati in alcuni stati degli Usa per rilevare il tasso di alcol nel sangue.
Parteciperà con una ricerca anche il professor Giancarlo Trentini, presidente dell’Osservatorio permanente sui giovani e l’alcol, mentre il dottor Stefano Ciatti, presidente dell’associazione Vino e Salute affronterà la questione sotto il profilo etico e alimentare del vino e il dottor Giampaolo Pioli, presidente delle Città del Vino affronterà il tema del rapporto tra territorio, tradizione e cultura del vino.
Parteciperà ai lavori anche Xavier de Volontat, presidente della Confédération Européenne des Vignerons Indépendants.

I prezzi deliranti dei cru classé di Bordeaux

Angelo Peretti
La faccenda è seria, molto seria se anche la Revue du Vin de France si permette di definire "delirante" l'ascesa dei prezzi registrata quest'anno dai più celebri vini di Bordeaux. Perché se lo dicessimo noi italiani, vabbé, potrebbe esser letto come un attacco sciovinistico, ma se i francesi parlano così di se stessi, be', qualcosa di grosso sta succedendo davvero.
Sissignori, sul numero di settembre la celebre rivista enologica francese dice che "i grandi vini sono diventati un oggetto di speculazione" e che "dopo i borgognoni d'eccezione, ecco che i cru classé di Bordeaux, con la superba annata 2009, sono stati proiettati in una spirale tariffaria delirante, mai vista".
Certo, la maggior parte dei produttori si difende dicendo che "è il mercato", e che se i prezzi son saliti così vertiginosamente è per via della domanda. Sarà anche vero, ma dove si andrà a finire se, come si chiede la Revue, "con la scusa della spinta proveniente dai ricchi asiatici pronti a tutto pur di regalarsene una cassa, il prezzo di una bottiglia di Château Lafite-Rothschild 2009 è arrivata a costare 1100 euro più iva... il prezzo di due tonneaux da 900 litri di Bordeaux generico". E se perfino Château Ausone è salito a 900 euro al netto delle tasse. Con un balzo dei prezzi che per i premier cru bordolesi è stato superiore al 300% in un anno: il 2009 sarà anche una grand'annata, ma come si giustifica un'impennata del genere?
"Siamo andati fuori misura" dice la rivista francese, domandandosi poi, a mio dire saggiamente: "Per quanto tempo durerà questa bolla? Alla fine chi berrà bottiglie del genere?" Domande che a mio avviso prefigurano scenari completamente nuovi per il mondo del vino, e non solo per quello bordolese.

