31 luglio 2010

Montepulciano d'Abruzzo Cerasuolo DaMa 2009 Marramiero

Angelo Peretti
Volete che vi dica? Questo è uno dei vini più buoni che mi sia sin qui capitato di bere in questo 2010. A prescindere che si tratti d'un rosato. Non sto categorizzando: mi è strapiaciuto in senso assoluto.
Detto questo, e dunque sbilanciatomi davvero molto (ma se non s'azzarda che gusto c'è?), ecco che provo a descriverlo questo Cerasuolo abruzzese che sta nella linea che i Marramiero han dedicato al fondantore dell'azienda, Dante. DaMa: Dante Marramiero.
Il colore è un rosato abbastanza carico, quasi virato verso un rosso ciliegia, ma brillantissimo.
Al naso ti si presehta un frutto elegantissimo. Lampone, ribes, fragolina, ciliegia acerba. Gran bel mix.
In bocca entra spigliato, vivace, giovanilissimo. Tensione e freschezza assieme. Lunghezza stratosferica. Leggerissimo fondo amaro di mandorla che allunga ancora la beva.
Gran bel vino. Infinito. Mastichi il frutto a lungo, e hai una sapidità rinfrescante che ti inonda il palato continuamente.
Non finiresti più di berne. Al primo bicchiere seguono il secondo, il terzo. La bottiglia si svuota.
Un fuoricasse.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

30 luglio 2010

Il vino è il luogo nel quale ritrovi te stesso: Giorgio Grai e l'Heimat

Angelo Peretti
Mi ha preso un coccolone quando, sul Corriere Vinicolo d'inizio luglio, ho letto questo titolo: "Elogio del vino da bere". Ché chi mi segue da qualche tempo lo sa che per il sottoscritto il fatto che il vino "si faccia bere" e non solo degustare è condizione assolutamente rilevante. Al punto da lanciare su quest'InternetGourmet un "elogio del vinino", ossia un "manifesto per la piacevolezza del vino da bere".
Ora, che l'house organ dell'Unione Italiana Vini proponga urbi ed orbi una titolazione del genere non mi par cosa da poco. Anche se col mio "elogio" questo non ha proprio nulla a che vedere. Invece, il pezzo è dedicato all'ottantesimo genetliaco di uno dei maestri del vino italiano: Giorgio Grai (è lui nella foto), cui rendo omaggio anch'io.
L'articolo-intervista a Grai è di Bruno Donati. E qui di seguito vorrei riporta un paio dei botta & risposta del pezzo. Perché credo siano parola da pensare, da meditare.
Chiede dunque l'intervistatore: "Lei produce vini poco alcolici e di rilevante longevità. Come si fa?"
Risponde Grai: "È l'uovo di Colombo, non esistono segreti. Ma è anche la cosa più difficile per un enologo: interpretare l'annata, la materia prima e proiettare il tutto nel futuro. Ogni annata è diversa, devi capirla. E devi preparare vini facili da bere, buoni da subito ma che durino negli anni".
Prosegue Grai: "Oggi la gradazione elevata è un elemento negativo e controproducente. Soprattutto, è un elemento che ne pregiudica tanti altri. Surmaturazioni e maturazioni tardive aumentano il contenuto zuccherino a scapito della piacevolezza del colore, dei profumi e degli aromi. Un ottimo vino va dagli 11,5 ai 12,5 gradi alcolici. La vigna deve produrre il giusto da sé, senza bisogno di intervenire con il diradamento. Che senso ha imbottire la scrofa di ormoni perché partorisca 12-14 lattonzoli e poi eliminarne quattro? Lasciamo fare alla natura".
Ma prima c'è un'altra domanda con la quale Donati ha stuzzicato Giorgio Grai. Questa: "Il gusto cambia col tempo, negli anni?"
Giorgio Grai ha risposto così: "Non il gusto, le mode. Il buono rimane buono, l'incompetenza del consumatore spesso si fa abbagliare, si lascia attrarre dalle mode. Il vino che vale sempre, che dà grandi emozioni, è quello intrasferibile, che appartiene alla zona, al territorio, al cielo. In tedesco si dice Heimat, termine non traducibile in italiano: non è patria, è più casa, luogo natio. È il posto di appartenenza, odore di famiglia, delle nsotre correnti d'aria. Dove ritrovi te stesso".
Ecco, sì, questo è il senso del vino.
Belle parole, quelle di Grai. Bravo Donati che le ha portate sulla carta. Non credo proprio di poter aggiungere altro.

29 luglio 2010

Val di Neto Rosato Grayasusi Etichetta Argento 2009 Ceraudo

Angelo Peretti
Chi in un vino rosato cerca la leggerezza, la giovinezza, l'esilità giocosa, be', si fermi qui e non legga oltre: quest'è vino che non gl'interessi. Chi invece va alla caccia di vini che sappiano esprimere insieme personalità ed eleganza sappia che qui troverà materia che l'intriga. Eccome.
Fatto con l'uve di gaglioppo. E passato in barrique addirittura. Non scandalizzatevi, però: il legno qui dona alla grande, senz'assumere ridondanze, senza prevaricare il frutto, ma anzi esaltandolo, ed apportandovi spezia. C'è grand'equilibrio, insomma.
Il colore è cerasuolo. Piuttosto carico.
All'olfatto si presenta atipicamente, ma fascinosamente resinoso di pino, di coccole di cipresso. Eppoi ecco comparire vaghe tracce di menta, di origano. Un che d'officinale, insomma. E di mediterraneo. Accattivante davvero.
In bocca ha polpa di spessore epperò anche, nello stesso tempo, snellezza. Ha materia e finezza, e non è mai facile trovare simile combinazione. E non va mai sopra le righe: niente esasperazioni, nonostante la sua concezione per certi versi estrema.
Ti induce a berlo e riberlo.
Vino intrigante, assai.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