9 settembre 2010

Quel Prosecco fatto in Australia

Angelo Peretti
Dal Zotto è cognome tipicamente veneto. Vicentino, soprattutto, da quanto leggo sul web. Ma anche trevigiano e bellunese, da quanto ne so.
I veneti, si sa, han patito la fame prima che prendesse forma e avesse successo il loro modello economico basato sulla piccola e media impresa e sui distretti produttivi. Prima che arrivasse l'era degli schèi, che non è arrivata mica tanto tempo fa. E dunque prima - almeno fino a tutti gli anni Sessanta - i veneti emigravano, in cerca di sopravvivenza: Svizzera, Germania, Belgio, America, Argentina, Brasile, Australia.
In Australia sono arrivati dei Dal Zotto. E si sono messi a far vino. Family, tradition, innovation è il motto di Dal Zotto Wines: potrebbe essere il call out della pubblicità di una qualunque azienda agricola venetica. E infatti fanno vino veneto. Fanno Prosecco. Anzi, ne fanno due. Uno col metodo charmat, l'altro col metodo champenoise. Già, in Australia. A Whitfield, in King Valley, nel distretto di Victoria.
Del resto, le radici sono le radici, e Ottorino Dal Zotto in Australia c'è arrivato nel 1967 dal suo paese natale: Valdobbiadene. La tradizione prosecchista ce l'aveva nelle vene, evidentemente. E magari c'è anche un po' di nostalgia: la foto di Valdobbiadene campeggia sulla pagina web che parla della storia familiare.
Che poi, se mi mettessero davanti una loro bottiglia - che, a scanso d'equivoci, ho per ora visto solo in fotografia, e dunque non ho tastato il vino - farei fatica a non prenderla per una boccia di Prosecco trevigiano. Il nome, dicevo, c'è tutto: Dal Zotto mi suona familiarissimo, a me che son veneto. Prosecco è Prosecco, ci mancherebbe! Lo charmat, poi, si chiama Pucino, e una sorta di leggenda enoica vorrebbe vedere appunto nel vino Pucinum dei tempi di Roma imperiale l'antenato dell'attuale Prosecco. Eppoi c'è il colpo da maestro: una fascetta incollata a cavallo del tappo, che somiglia terribilmente alla fascetta della docg prosecchista.
Sul sito internet aziendale scrivono così: "A particular source of pride is the release of Dal Zotto Prosecco – this light dry Italian sparkling wine is the first ever in Australian winemaking history", e vale dire che "una particolare fonte d'orgoglio è la realizzazione del Prosecco dal Zotto - questo leggero spumante dry italiano è il primo ad essere mai stato prodotto nella storia vinicola australiana". Insomma: si fa Prosecco "italiano".
O meglio, dicevo, se ne fanno due.
Il Prosecco Pucino (18,50 dollari australiani) "è fatto col 100% di uva di prosecco coltivata direttamente" ed "è prodotto usando il metodo convenzionale italiano charmat". Si formula anche il consiglio di consumo, e la frase potrebbe esser fatta propria dal Consorzio di Valdobbiadene: "To be enjoyed in the Italian manner – at anytime", e cioè "da godere alla maniera italiana - in qualunque momento".
Anche il Prosecco L'Immigrante (36 dollari australiani) è fatto con uve dell'azienda, ma "è in qualche modo non tradizionale perché è prodotto con il metodo champenoise e non con quello convenzionale italiano dello charmat".
Dunque, c'è del Prosecco Valdobbiadene style in Australia. Xé 'à globalisasión, òstrega!

8 settembre 2010

Rinnovato il direttivo della Fivi

La Fivi, la Federazione italiana dei vignaioli indipendenti, ha rinnovato il proprio comitato direttivo.
Nella carica di presidente è stato confermato Costantino Charrère, di Les Cretes, in Valle d'Aosta.
A fargli da vice sono Matilde Poggi, dell'azienda agricola Le Fraghe, nel Veneto, ed Ernesto Spada, della Tenuta Alfonso Spada, in Campania.
Segretario nazionale è Francesco Saverio Petrilli della Tenuta di Valgiano, in Toscana.
Fanno inoltre parte del direttivo: Ampelio Bucci (Villa Bucci, Marche), Peter Dipoli (Weingut Dipoli, Trentino Alto Adige), Gianmario Cerutti (Cerutti, Piemonte), Walter Massa (Fratelli Massa, Piemonte), Elena Pantaleoni (La Stoppa, Emilia Romagna), Mario Pojer (Pojer e Sandri, Trentino Alto Adige), Leonildo Pieropan (Pieropan, Veneto), Mario Cavalli (Antico Bacco dei Quaroni, Lombardia), Niccolò Montecchi (Villa del Cigliano, Toscana), Bruno De Conciliis (Viticoltori De Conciliis, Campania) e Guido Zampaglione (Tenuta Grillo, Piemonte).

7 settembre 2010

Foires aux Vins on line: qualche consiglio per gli acquisti "in saldo"

Angelo Peretti
Dicevo ieri delle Foires aux vins - le vendite "in saldo" - che si stanno facendo in questo periodo, com'è ormai tradizione, negli ipermercati francesi. E del fatto che addirittura la Revue du Vin de France - la maggiore testata vinicola transalpina - dedica a questo fenomeno - come ogni anno - un numero speciale. Ma la faccenda delle Foires aux vins è così radicata che anche i siti internet di commercio elettronico sono costretti in questo periodo ad adeguarsi. E di web site che vendono vino in Francia ce ne sono parecchi, anche se purtroppo non tutti effettuano consegne verso l'Italia.
In ogni caso, per chi non potesse andare a crogiolarsi nel Bengodi delle Foires dei centri commerciali francesi, ma avesse comunque voglia di approfittare delle occasioni d'acquisto disponibili in questi giorni, mi permetto di dare qualche consiglio su dove e cosa comprare on line. Ovviamente citando solo chi spedisce verso indirizzi italiani.
Comincio con Vinatis, che frequento abbastanza spesso.
Fra le offerte del sito c'è il Côtes du Rhône Villages Les Champauvins 2008 del Domaine Grande Veneur: premiato col coup de coeur dalla guida Hachette 2011, viene proposto con lo sconto del 28%, e per noi italiani costa, iva inclusa, 10,10 euro alla bottiglia.
Ha il 34% di riduzione un "piccolo" ma piacevole rosso bordolese del 2007: è il Bordeaux Beau Maine 2007 di Dourthe, due stelle (su tre) della guida Hachette 2010 e con un prezzo di 6,40 euro la bottiglia.
Vi piace lo Chablis? E allora ecco, col 26% di ribasso, a 14,40 euro, lo Chablis 1er Cru La Singuliere 2006 della Chablisienne, cooperativa che lavora molto, molto bene.
Passiamo a Chateauoline.
D'accordo, non sarà economicissimo, ma il Vouvray Le Mont Moelleux (moelleux significa che è la versione dolce) del 1985 del Domaine Huet a 49 euro (prezzo per la Foire aux vins) è una tentazione.
Se vi piacciono i rossi della Côtes du Rhône c'è il Coudoulet de Beaucastel 2005 di Château de Beaucastel (azienda mitica della zona) a 14,40 euro (20% di sconto, ma bisogna prenderne almeno tre bottiglie): Parker l'aveva valutato 91 centesimi, e non è poco.
Non è cattiva neppure l'idea di portarsi a casa tre bottiglie di Champagne Rosé Extra Brut di Haton a 20 euro l'una (il che significa il 20% in meno sul listino).
Eccomi a Wineandco, da cui compro meno perché ha tempi di consegna abbastanza lunghi rispetto agli altri due.
Se siete dei fan del cabernet franc della Loira (se non lo siete, lo diventerete, prima o poi: vino che invecchia che è un piacere), trovate ad 8,90 euro la bottiglia (bisogna prenderne tre: lo sconto è addirittura del 46%) lo Chinon Les Pensees de Pallus 2007 del Domaine Les Pallus: Wine Spectator gli ha assegnato 90 centesimi di valutazione.
Col 34% di vantaggio è un ottimo acquisto anche il Madiran 2007 di Château Bouscassé, proposto a 11,90 euro la bottiglia, ma vale la stessa considerazione per il 23% di ribasso applicato al Madiran 2007 di Château Montus, a 18,50 euro: due rossi del sud-ovest della Francia che hanno una grande capacità di invecchiamento.
Credo faccia la sua Foire aux Vins anche Nicolas, e mi riferisco al sito di e-commerce dell'omonima catena di enoteche: spediscono anche in Italia. Mentre sto scrivendo queste righe, tuttavia, non ho ancora visto on line le offerte. Date un'occhiata voi.

6 settembre 2010

Foires aux vins: perché in Italia non si fanno?