28 luglio 2010

Vino e finanziamenti pubblici: qualcosa non funziona

Angelo Peretti
Considero Fabio Piccoli il miglior analista che abbiamo in Italia per quanto attiene al mondo del vino. I suoi interventi, ormai da qualche anno e con costanza, rendono conto di un rigore metodologico che non è frequentissimo nel settore. Semplificandone al massimo - e forse in questo banalizzandola - la metodologia di lavoro, direi che Fabio ha saputo sviluppare la capacità di raccogliere dati e informazioni anche molto eterogenei per poi farne una sintesi dalla quale prendere le mosse per proporre interrogativi capaci, almeno potenzialmente, di generare risposte operative da parte degli addetti ai lavori. E non è davvero poca cosa.
Cerco dunque di leggere sempre con attenzione i suoi scritti. E così ho fatto per un pezzo lanciato in prima pagina sul numero di metà luglio del Corriere Vinicolo. Titolo: "Controlli, prezzi e fondi bloccati minano la nostra competitività". Mi interessava soprattutto capire qualcosa di più sul terzo dei temi proposti dalla titolazione, quello relativo ai fondi pubblici. Perché, in particolare, la questione dei fondi comunitari rivenienti dalla nuova Organizzazione comune di mercato del vino (Ocm) era stata una delle poche aree di mia mancata condivisione verso le opinioni di Fabio Piccoli. Nel senso che m'è parso che nei mesi scorsi lui vedesse prospetticamente una svolta positiva nella decisione delle autorità europee di consentire l'accesso diretto ai contributi pubblici sulla promozione anche alle imprese, singole o associate, in luogo della vecchia prassi che vedeva protagonisti i soli consorzi di tutela o comunque le realtà associative. Mentre personalmente ero scettico che le cose potessero funzionare.
Intervistati "i principali produttori vinicoli italiani", Piccoli, in tema di "risorse messe a disposizione per la promozione e l'informazione", scrive ora così: "Se si vanno a guardare le risorse fin qui spese su questi fronti non si può non essere delusi e preoccupati". Aggiunge: "Sicuramente la massacrante burocrazia rimane uno dei limiti maggiori. Ma se si va ad analizzare in maniera specifica le ragioni di scarso utilizzo delle risorse per la promozione dei vini italiani nel mondo ci accorgiamo che la principale è la difficoltà delle imprese vitivinicole di ottenere le fidejussioni bancarie previste dai bandi". E sono parole sacrosante.
Poi, Fabio pone l'interrogativo: "La domanda allora sorge spontanea: è mai possibile che di fronte a finanziamenti già ufficialmente riconosciuti non si riesca a trovare il modo che l'istituzione pubblica si faccia garante di fronte alle banche?"
Per me la risposta è: "No, non è possibile". E cerco di spiegare perché.
Il meccanismo dei mega finanziamenti Ocm per la promozione nei paesi terzi è abbastanza semplice: tu, ente o privato, t'impegni a realizzare un intervento di promozione significativo all'estero e io, Unione europea, di cofinanzio le spese al 50 per cento. Addirittura, sono disposta ad anticiparti la mia parte di fondi, ma voglio essere certa che tu quei soldi li spenda davvero per la promozione, e non per altre finalità, e dunque ti chiedo una garanzia bancaria che copra il rischio di utilizzi difformi". Tutto chiaro, tutto semplice. Se non fosse che la garanzia bancaria - la fidejussione - è un vero e proprio affidamento, e le banche lo concedono sono se ci sono i requisiti di affidabilità, il che è raramente possibile, vista la povertà della struttura patrimoniale della quasi totalità delle imprese vitivinicole italiane. Ancora meno è possibile in un periodo di stretta finanziaria come l'attuale. Di fronte a questa difficoltà, chiedere però che l'istituzione pubblica si faccia essa stessa garante appare un controsenso: vorrebbe dire che il soggetto pubblico è colui che contemporaneamente chiede e rilascia la garanzia. Tanto varrebbe allora che non la domandasse neppure. Ma a quel punto significherebbe che se i fondi venissero impiegati male (mai successo?) pagherebbe Pantalone.
La faccenda dei fondi Ocm così com'è stata impostata non mi piaceva e non mi piace. Troppo pesante, troppo limitante. Di fatto, solo poche imprese del vino, dimensionalmente grandi, ne possono avere qualche beneficio, ma solo a condizione che dispongano di uffici efficientissimi e che comunque abbiano già programmato azioni di promozione su paesi verso i quali sono indirizzati i fondi pubblici: spendere per spendere, meglio avere un contributo. Per il resto, temo sia più apparenza che sostanza. Nel senso che gli adempimenti burocratici e gli impegni finanziari sono così rilevanti che occorre per forza far ponte su strutture messe in piedi appositamente, Ma queste strutture hanno dei costi di gestione, e non sono modesti, per cui assorbono una buona parte del finanziamento pubblico. Alla fine, bene che vada, all'imprenditore resta in mano il 30-35 per cento di contributo pubblico. Non è poco, ma non è neanche tanto e comunque non è tale da gisutificare i lacci e lacciuoli che il produttore si trova a dover affrontare. Così non funziona. Non può funzionare. Ma è solo un'opinione: la mia.

27 luglio 2010

Rugoli 2006 Davide Spillare

Mario Plazio
Un bianco igt composto da garganega per il 90%, con un saldo di trebbiano. Il vino è ottenuto con una macerazione moderata di circa 18 ore sulle bucce. A Gambellara.
Il colore del liquido è dorato intenso con cenni di evoluzione.
La personalità del vino è evidente dal naso, dove dominano note balsamiche e iodate, accompagnate da sentori di pesca gialla matura. Col passare dei minuti le sensazioni si amplificano, escono anche la frutta secca e a seguire i fiori.
È evidentemente un vino che gioca sul filo dell’ossidazione, senza però che questo ne comprometta le qualità organolettiche.
Al palato è dapprima cremoso, morbido e docile, mentre nella seconda metà entra in gioco una forte spinta acida che lo accompagna nel finale. Le note evolutive si manifestano con persistenza ed intensità nel finale, dove ritornano il balsamico e l’aroma di noci accanto a un accenno di dolcezza che mitiga le sensazioni tanniche di buona fattura.
Il tempo giova al vino che acquista maggiore precisione e pulizia, giungono particolari sfumature di cachi maturi, di buccia d’uva e minerali. Piacciono meno l’insistenza dell’alcol e la sensazione di grassezza che rischia a lungo di stancare.
Il giovane produttore si ispira alla scuola dei vini biodinamici e sembra avere imboccato una strada difficile ma ricca di stimoli e suggestioni. Certo non è un vino perfetto o politicamente corretto, ma non mancano gli spunti di interesse.
Un faccino e mezzo :-)

26 luglio 2010

Aleatico Toscano Rosa della Piana 2009 La Piana

Angelo Peretti
Un bel rosato dall'isola di Capraia. Che poi dire "rosato" rischia perfino di sembrare fuorviante, e qui di seguito cerco di spiegare perché.
Facciamo così, ricominciamo: un bel vino dall'isola di Capraia. Un igt a base d'aleatico. Le uve coltivate secondo i canoni dell'agricoltura biologica.
A dire il vero - e qui cerco di spiegare l'arcano dell'incipit -, ch'è un rosato te n'avvedi dal colore nel calice, ma se il vetro fosse nero e annusassi senza aver contezza della tonalità, be', diresti che hai di fronte un bianco. Nel senso che c'è un invitante, aggraziato, rinfrescante mix di vegetalità e di florealità che ti si presenta all'olfatto. E, insieme, un che di speziato che fa pensare ad un bianco, chessò, altoatesino, e comunque montanaro prima che marino.
In bocca c'è freschezza tesa, nervosa, indomita. Addirittura sembra che il vino viri a tratti verso un'astringeza quasi tannica. La speziatura, poi, è del tutto coinvolgente, con quei ricordi avvolgenti di cardamono.
Ecco, in bocca torna ad essere un rosato ad ogni effetto. Epperò pare ancora guardare a latitudini settentrionali. Diresti che hai davanti un moscato rosa, ma senza le dolcezze (le sdolcinature, a volte) che talvolta lo contraddistinguono.
Insomma: vino curioso, per molti tratti addirittura anomalo, eppure del tutto avvincente.
A tavola non saprei proprio come abbinarlo, ma un bicchiere lo berrei ancora molto, molto volentieri.
Incuriosito, sono andato a vedere il sito internet del produttore (in home page il logo della Fivi, la Federazione dei vignaioli indipendenti), e devo fare i complimenti per le informazioni che vi si possono raccogliere (anche se magari qualche tempestività nell'aggiornamento ci starebbe: per esempio metterci anche l'etichetta di questo rosato): in ogni caso, vivaddìo, di tanto in tanto qualche vigneron che ti racconta le cose lo trovi.
Ho visto che il 2009 è stato il primo anno di produzione per questo rosato, e che se ne son fatte solo milleduecnto bottiglie. Se il buongiorno si vede dal mattimo, qui siamo messi proprio bene: sarà gironata radiosa.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

25 luglio 2010

Il vino dei salesiani

Angelo Peretti
Ci sono tre cose che neppure l'infinita sapienza dello Spirito Santo conosce: come la pensano i gesuiti, quante sono le congregazioni delle suore e dove trovano i soldi i salesiani. La barzelletta me l'ha raccontata qualche anno fa proprio un salesiano, per cui non credo la si possa annoverare fra le storielle anticlericali.
Da quel che conosco del modo d'agire dei figli di don (san) Giovanni Bosco, be', come trovino i soldi i salesiani lo so: essendo intraprendenti e concreti. Magari mettendosi a fare impresa. Come accade dalle parti della Terra Santa, che è in realtà - lo sappiamo - terra martoriata, al confine tra Israele e Palestina, e fors'è vero che per esser santi occorre esser prima martiri.
Là, a cinque chilometri da Betlemme e una dozzina da Gerusalemme, i salesiani fanno vino. Fino a qualche anno fa - ho letto - produceva anche più di 400mila bottiglie l'anno. Poi, coi disastri che ci sono stati da quelle parti, la produzione è crollata. Ora si riparte. Con un progetto di cooperazione che ha messo insieme realtà molto diverse, qui in Italia. Che so: da Riccardo Cotarella alla Civiella, la piccola cooperativa che ha a capo Sante Bonomo, sul "mio" lago di Garda, dal Vis, il Volontariato internazionale per lo sviluppo, alla Provincia autonoma di Trento, e via discorrendo.
La cantina di laggiù si chiama Cremisan. L'accento, se ricordo come pronuncia il nome Sante, va sulla e: Crèmisan. Dà lavoro a una quindicina di famiglie, più gli stagionali. E col venduto si finanziano attività educative per i ragazzi del posto: don Bosco faceva grosso modo così, nel suo Piemonte dell'Ottocento.
Uno dei vini l'ho tastato. In realtà, dovevo provarne due, ma uno sapeva di tappo. Peccato.
Quello che ho bevuto è un bianco. Si chiama Hamdàni & Jàndali, che sono poi i nomi dei vitigni autoctoni da cui nasce. Coltivati dalle parti di Shaffa, vicino a Betlemme.
Come l'ho trovato? Un bel bianco. Magari un po', come dire, "perfettino": mi sarei aspettato qualcosa che mi raccontasse di più la tensione della sua patria d'origine. Epperò è un bianco che si fa bere, e che potrebbe tranquillamente competere sul mercato internazionale.
Cerco di descriverlo.
Al naso, subito, immediato, un accattivante ricordo di ananasso. Poi, la pesca bianca. E gradualmente verrà fuori, poi, una vena elegante di salvia e un che di mentuccia.
In bocca c'è polpa. E morbidezza. Attenti: morbidezza, mica dolcezza. Ed anche vi è una bella frechezza che aiuta la beva e dà slancio al frutto.
Il finale, di buona lunghezza, è tutto giocato sul frutto tropicale surmaturo.
Vino esotico, non c'è dubbio. L'alcol è a tredici gradi.
Il packaging è moderno, marketing oriented. Come il vino, del resto.
Se dovessi valutarlo coi miei faccini, direi uno e quasi due. Ma qui gli unici faccini che m'interessano son quelli dei ragazzini che - spero - potranno diventar grandi anche con queste bottiglie, e aiutare a portare comprensione reciproca in quel pezzo di mondo. Che ha bisogno di pace. Come tutti.