Angelo Peretti
Se vi capitasse di andare in Francia in questi giorni, sappiate che è il periodo delle Foires aux vins. E cioè che è il momento in cui, nell'imminenza della vendemmia, le maggiori catene di ipermercati transalpini - Carrefour, Casino, Intermarché, Système U, Auchan, Monoprix, Carrefour Market, Leclerc - "svendono" una bella serie di vini a prezzi vantaggiosi. Insomma: ci sono i saldi, come per i vestiti, come per le scarpe. Ed è un'occasione spettacolare per riempirsi la cantina con il meglio della produzione francese.
La faccenda è talmente seria che la Revue du Vin de France, la maggior testata enologica della Francia, dedica ogni anno alle Foires aux vins un numero quasi monografico. Dando consigli sugli acquisti, proponendo recensioni sui vini in offerta, confrontando i prezzi fra un supermercato e l'altro, indicando i luoghi d'acquisto città per città.
Qualche anno fa mi capitò di passare all'Auchan di Avignone durante la Foire aux vins: uscii col carrello pieno. C'era di che andar fuori di testa nel vedere la qualità dei vini scontati e i prezzi tanto vantaggiosi.
La domanda è: perché in Italia una cosa del genere non accade?
La questione di fondo temo sia una e una sola: qui da noi nella grande distribuzione difetta la cultura del vino. O meglio: il vino è considerato una qualunque derrata alimentare, come la pasta, la passata di pomodoro, il tonno in scatola. Basta vedere come vengono trattate le bottiglie in tanti supermercati italici. Spesso il vino è messo vicino al girarrosto per i polli, perché chi compra il pollo pronto di solito tirà giù dallo scaffale anche una bottiglia. Solo che quella bottiglia ha patito il caldo e il vino rischia di essere andato a farsi benedire (esperienza vissuta).
In Francia è diverso. Non dico nei market di paese. Dico nei grandi centri commerciali. Lì il vino è trattato coi guanti bianchi. Con scaffali privi di luce diretta, con spazi climatizzati, addirittura con personale specializzato che ti aiuta negli acquisti. E ci trovi sia il vin de pays da un euro e mezzo, sia il grand cru da un migliaio di euro, con nuna lista di referenze da sballo. E poi ci trovi anche a settembre le Foires aux vins, una specie di Bengodi dell'enoappassionato.
Qui da noi niente. Tutt'al più qualche offerta speciale su questo o quel vino. Ma niente di strutturato, di uniforme, di omogeneo, di coordinato. Eppure le Foires aux vins rappresentano a mio avviso un'opportunità incredibilmente favorevole per avvicinare la clientela al vino di qualità. E più cresce la propensione verso il vino di qualità, più salgono i fatturati (ed a margini crescenti).
Quando succederà anche in Italia? Mai, temo. Ma spero di sbagliare.

4 settembre 2010

Bianchi dell'Alto Adige: il meglio di un'annata calda

Angelo Peretti
Ho scritto ieri che probabilmente le annate calde non sono il massimo per i vignaioli del Südtirol. E l'ho detto dopo aver tastato qualche bella decina di bianchi altoatesini a Vinea Tirolensis, l'evento annuale dell'associazione dei Freie Weinbaurn Südtirol, i Liberi Vignaioli dell'Alto Adige, appunto. Perché ci ho trovato dolcezze e morbidezze che magari - anzi, sicuramente - piacciono al mercato, ma che non fanno vibrare le mie personalissime corde. Ma ho anche detto che ci sono belle - bellissime - eccezioni, che però scavano una sorta di solco rispetto alla media generale, pur buona, dell'annata (o quest'almeno è stata la mia impressione). Vini che comunque sanno posizionarsi ai vertici assoluti dell'italico panorama bianchista. E dunque ecco qualche mia impressione sui bianchi a mio avviso top del 2009. Soprattutto Val d'Isarco (Eisacktal) e poi un po' di Val Venosta (Vinschgau). Ne lascio fuori uno soltanto, un curioso Blaterle, ché ne vorrei parlare fra qualche po'.
Una nota: l'ordine d'elenco è dettato solo dalla disposizione dei tavoli. Insomma: è l'ordine in cui li ho assaggiati.
Südtirol Eisacktaler Kerner 2009 Strasserhof Caspita che buono! Al naso e in bocca, in corrispondenza perfetta, ci trovi la salvia e l'ortica e gli agrumi e la mela croccante. Avvincente la freschezza, capace di non farti avvertire i 14 gradi di alcol. Interminabile per persistenza.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Südtirol Eisacktaler Veltliner 2009 Hoandlhof Manni Nössing Di solito era il Kerner che ni restava nella testa fra i vini di Nössing. Stavolta però metto in cima alle preferenze un Veltliner da favola. Asciuttissimo, teso, nervoso, vibrante. Sa di erbe officinali, di fieno da poco sfalciato. Grande bianco.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Südtirol Eisacktaler Riesling Kaiton 2009 Kuenhof Peter & Brigitte Pliger Il solito, straordinario Riesling di Peter Pliger. Bellissimo, cristallino. Freschissimo. Salato, perfino. Il frutto è maturo e ben delineato. La persistenza è di quelle che si fanno ricordare. Un bianco di considerevole eleganza.
tre lieti faccini :-) :-) :-)
Südtirol Eisacktaler Veltliner 2009 Kuenhof Peter & Brigitte Pliger Per i miei personalissimi gusti, solo un gradino di sotto dello stratosferico Riesling di casa Pliger. Epperò anche questo Veltliner, fruttatissimo e fresco, dal finale asciutto asciutto, è un bianco che vale la pena di gustare.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Südtirol Eisacktaler Grüner Veltliner 2009 Garlider Avvolgenti sentori di fieno e foglie di bosco ed erbe alpestri. Eppoi anche spezie, finissime. E il frutto croccante e polposo, sorretto da un'invidiabile freschezza e da un florealità di bell'eleganza. Notevole la lunghezza.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Südtirol Eisacktaler Sylvaner 2009 Garlider Spettacoloso olfattivamente per l'eleganza fruttata e floreale. In bocca ha tensione e freschezza e un'invitante vena minerale e una traccia rinfrescante di colorofilla. Il finale è solido, asciutto, verrebbe da dire tannico.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Südtirol Vinschgau Weissburgunder 2009 Weingut Unterortl Oh, che bel Pinot Bianco! Grandissima freschezza, che ti fa salivare ad ondate. Bianco vibrante, nervosissimo, eppure anche elegante. Ha i fiori bianchi, tanti e profumatissimi, e il frutto croccante. Vino avvincente.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Südtirol Vinschgau Riesling 2009 Weingut Unterortl Il naso è fascinisissimo con tutta quella frutta fialla matura mixata con l'eleganza del fiore bianco. La bocca è in parallelo, ed è fresca e succosa di frutto polposo eppoi agrumata. Il finale è piuttosto lungo.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

3 settembre 2010

Ma le annate calde non sono fatte per gli altoatesini

Angelo Peretti
Sono stato a Vinea Tirolensis. Massì, la rassegna annuale, a Bolzano, dei Freie Weinbauern Freie Südtirol, i Liberi Vignaioli dell'Alto Adige, che, chissà perché, nella versione italiana del nome del loro sodalizio eliminano il Liberi e si limitano a scrivere Vignaioli dell'Alto Adige.
Quello di Vinea Tirolensis è ormai diventato un appuntamento annuale che non mi perdo. Perché credo che sia questa l'idea vincente: mettere insieme i piccoli vignaioli e farne squadra. Presentandosi al pubblico, appunto, come un qualcosa di unito, di compatto, di animato dalle medesime intenzioni, dall'identico sentire.
Mi piace, la loro rassegna, nonostante tutto. E il nonostante tutto sta nel fatto che pensavo che l'idea di trasferirsi dallo scomodo Teatro sociale allo storico e fascinoso Castel Mareccio fosse vincente e invece ho dovuto prendere atto che la location è sì più suggestiva, ma anche più scomoda per chi vuol assaggiare, con le postazioni dei vari produttori troppo appiccicate l'una all'altra. Eppoi continua a mancare uno spazio dove si possa tastare il vino in maniera più o meno professionale, seduti, fuori dalla calca. Insomma: vorrei poterli provare un po' tutti, i vini in esposizione, senza dover lottare all'arma bianca per averne un goccio da assaggiare fra gli spintoni, impossibilitato a prendere appunti.
Che dite? Che son di malumore? Può darsi. E magari quest'impressione la darò vieppiù se dico - come dico - che le annate calde non sembrano il massimo per i vigneron sudtirolesi. Ché l'impressione generale - eccezioni a parte, e delle eccezioni avrò modo di dire più diffusamente nei prossimi giorni - è che i bianchi altoatesini del 2009 - annata calda, appunto - sian troppo sulla vena della dolcezza. E la freschezza acida che mostrano non riesce a compensarla in toto. Il che - capiamoci - dal punto di vista commerciale può anche essere un vantaggio, ché molta gente ama bere bianchi più intonati al dolce ed al morbido che non all'affilato nervosismo dell'acidità. Ma, semplicemente, non son vini che abbiano i numeri - ripeto, eccezioni a parte - per lasciare il segno. Ben fatti, certo, ché ormai la scuola enologica altoatesina ha da insegnare a chichessia in campo bianchista. Ed anche piacevoli il giusto, ci mancherebbe. Ma spesso mi sono apparsi privi di quello slancio che li renda memorabili.
Questo 2010 è stato ben più fresco, sinora. E dunque aspetto con ansia il Vinea Tisolensisis 2011. Per verificare se l'impressione è corretta, ovvero se ai Südtiroler giovino di più le annate fresche.