21 luglio 2010

Vermentino di Gallura Vigna'ngena 2009 Capichera

Angelo Peretti
Dicono che accostando una conchiglia all'orecchio si senta il mare. A me non è mai capitato. Al massimo, il suono d'un giro d'aria. Ma il rumore del mare è un'altra cosa.
Il mare l'ho sentito invece - ma qui non sto parlando di suono - dentro a un bicchiere. Ne ho avvertito lo iodio, il salmastro. E il bicchiere era quello d'un avvincente Vermentino di Gallura, il Vigna'ngena (la vigna d'altri) di Capichera. Annata ultima, 2009.
Gran bel bianco. Marino, appunto, sin da quando avvicini il calice al naso e poi sempre, quasi puntigliosamente, durante la beva, e perfino nel vetro ormai vuoto, con persistenza infinita.
Parimenti è lunghissima la presenza del fiore di ginestra e di zagara, e ancora sono sensazioni che rammentano il mare.
Di più, all'olfatto, qualche vena d'altro fiore. Sbaglio a dire biancospino? E un che d'agrumato. E ancora, man mano, una nota appena accennato forse di mentuccia.
In bocca è la freschezza a convincere ed avvincere (lo definivo, pocanzi, avvincente questo vino sardo). La salinità è a tutto tondo. C'è poi frutto croccante, direi mela. E ancora una florealità elegante, avvolgente.
Il finale è bell'asciutto.
La lunghezza, dicevo, è esemplare.
Da bere e ribere nell'estate.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

19 luglio 2010

Pomerol 1973 Château La Rose Figeac

Angelo Peretti
Niente a che vedere con la terragna austerità che mi piace di Pomerol e neppure vi è – ed è curioso - il tratto distintivo del velluto del merlot, vitigno principe dell’appellation, e pure suo marchio di fabbrica.
Qui ci ho trovato soprattutto, nettissima, la varietalità del cabernet franc, che pure non dovrebbe incidere enormemente nel blend (in vigna - leggo - ne hanno un 10-15%). Eppure invece la sua presenza marca il vino in maniera impressionante, con una percezione verde giovane e indomita. Pensare che la bottiglia è del 1973, mica ieri.
Al naso e in bocca s’è presentato dunque tipicamente improntato sul franc. Erbaceità, vegetalità. Come dicevo, di notevole giovinezza.
Sotto, il frutto rosso e un che di terroso.
In bocca, grande beva. E snellezza. Ed ancora una buona freschezza.
Vino da bere.
Non gli daresti quasi quarant’anni d’età. Ci riescono solo a Bordeaux. O forse dovrò dire "ci riuscivano"? Ché negli ultimi anni anche in terra bordolese hanno sterzato verso la concentrazione più che verso la snellezza.
Due lieti faccini :-) :-)

16 luglio 2010

Cronaca di un viaggio in Borgogna: #6 Domaine Lafarge

Mario Plazio
Sesta e ultima tappa del mio viaggio di maggio in Borgogna. Riassimo le puntate precedenti: nella prima è stato di scena Vincent Dauvissat, Chablis, poi il Domaine Maume, il Domaine Ghislaine Barthot e il Domaine Louis Boillot, a Gevrey-Chambertin, dopo ancora il Domaine Antoine et Francois Jobard e Mersault. Ora ecco il Domaine Lafarge.
Lafarge è un produttore per certi versi sulla scia di Jobard. Poco considerato dalle guide, non segue alcuna moda o tecnologia modernista. I vini della cantina (principalmente rossi) vengono ottenuti nella più classica tradizione borgognona. Le fermentazioni avvengono con i lieviti indigeni della cantina e non viene utilizzata nessuna tecnica di estrazione degli aromi a freddo, ormai diffusa nella stragrande maggioranza dei produttori e all’origine di un certo appiattimento del carattere dei vini. Senza farlo troppo sapere sono in condotta biodinamica della vigna da circa 10 anni, con un approccio molto pragmatico e per nulla esoterico. Hanno notato grossi miglioramenti nelle piante e una maggiore spontaneità e precisione nei vini.
Volnay 2009 (dalla botte)
Malolattica svolta, nessun travaso. Vigna di 50 anni. Nella linea dei vini della cantina, slanciato e abbastanza tannico. Il frutto non è sovra maturo, il naso profuma di ciliegia e lampone, mentre al palato l’acidità regala una bella freschezza all’insieme. I tannini aiutano il vino ad allungarsi su note fumé e di sottobosco. Un ottimo “village”
Due faccini :-) :-)
Beaune Premier Cru Grèves 2009 (botte)
Maggiore finezza, la differenza la traccia il palato dove la materia è sicuramente più nobile, fine e continua. Grande qualità dei tannini, dolci e morbidi. Peristente.
Due faccini e mezzo
Volnay Premier Cru Caillerets 2009 (botte)
Meno pronto dei precedenti, sembra però dotato del frutto migliore, dolcissimo ed elegante nonostante sia ancora bloccato dalla presenza di CO2. Ancora una splendida qualità dei tannini. Da rivedere ma sicuramente un eccellente bottiglia in divenire.
Tre faccini :-) :-) :-)
Volnay Premier Cru Château des Ducs Monopole 2009 (botte)
Uno dei migliori vini della cantina, in questa occasione non si presentava nella sua migliore forma. Ancora con molta CO2 a disturbare la degustazione. Minerale e floreale, austero. Da risentire in bottiglia.
Due faccini (ma saranno sicuramente di più) :-) :-)
Volnay Premier Cru Clos des Chênes 2009
Vigne di 60/70 anni, altra specialità della casa. Più a fuoco del precedente. Piace l’impressione di spontaneità e di energia senza forzatura alcuna. Materia sottile ed elegante, lunghissimo sembra non finire mai. Al naso è animale e minerale con cenni di ciliegia e sottobosco.
Un faccino e mezzo
Volnay 2008
A maggio era da un mese in bottiglia. L’annata si percepisce da una materia più snella e con acidità più spinta. Bella frutta fresca macerata e fumé al naso. Minerale e salino, deve ancora assestare i tannini un po’ spigolosi. Eccellente Village.
Due faccini :-) :-)
Volnay Premier Cru Mitans 2008
Maggiore solidità e presenza. Note di sottobosco e menta secca conducono ad una bocca che deve digerire il legno e dai tannini ben presenti. Più largo e lungo del precedente, termina su una percezione salina.
Un faccino e mezzo :-)
Volnay Premier Cru Château des Ducs Monopole 2008
Più minerale che fruttato. Setoso, delicato e lungo, è anche più fine e dotato di tannini armoniosi. E’ al tempo stesso austero e rotondo per la sensazione di equilibrio delle componenti.
Tre faccini :-) :-) :-)
Volnay Premier Cru Clos des Chênes 2008
Più grosso del precedente, chiede ancora del tempo per mettersi a posto. Tannini meno nobili e piuttosto rustici, si farà ma senza la lunghezza e l’armonia dello Château des Ducs.
Due faccini :-) :-)
Volnay Vendange Sélectionnée 2007
Piacevole, si porge meno acido e con un cenno di vegetalità. Sembra anche leggermente diluito. Bello da bere, ma non illumina.
Un faccino e mezzo :-)
Beaune Premier Cru Grèves 2007
Percepibile una maggiore evoluzione. Orientale, speziato, cuoio, in bocca non è dotato di una grande materia, ma gioca la partizione sulla finezza e riesce ad avere una discreta lunghezza. Minerale. Dovrebbe evolvere con grazia.
Due faccini e mezzo :-) :-)
Volnay Premier Cru Clos des Chênes 2007
Abbastanza avanti con la maturazione ho un aspetto morbido e sensuale. Speziato e setoso, ha una buona lunghezza, nel finale esce già una nota di tartufo.
Due faccini e mezzo :-) :-)
Volnay Premier Cru Mitans 2006
Sensazione di calore associata a liquirizia e minerale. Austero e tannico richiede tempo per trovare il migliore assetto. È meno preciso e a fuoco di quanto si potrebbe pensare, e di lunghezza appena sufficiente.
Un faccino e mezzo :-)
Volnay Château des Ducs 2006
Pur non essendo scomposto come il precedente, ne ricalca per certi versi la prestazione. Il legno si percepisce, la materia è potente ma si blocca, non allunga nel finale e presenta dei tannini secchi. C’è la concentrazione ma non l’eleganza.
Due faccini :-) :-)
Volnay Clos des Chênes 1993
Vino di un millesimo eccellente e all’apice della maturazione. Freschissimo, giovane malgrado gli evidenti aromi terziari. Profuma di rosa, cuoio e curry. Bocca orientale, sembra di entrare in un bazar. Spinta ed energia da vendere. Un vortice di aromi si sussegue: lacca cinese, liquirizia in infusione, pietra e mare, erbe officinali. Rende perfettamente l’idea di un grande pinot nella massima fase di evoluzione.
Tre faccini e oltre… :-) :-) :-)

15 luglio 2010

Alto Adige Pinot Nero 2007 Franz Haas

Angelo Peretti
Metti una sera a cena in riva al lago. Il mio lago, il Garda. Menù di pesce, of course. Voglia d'un bicchiere di vino. Ma rosso. Un bicchiere, due al massimo: fa caldo. Cerchi fra le mezzine, allora, ché il ristorante ne è ben fornito (bravi!). Trovi il Pinot Nero 2007 di Franz Haas. Può essere la soluzione. Ordini.
Arriva la bottiglietta. Chiusa con lo Stelvin.
Ora, chi mi dicesse ancora che la capsula a vite va bene per i vini bianchi ma non per i rossi, be', rischierei di mandarlo a quel paese. Quanto meno, Haas ha ragione da vendere: col Pinot Nero ci sta eccome, lo Stelvin.
Il vino è in forma smagliante.
Colore assolutamente pinoteggiante, e dunque scarico ma brillante.
Al naso è fascinosamente varietale. La fragola, le spezie.
In bocca è succoso di fruttino, ancora speziato. Il tannino è morbido.
Si beve che è un piacere.
Alla faccia di chi ancora ha dei dubbi.
Eppure anche lì, al ristorante Alla Fassa, a ridosso della spiaggia di Castelletto di Brenzone, mi si dice che quand'arriva in tavola la bottiglia chiusa con la vite, c'è chi storce il naso, chi rifiuta il vino.
I luoghi comuni son difficili da sfatare. I pregiudizi pure.
Sfatiamoli. Haas fa bene ad insistere. Anche col Pinot Nero.
Due lieti faccini :-) :-)

14 luglio 2010

Cronaca di un viaggio in Borgogna: #5 Domaine Antoine et Francois Jobard

Mario Plazio
Quinta tappa del nostro viaggio in Borgogna. Confesso che non avevo una grande voglia di fare tappa a Mersault. Troppo spesso sono stato deluso da vini troppo tecnici e con un boisé troppo tostato, ad uso e consumo dei clienti anglosassoni, destinatari di gran parte della produzione di questo settore della Côte d’Or. E come sempre i preconcetti si dimostrano sbagliati.
Eccomi dunque a Mersault. Riassunto delle puntate precedenti: nella prima è stato di scena Vincent Dauvissat, Chablis, poi il Domaine Maume, il Domaine Ghislaine Barthot e il Domaine Louis Boillot, a Gevrey-Chambertin. Ora eccomi al Domaine Antoine et Francois Jobard.
Poco amato dalle guide, segnalato come un produttore sì tradizionalista, ma senza particolari spunti di eccellenza, Jobard, ora spalleggiato dal figlio François, dà vita a vini di una purezza cristallina da lasciare senza fiato. Nessun ammiccamento alle mode enologiche del momento, qui la tradizione significa rispetto del terroir e della identità di ogni singolo cru. La maison pratica una viticoltura semplice, volta a non trasfigurare la trasparenza del vino.
Il legno viene usato con giudizio, i lieviti sono quelli spontanei della cantina, il batonnage non viene praticato nel modo più assoluto. Ne risultano dei vini puri, nobili e finissimi. Prova ne è la degustazione del millesimo 2007, considerato da guide e riviste “difficile” per non dire disastroso. Jobard ha invece prodotto dei vini finissimi, cristallini ed eterei, ovviamente tutt’altro che grassi e opulenti, ma che sapranno invecchiare a lungo ed evolvere in maniera straordinaria.
A dire del produttore sono rimasti gli ultimi a lavorare in maniera tradizionale a Mersault e a non fare uso di tecnologie di cantina moderne. È ricercata la verticalità e la capacità di durare ed evolvere nel tempo. Sono vini di alta gastronomia.
Attenzione: gli Jobard sono numerosi!
Mersault 2007
Ancora indietro, ha bisogno di trovare l’equilibrio. Al momento si sente il legno, la spezia e una nota vegetale che però non disuturba. Austero e poco espressivo.
Un faccino e mezzo :-)
Mersault Les Tillets 2007
Climat nella parte alta del villaggio, qui è trattato come un Premier cru. Terreno con argilla che conferisce delicatezza alla struttura. E’ speziato, minerale e sa di miele. In bocca ha un ottimo attacco e una eleganza che è segno del millesimo. Lungo e fine, termina con una sensazione salina che poche volte ho trovato così evidente.
Due faccini :-) :-)
Mersault Premier Cru Blagny 2007
Terroir vicino a Puligny-Montrachet e sopra il cru Perrières, necessita di vendemmie ritardate. Ricorda per certi spetti il precedente con un supplemento di finezza e di precisione. Quasi timido, si rivela invece lungo e minerale, sente i fiori e la mandorla. Delicatissimo, non deve trarre in inganno la sua apparente fragilità. Ancora la sensazione salina.
Tre faccini :-) :-) :-)
Mersault Premier Cru Blagny 2008 (dalla botte)
Ancora carbonica, poi le caratteristiche note di miele e sale. Impressione di maggiore corposità, anche se è difficile da giudicare. L’equilibrio si gioca verso una materia più concentrata e sensazioni tattili più evidenti. Sembra però meno fine e lungo del 2007.
Due faccini e mezzo :-) :-)
Mersault Premier Cru Poruzot 2007
Molto introverso, esce solo in bocca dove si rivela più grasso e rotondo del precedente. È’ comunque continuo e di buona lunghezza. Miele, camomilla e l’ormai consueto tocco salino sono gli aromi più ricorrenti.
Due faccini :-) :-)
Mersault Premier Cru Genevrières 2007
Una vigna che è assimilabile ad un grand cru: è il pezzo più pregiato della cantina e non ha deluso le attese. Uno dei vini bianchi più grandi di tutta la Borgogna, ricorda (e sorpassa) un Corton-Charlemagne e forse cede solo a qualche Montrachet, che però costano 5 o 6 volte di più. Pur essendo ancora alle prime fasi di una lunga vita, il vino è già un vortice di aromi, che vanno dai fiori di arancio, alla resina, alla nocciola, alle spezie (pepe), allo zafferano. Il tutto è amplificato da una sottostante vena minerale di notevole eleganza. Nel bicchiere non si ferma un istante, continua ad evolvere con cristallina trasparenza. Si intuiscono poi anche la violetta, la ormai proverbiale nota salata (di capperi) e poi nel finale un ricordo di idrocarburi non del tutto usuale negli chardonnay di questa zona. Meraviglioso.
Tre faccini molto abbondanti :-) :-) :-)
Mersault Tillets 2006
Impressione di concentrazione con miele e burro. Più caldo e grasso, è meno fine e verticale del 2007, termina con una leggera sensazione di amaro e di sale. Carnoso e sensuale, non è così raffinato come il 2007. Il 2006, così ben valutato dai vari degustatori francesi, si conferma un millesimo grosso, ma forse non grande. Molti vini sono già evoluti e comunque non così fini come quelli del 2007, troppo presto giudicato come millesimo mediocre.
Due faccini e mezzo :-) :-)
Mersault Premier Cru Poruzot 1997
Un 1997 in controtendenza rispetto alla media dei “colleghi” figli di una annata torrida e poco adatta ai lunghi invecchiamenti. Il vino non ha ancora detto tutto quello che ha nelle sue corde. Balsamico e floreale, ha un impatto notevole, segno del calore della annata, ma continua con eleganza e finezza, riscattandosi nel finale fumé e marino. Gran parte dei '97 bianchi sono già morti. Grande prestazione…
Tre faccini :-) :-) :-)
Mersault Premier Cru Genevrières 1993
Altro millesimo non sempre valutato come dovrebbe o potrebbe, caratterizzato da una elevata acidità. Il cru prende la sua giusta dimensione solo dopo una quindicina di anni di maturazione. Il naso è di una complessità incredibile. E’ chiaramente evoluto, ma ancora giovane. Aromi di nocciola e pietra bagnata accompagnano una bocca di una profondità raramente provata. Chirurgico, elegante, non cede un millimetro e termina su una bellissima nota minerale e di crostacei, accompagnata da sentori di brioche e spezie (tipico del cru).
Tre faccini molto abbondanti :-) :-) :-)
A breve arriverà la sesta puntata, che ci porterà al Domaine Lafarge, a Volnay.

13 luglio 2010

Vino al Vino sospende la pubblicazione (e adesso cosa leggo?)

Angelo Peretti
Fossimo stati in primavera, e non in mezzo alla stordente calura di luglio, l'avrei preso per un pesce d'aprile. Invece no, accidenti, è roba seria: Vino al Vino, il blog di Franco Ziliani, chiude le pubblicazioni. Per ora, si spera. Ma lui non dice se sia pausa temporanea oppure definitiva.
Ieri, sorprendendo - per quanto ne sappia - un po' tutti, Franco ha scritto così: "Con i due post pubblicati oggi Vino al Vino si congeda, non ho ancora deciso se provvisoriamente o definitivamente, dai propri lettori. È un momento molto particolare quello che sto vivendo, in cui ho bisogno di fare chiarezza in me stesso, di capire molte cose che per lungo tempo, troppo tempo, mi sono illuso potessero essere rimandate sine die e che mi sono rifiutato di affrontare. Chiamatela pausa di riflessione, oppure 'vacanza', o chiusura a tempo indeterminato, poco cambia".
Rispetto, ovviamente, la decisione di Franco. Ma mi auguro sia solo una pausa in un percorso che l'ha portato ad essere il wine blogger di punta dalle nostre parti. Se dico che è stato un caposcuola sa di epitaffio, e dunque fate la finta che non l'abbia scritto. Però, "parliamoci chiaro - le parole sono quelle pubblicate ieri Luciano Pignataro -, Franco Ziliani ha avuto un ruolo importantissimo, direi decisivo, per l’affermazione di internet come strumento di comunicazione nella critica enologica". E rubo ancora le parola di Luciano nel sottolineare che davvero, grazie anche all'azione di Franco "la critica enologica non può più prescindere dal web e molti vini sono diventati famosi anche se ignorati nelle valutazioni del cartaceo. Una situazione del tutto nuova, maturata a partire dal 2005, che ci ha spinto a considerare come nel vino sia internet a dettare le regole mentre nel food è costretto ancora subirle. Nel fare questo Franco si è creato molti nemici e procurato non poche seccature".
Certo, molti l'hanno considerato un gran rompicoglioni - l'anglicismo mi sia concesso - ma personalmente l'ho sempre reputato invece una persona ammodo, magari dal carattere a volte un po' sopra le righe (ma azzardo troppo a dire che è tipico del timido graffiare per non essere aggredito?), uno che ama dire pane al pane e, appunto, vino al vino, assumendosi la responsabilità di quel che scrive. Mica sempre ne ho condiviso le tesi, e ci mancherebbe. Ma gli riconosco quell'onestà intellettuale che permette anche, se necessario, di invertire la marcia quando ci si accorge d'essere andati fuori strada, e non è una dote di molti.
Aspetto, fiducioso, la ricomparsa sul web. Intanto mi domando: e adesso la mattina cosa leggo?

12 luglio 2010

L'ideologia del chilometro zero

Angelo Peretti
Condivido l'idea dei mercati - come s'usa dire ora - a Km 0. La condivido perché penso sia davvero necessario disintermediare. E dunque che sia bene avvicinare i produttori agroalimentari ai consumatori. Una buona maniera per portare reddito - direttamente - a chi coltiva la terra.
Ho però un timore. Che il chilometro zero diventi uno slogan. Che se ne svuoti il significato. Com'è accaduto per tanti, troppi posti dediti - sulla carta - all'agriturismo. Che sono invece in realtà né più né meno che ristoranti.
Esagero? Può essere. Ma di recente una persona di cui ho buona opinione m'ha segnalato - convinto - un certo locale del Veronese, perché coerente con la filosofia, appunto, del km 0. E infatti - m'ha spiegato - lì s'usano produzioni che vengono da Verona, dal Veneto e dal Trentino.
Mi sa che se ci si fa convinti che Verona disti "zero chilometri" dal Trento e da Belluno, be', allora la matematica è davvero diventata un'opinione.

10 luglio 2010

E adesso sulle bottiglie dei soci della Fivi comincia a vedersi il marchietto

Angelo Peretti
Credo, o meglio, spero che occorrerà cominciare a memorizzarlo il logo dell'omino con il cesto di uva sulla testa e l'ombra che diventa una bottiglia. Il marchio è quello della Fivi, la Federazione italiana dei vignaioli indipendenti. Nata nel luglio del 2008 su modello della francesissima federazione dei vigneron indépendant, l'italica federazione ha l'ambizione di mettere a fattor comune l'esperienza dei vignaioli nostrani. Definendo il vignaiolo - lo si legge in una nota diffusa nei giorni scorsi - come "colui che coltiva le sue vigne e ne imbottiglia in cantina il prodotto, curando personalmente il proprio vino. Vende tutto o parte del suo raccolto in bottiglia, sotto la sua responsabilità, il suo nome e con la sua etichetta". E non è poca cosa.
Sta di fatto - ed è questa la notizia - che in questi giorni han preso a circolare le prime bottiglie che portano impresso - in etichetta o sulla capsula - il logo della Fivi. Significa che quel vino è stato fatto da un produttore che s'è impegnato a rispettare lo statuto associativo, che è abbastanza restrittivo. Esattamente come accade per i vigneron transalpini. Di là dalle Alpi compare il marchietto dell'omino con la gerla in spalla: è il segno che quel vino è in regola con l'autodisciplina del (potente e lobbystico) gruppo francioso. Qui da noi, dicevo, l'ometto che si troverà - e in alcuni casi già si trova - ha il cesto sul capo. Più stilizzato e in monocromia rispetto al logo che riproduco qui (ha fatto la sua comparsa all'ultimo Vinitaly). Spero abbia però la stessa efficacia del modello di Francia.
Già, perché dei vini dei vigneron francesi sono da anni acquirente (son tanti, tantissimi i soci da quelle parti) e mai - dico mai - mi son pentito dell'acquisto. Sempre bevuto bottiglie fra il buono e l'eccellente. Dotate di personalità. E di rispondenza ai caratteri di terroir. Una garanzia, per la mia personalissima - ma ormai pluriennale - esperienza.
Spero - ripeto, spero - che anche in Italia sia così: che quel marchio diventi sinonimo d'una garanzia suppletiva, della conferma d'un sincero rispetto del terroir d'appartenenza. Che si possa pensare che davvero non c'è trucco e non c'è inganno. Che quel certo vino racconta realmente il magico incontro d'una vigna, d'un suolo, d'un clima e soprattutto della personalità d'un uomo o d'una donna che fa vino.
Se la scommessa sarà vinta - ed è scommessa prima di tutto culturale, ideale -, molte cose cose cambieranno nel mondo del vino italiano. Finalmente.
Intanto, c'è il marchio. E a novembre dovrebbe esserci - sembra a Torino - anche il primo “Salone dei vignaioli indipendenti”, durante il quale - lo dice un'ulteriore nota dell'associazione - "i consumatori potranno fare la spesa direttamente dai produttori". Ed anche questa è una novità.

9 luglio 2010

Champagne Grand Cru Blanc de Blancs 2003 Corbon

Angelo Peretti
In fatto di bolle, siete gente da chardonnay o da pinot (nero, meunier)? Se state col primo dei due schieramenti, questo qui è uno Champagne che penso proprio potrebbe piacervi: il Grand Cru Blanc de Blancs millesimato 2003 della maison Corbon.
Altra domanda: se amate il Blanc de Blancs, preferite la maturità del frutto - magari accentuata dalla vena boisé - o ne cercate una tendenza più spigolosa? Anche in questo caso, se state dalla prima parte, questa è etichetta che fa per voi. Con quell'albicocca - maturissima e in confettura -, quella burrosità, quella nocciola che certo vi daranno soddisfazione.
Lo Champagne in questione m'è stato inviato direttamente dalla casa, e ringrazio. E l'ho provato - bevuto - volentieri.
Mi si dice che la proprietà è di 6 ettari. Ad Avize, Grand Cru caratterizzato da terreni in prevalenza gessosi, "che conferiscono corpo e pienezza allo chardonnay". Ed è questa la linea stilistica del vino: corpo e pienezza, appunto, con l'aggiunta di perlage minuto e cremoso, assolutamente, indelebilmente, perfettamente champagnista.
Dicono, alla maison, che il loro obiettivo è la "ricerca di una più spiccata matericità dello champagne". Be', direi che ci siamo, ed è matericità di lunga persistenza al palato.
Ergo: qui ci ritrovate tutti i requisiti per chi predilige, appunto, lo chardonnay: il vitigno ovviamente, in una zona assolutamente vocata, eppi il frutto e una sostanza setosa e perfino un'annata anch'essa sostanziosa (col suo calore: ricordate vero?).
Oh, aggiungo che se avete in mente di fare un giro nella zona durante le vacanze, una sosta in azienda potrebbe essere interessante, perché - l'ho letto nella documentazione che mi hanno inviato - Agnès Corbon e suo padre Claude hanno allestito tre diversi workshop per gli appassionati delle bollicine franzose. Il primo si chiama "une journée en Champagne" e si propone di far conoscere di tutto e di più in fatto d'elaborazione dello Champagne e di degustazione. Altro stage è quello su "Champagne e cibo". Terza proposta: "L’aoc Champagne et bien plus encore: Champagnes et arômes", dedicato alla fisiologia del gusto. Ovviamente il tutto con visita alla cantina e assaggi. Non male: occorrerebbe che anche in Italia ci fosse simile attenzione alla didattica del vino e a quello che - un po' pomposamente - si vuol chiamare enoturismo.
Ah, dimenticavo i faccini: due, piuttosto lieti :-) :-)

8 luglio 2010

Cronaca di un viaggio in Borgogna: #4 Domaine Louis Boillot

Mario Plazio
Continua la cronaca del viaggio in Borgogna. Nella prima puntata è stato di scena Vincent Dauvissat, a Chablis, poi il Domaine Maume, a Gevrey-Chambertin, quindi, ieri, il Domaine Ghislaine Barthot ed ora, come preannunciato, il Domaine "gemello" di Louis Boillot.
Gevrey-Chambertin Les Evocelles 2008
Vigna molto vecchia a nord nella parte alta della collina. Spezie, ferro e pietra. Bocca potente e virile, si sente al momento il legno che secca il finale e blocca la progressione. Piccola delusione.
Un faccino e mezzo :-)
Gevrey-Chambertin Vieilles Vignes 2008
Impressione di un vino troppo tecnico e meno ispirato. Ben fatto, teso per la acidità, ma anche caldo e tannico, non riesce però a spingere come dovrebbe. Tannini non proprio fini.
Un faccino e mezzo :-)
Volnay Premier Cru Les Caillerets 2008
Saliamo di tono con un pinot fine e floreale. Al palato è sassoso e minerale, sente il calcare. Tuttavia esce anche qui un legno leggermente invasivo (30% di nuovo sui Premier cru) e il finale tende a seccare. L’impressione è comunque che con il tempo gli spigoli si smusseranno e ne uscirà un vino molto interessante. Bello il carattere “calcareo” che appartiene al terroir.
Due faccini :-) :-)
Pommard Premier Cru Les Fremiers 2008 Dicono che è il terroir meno Pommard di tutti. Infatti si esprime con eleganza, è aperto, fumé, porge sentori di inchiostro e di spezie. La bocca è paradossalmente tra le più fini, sa di pietra e infusione di erbe. A metà bocca escono i tannini che restano ben distribuiti. Finale di cuoio.
Due faccini e mezzo :-) :-)
Pommard Premier Cru La Croix Noir 2008
Vigna di 80 anni. Torniamo su una definizione più tipica del Pommard. Austero, crudo e teso, sente la ciliegia, è selvatico. Bocca “cattiva” diritta e anche dinamica, senza sconti o concessioni alla facilità.
Tre faccini :-) :-) :-)
Gevrey-Chambertin Premier Cru Le Charbaude 2008
Vigna di 90 anni. Dopo un inizio leggermente vanigliato, questo Gevrey si rivela come una macchina diesel dei vecchi tempi. Parte in sordina e man mano prende una dimensione strepitosa. Serio, apparentemente poco espressivo, ha una materia finissima ma enorme che cesella una delle più belle prestazioni in termini di continuità e lunghezza. Si avvicina al Pommard per una nota minerale e quasi ferrosa, nel finale si scorgono anche i fiori. Trasparente.
Tre faccini abbondanti :-) :-) :-)
Nuits-Saint-Georges Premier Cru Les Pruliers 2008
Uno dei migliori premier cru della denominazione. Legno appena percettibile, assieme a nocciolo di ciliegia, prugna e carne. Si sente la materia. In bocca è diverso dal precedente per la sensazione di maggiore morbidezza. Il finale è invece più fine e delicato, salino, pulisce il palato. Nel complesso piuttosto muscolare e gourmand, senza però mancare di finezza.
Tre faccini :-) :-) :-)
Per la quinta tappa del nostro viaggio borgognone ci fermeremo nel Domaine Antoine et Francois Jobard, a Mersault.

7 luglio 2010

Cabernet Franc: è l'ora della riscossa?

Angelo Peretti
Coraggio, voi tutti che avete piantato cabernet franc in terra friulana, veneta, trentina, toscana o dovunque abbiate vigna: questo è il vostro momento. Non so quanto durerà, e se davvero durerà, ma non dovrete più - almeno per un po' - vergognarvi. E potrete smetterla - alla buon'ora - di dire che no, non è franc: è carmenere. Perché invece potrete finalmente andarne fieri del vostro selvaggio cabernet, giacché nel mondo anglo-americano del vino sta montando una tendenza in suo favore. E chissà se potrà consolidarsi e durare - 'sta cosa - a mo' del fenomeno pinot grigio. Niente illusioni: temo sia difficile. Ma insomma...
Leggo sulle WineWebNews curate da Franco Ziliani per il sito dell'Associazione sommelier che in California, sull'edizione on line del Sacramento Bee, Chris Macias parla proprio del cabernet franc. Dicendo che è una varietà alla ricerca d'autostima. E si capisce, oscurata com'è dal fratello maggiore, l'onnipresente, straripante cabernet sauvignon. Ma che, insomma, è una varietà che sta piacendo. Al punto che il cabernet franc fa man bassa di premi nei concorsi a stell'e strisce. Che si stia invertitendo la china?
Prudenza, ragazzi. Anche perché, e lo dice sempre l'articolo di Macias, "la domanda di cabernet franc da parte dei consumatori rimane minima". E secondo il Dipartimento statunitense per l'agricoltura, a fronte di 14mila tonnellate di cabernet franc, nel 2009 se ne sono piazzate quasi 443mila di cabernet sauvignon. Ma intanto c'è una tendenza che nasce.
Si obietterà: mica vorrai che a far tendenza sia la pur rispettabile Ape del Sacramento. E no che non voglio, ci mancherebbe.
Ma c'è un'altra testata che ha dedicato un pezzo alla rivincita del cabernet franc. E questa è ben più referenziata, e fa tendenza: la brittanica Decanter, "the world's best wine magazine", come s'autodefinisce in copertina. Sul numero di luglio Steven Spurrier scrive un editoriale dal titolo piuttosto esplicito: "In lode del Cabernet dimenticato". E quello dimenticato è, appunto, il Cabernet Franc. E l'occhiello non esita a spiegare che quest'è un vino - e un vitigno - "destinato a essere una stella di prima grendezza nel firmamento dei vini più leggeri e più fragranti". Acciderbolina.
L'infatuazione di Spurrier per il Cabernet Franc è sbocciata a Roma, durante le degustazioni del Roma Vino Excellence e del Merano Wine Festival. E cita più d'una testimonianza - a partire da quella di Ian D'Agata, il "maestro di cerimonia" della manifestazione - a supporto della tesi "franchista". E parla con un certo trasporto di rossi a base di cabernet franc prodotti in Toscana. Oppure nella Loira. O in California. Ovvio, anche in Francia: dice niente lo Cheval Blanc? Il '58% del campionissimo di St-Emilion è piantato a cabernet franc, appunto.
Insomma: che sia riscossa? E chi lo sa? Staremo a vedere. Certo che se si beve qualche Cabernet Franc della Loira con addosso la sua bella manciata d'anni ti vien da dire che, sì, Monsieur Franc è davvero fascinoso.

6 luglio 2010

Montecucco Sangiovese Comandante 2004 Basile

Angelo Peretti
Vini così ti spiazzano. Ti pongono interrogativi. O meglio: ti costringono a scegliere se stare dalla parte del vino enologicamente perfetto, così tanto perfetto da piacere a tutti, a costo d'apparire impersonale, oppure se sostenerne un altro meno tecnicamente ammodo, eppure personalissimo.
Ebbene, questo Montecucco - vigne nella Maremma - sta nella seconda categoria. Ché sì, appena lo stappi, al naso non è appostissimo, e ti sembra segnato magari da un legno vecchio. Ed ha tracce animalesche. Insomma: è ostico, riottoso ad aprirsi e concedersi. Eppoi anche in bocca ci trovino un filino appena appena di carbonica, e anche questo secondo i sacri testi non è buona cosa per nulla. Epperò poi vedi che la bottiglia è subito finita, nonostante i 14 gradi di alcol, nonostante un tannino di quelli da farci a cazzotti, nonostante la cucina fusion che hai sul tavolo e che chiederebbe altri accostamenti, nonostante un gran caldo estivo che anch'esso consiglierebbe altre bottiglie. Insomma: nonostante tutte 'ste cose, s'è bevuto con piacere. A Roma, al ristorante.
Leggo in contro-etichetta: "Prodotto in Toscana con vitigni di sangiovese e merlot, invecchiato in botti di rovere francese. Non essendo filtrato il vino potrebbe rilasciare qualche residuo". Sta scritto anche che lo si produce con uve da agricoltura biologica.
All'olfatto s'apre gradualmente, pian pianino, verso il frutto maturo. Fragolona e ribes assieme dapprima. Eppoi, col passar del tempo, un'inattesa, piacevolissima pesca gialla, quasi in composta.
In bocca è - credetemi - giovanissimo (ed è un 2004). La trama tannica è d'impatto. Affascina quella speziatura sottesa al frutto. E il fruttato (ancora quella curiosa pesca) è sostenuto da quella sottilissima presenza di carbonica, che ne allunga la sensazione, dandole slancio.
Vino che si propone con lentezza e progressione.
Meriterebbe di stare ancora in cantina. Ma se me ne capita un'altra bottiglia, la ristappo.
Due lieti faccini :-) :-)

5 luglio 2010

Cronaca di un viaggio in Borgogna: #3 Domaine Ghislaine Barthot

Mario Plazio
Terza parte degli appunti sul viaggio in Borgogna in maggio.
Dopo Vincent Dauvissat, referenza a Chablis, e il Domaine Maume, a Gevrey-Chambertin, mi soffermo ora sui vini dei Domaine Ghislaine Barthot e Domaine Louis Boillota, ancora a Gevrey-Chambertin.
Si tratta di due cantine con sede a Chambolle-Musigny riunite per “questioni amorose”. I terreni sono diversi, mentre in cantina le tecniche coincidono. I vini sono molto tradizionali con qualche variazione più moderna. In cantina non vengono usati lieviti selezionati ma solo quelli indigeni, e non si pratica la prefermentazione a freddo, che secondo gli interessati (e anche il sottoscritto) tende a stereotipare i vini.
Per motivi di spazio, dovrò dividere in due la descrizione dei vini. Oggi tocca a quelli del Domaine Barthot, domani al Domaine Louis Boillot.
Chambolle-Musigny 2008
Assieme di 11 vigne diverse. Chiuso ed enigmatico, parla di più in bocca. Equilibrio tra materia e finezza della trama. Violetta e liquirizia, addirittura salino nel finale. Uve vendemmiate a fine settembre, nel 2008 è stata cruciale la scelta della date della vendemmia. Da attendere almeno 10 anni
Due faccini e mezzo :-) :-)
Chambolle-Musigny Premier Cru Aux Beaux Bruns 2008
Terreno con terra profonda. Anche questo particolarmente chiuso. Si rivela per una notevole spinta al palato. Si percepiscono il lampone, il pepe verde e una leggera vegetalità. Buona maturità associata ad una acidità bilanciata. Vino in divenire dal potenziale sicuro.
Quasi tre faccini :-) :-)
Chambolle-Musigny Premier Cru Les Charmes 2008
Terreno con presenza di roccia. Naso bellissimo, puro e fine, sulla amarena e il minerale. Etereo ed elegante non dimostra la energia e la potenza di cui è in realtà dotato. Continua in bocca la sensazione minerale associata a tannini di grana finissima.
Due faccini e mezzo :-) :-)
Chambolle-Musigny Premier Cru Les Fuées
Una delle bottiglie più emblematiche della cantina. Allo stato attuale non è perfettamente a fuoco e necessita più di altre di affinamento. Naso abbastanza aperto su confettura di lamponi, torta alla prugna, mandorla, rosmarino. Si blocca invece in bocca per una certa rigidità dei tannini. Secondo la produttrice è solo una fase passeggera e andrà più lontano del Charmes.
Due faccini :-) :-)
Chambolle-Musigny Premier Cru Les Cras
Terreno di ciotoli e 20 centimetri di terra con substrato di calcare bianco. Il vino più completo: naso sulla amarena e minerale/gessoso. Alla beva si rivela luminoso, energico, salato e leggermente fumé. Sente le radici e la terra. Ancora “duro” nella progressione, deve trovare con gli anni il perfetto equilibrio tra gli elementi. “Racé” come direbbero i transalpini, un cavallo di razza che tra 10 anni sarà una bottiglia fantastica.
Tre faccini :-) :-)
Domani quarta puntata, e dunque avanti con la cantina gemella: il Domaine Louis Boillot.

2 luglio 2010

Cronaca di un viaggio in Borgogna: #2 Domaine Maume

Mario Plazio
Seconda puntata del viaggio in Borgogna in maggio.
Dopo Vincent Dauvissat, referenza a Chablis, eccomi ora al Domaine Maume, a Gevrey-Chambertin, piccolo produttore pressoché sconosciuto ma in possesso di vigne molto vecchie su alcuni dei più prestigiosi crus della Côte de Nuits. Poco interventista (forse più per pigrizia che per scelta) e fautore di uno stile classico senza forzature che porta a dei vini di una purezza imbarazzante. Dal più semplice Bourgogne al grand cru, tutte le bottiglie hanno un respiro e una “naturalità” che difficilmente mi è capitato di ritrovare altrove. I tannini sono lisci e setosi, i colori per niente carichi, e l’uso del legno è quasi sempre impercettibile. Cosa da non sottovalutare infine, i prezzi sono piuttosto accettabili.
Bourgogne Rouge 2008
Semplice, speziato e ben fatto, addirittura minerale e floreale. Merito delle vigne che hanno dai 25 ai 60 anni. Provato anche il 2002 che è in grande forma. Cosa volete di più da un generico?
Due faccini :-) :-)
Corton Charlemagne Grand Cru 2009
Un bianco assaggiato in un momento delicato e ancora prematuro. Il vino non ha ancora finito di fermentare, l’acidità è notevole e riesce a farsi strada anche tra gli zuccheri residui.
Due faccini ma da risentire, dovrebbe andare oltre :-) :-)
Gevrey-Chambertin 2008
Vino caratterizzato da una notevole mineralità, dalla mina di matita alla pietra. Poi ciliegia, mandorla e un frutto dolcissimo che continua su tannini quasi impalpabili. Finissimo.
Due faccini quasi tre :-) :-)
Gevrey-Chambertin Aux Etelois 2008
Stranamente esce il legno, anche se non nuovo. Questo disturba in un certo modo la degustazione di un vino per altro molto denso e fruttato, tutto profumato di ciliegia. Lungo e grasso.
Due faccini scarsi :-) :-)
Gevrey-Chambertin Premier Cru En Pallud 2008
Un vigneto in prossimità di un grand cru. L’impressione è di un vino più fermo ed austero, ma senza alcuna aggressività. Speziato, liquirizia, molto persistente. Inizio bocca con un bellissimo frutto e finale sul minerale con tannini rigidi ma fini. La vigna ha 75 anni.
2 faccini e mezzo :-) :-)
Gevrey-Chambertin Premier Cru 2008
Assemblaggio di 3 vigne : Cherbaude, Perrière e Champeaux.
Vigne di 40/60 anni. Uve rientrate a 14,6° naturali, 13,8 in bottiglia. L’assaggio da botti più nuove ha dato un vino che odora di minerale, rosa e carne, con una sensazione in bocca di maturità ma con una lunghezza non delle migliori. Le barriques più vecchie hanno prodotto invece un vino molto più sottile, sulla liquirizia e la cliliegia. L’insieme dei due dovrebbe dare un risultato finale particolarmente equilibrato.
Due faccini :-) :-)
Gevrey-Chambertin Premier Cru Lavaux Saint-Jacques 2008
Un premier cru che in realtà dovrebbe essere classificato come un grand cru , e che per questo spunta prezzi in linea con il prestigio del vigneto. Il vino deve ancora farsi, il potenziale è enorme. Grande spinta e tannini decisi se pur setosi. Lampone, agrumi e liquirizia compongono assieme ai fiori un bouquet variegato. Le barriques più nuove hanno fornito un liquido più carnoso e morbido con sfumature di cioccolato.
Tre faccini :-) :-) :-)
Charmes-Chambertin Grand Cru 2008
Inizialmente molto introverso e delicato, rivela aromi di ribes, terra e rosa. E poi anche ferro e pesca. Molto sensuale in virtù di una maturità davvero ottimale. Bocca in linea con il nome del cru, morbida e avvolgente, meno acida dei precedenti. Il vino più rotondo e seduttore della cantina, pronto prima del Mazis.
Due faccini e mezzo :-) :-)
Mazis-Chambertin Grand Cru 2008
All’opposto del precedente non si concede facilmente. E’ quello che ha più bisogno di evoluzione in bottiglia. La differenza si nota soprattutto in bocca dove la qualità della grana e la finezza e continuità delle sensazioni sono davvero ai massimi livelli.
Tre lieti faccini (e anche qualcosa di più) :-) :-) :-)
Ora alcuni "primi assaggi" del 2009
Gevrey-Chambertin Premier Cru 2009
Assemblaggio di tre parcelle. Rotondo, carnoso e facile ha meno dinamismo e lunghezza del 2008.
Un faccino e mezzo :-)
Gevrey-Chambertin Premier Cru Lavaux Saint-Jacques 2009
Il più fine. Bellissimo l’equilbrio tra maturità (più spinta che nel 2008) ed eleganza. Più sferico del solito dovrebbe comunque diventare un grande vino.
Due faccini e mezzo :-) :-)
Mazis-Chambertin Grand Cru 2009
Molto ridotto, frutto incredibilmente dolce con sotto una spinta e una potenza notevoli. Grande carica tannica, liquirizia e addirittura selvaggio nel suo incedere. Finale lungo e salino.
Tre faccini :-) :-) :-)
Per finire, un 2001.
Mazis-Chambertin Grand Cru 2001
Straordinario per purezza e finezza. Terra, tartufo e cassis. Il vino è in piena fase terziaria. Bocca sorprendente per coerenza, energia pura, rosa nel finale strepitoso. Non sono molti i vini in Borgogna a raggiungere questi livelli di finezza e territorialità. Un fuoriclasse.
Tre faccini (e molto di più) :-) :-) :-)
La terza puntata arriverà nei prossimi giorni: il viaggio arriva nel Domaine Ghislaine Barthot.

1 luglio 2010

Lo Shiraz, il Sudafrica e i polli di Renzo

Angelo Peretti
A volte mi vien da sorridere leggendo qui e là delle bèghe fra presunti grossi e piccoli produttori di vino. Spesse volte, il grosso è più o meno indicato come il cattivo e il piccolo come il buono. Ma altrettanto spesso il grosso è in realtà dimensionalmente significativo per la zona o la denominazione di riferimento, ma appare invece come un nanerottolo quando lo si confronta con i veri colossi della commercio internazionale del vino. E in quest'ottica alla fin fine quegli estemporanei litigi appaiono come il beccarsi dei polli (eran polli? o capponi?) che Renzo portava all'Azzeccagarbugli: quelle povere bestie "intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura".
A volte, a condizionare il mercato sono invece ditte pressoché sconosciute al grande pubblico (pur essendo i loro prodotti acquistati proprio dal grande pubblico, quello di massa), di cui non trovi traccia quasi neppure su internet (non è vero che c'è tutto sulla rete). Ma che tengono un atteggiamento particolarmente aggressivo dal lato del prezzo, sfruttando ogni marginalità, e influenzando le quotazioni all'ingrosso, e di conseguenza la redditività di tutta la filiera, a partire da chi fa uva. Altro che i polli di Renzo.
Facevo queste considerazioni assaggiando ieri un vino comprato sugli scaffali della Lidl: un Western Cape Shiraz Cabernet Sauvignon 2009, sudafricano, preso all'iperbolico prezzo di 1,99 euro. Tappato con la capsula a vite. Proviene dalla "world wine collection" d'un distributore tedesco: Vineris, con sede a Moers, Nordrhein-Westfalen. Azienda che rileva vino ovunque (anche in Italia: ho visto on line traccia d'un loro Nero d'Avola) e imbottiglia. E molto probabilmente imbottiglia proprio in Germania, se la D iniziale di quella microscopica sigla (faccio fatica a leggerla con gli occhiali!) che compare sulla retro - D-NW 170 002 - vuol dire, come credo, Deutschland. Ergo: il vino arriva in terra teutonica in cisterna, e lì finisce nel vetro, per poi esser distribuito nella gdo a prezzo popolare.
Che vino è?
Be', per quel prezzo è un vino più che dignitoso. Oserei perfino dire buono, sempre in relazione al costo. Non un vino indimenticabile, di quelli che ti regalano ondate di piacere, sia chiaro, ma comunque una bottiglia dall'interessantissimo rapporto qualità-prezzo.
Scuro di colore, si propone all'olfatto con un inconfondibile tono varietale di shiraz. In bocca ha potenza, concentrazione, un che di dolcezza fruttata (il cabernet), una pepatura tipica (lo shiraz ancora). Una struttura di non poco conto. E 14 gradi di alcol: così dichiara in etichetta, e potrebbe anche essere dichiarazione arrotondata per difetto, considerato il calore che avverti al palato.
Ecco, per chi non cerca finezza o eleganza, ma un solido vino da bere a tavola, be', è interessante, dicevo. A poco meno di 2 euro sullo scaffale.
Con questi ci si confronta. C'è chi dirà: purtroppo. Replico: perché purtroppo? Il mondo è piccolo - il villaggio globale, no? - è vino lo si fa un po' ovunque. C'è e basta. Bisogna tenerne conto. Per individuare le migliori risposte. Produttive e commerciali. Che non vuol necessariamente dire abbattere i prezzi e fare vino massificato: su quel fronte, si perde quasi sempre il match.
A proposito di match: il fatto che abbia scelto un vino sudafricano non ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con i mondiali calcistici in corso (alla Lidl ci sono entrato perché volevo trovare un certo vino italiano di cui avevo visto la promozione in tv a prezzo decisamente basso: missione fallita). Ma alla fin fine l'analogia ci può anche stare: prendiamola sottogamba, la competizione mondiale, e poi vedremo che fine faremo, noi soloni del vecchio mondo.