30 aprile 2010

La formula della felicità, ossia: il vino che non sa comunicare

Angelo Peretti
Ecco, queste son le cose che ti fanno capire che il mondo del vino, nonostante "se la tiri" tanto, è lontano anni luce dalle logiche del marketing. Le cose in questione son quelle contenute nella campagna pubblicitaria della Coca-Cola. Quella della "formula della felicità". In particolare lo spot televisivo, firmato nientepopodimeno che da Giuseppe Tornatore, premio Oscar.
La storia la conoscete - penso - tutti: imperversa sulle reti tv. Si parte da Atlanta, nel 1886, quando nei bar della città compare una nuova bevanda, la Coca-Cola appunto. Poi ci si trasferisce nell'Italia degli anni Cinquanta, dove una mamma, la signora Anna, durante un pranzo in famiglia porta in tavola delle bottigliette di Coca-Cola, per la felicità dei famigliari. Così fa scoprire ai suoi cari "la formula delle felicità". Si finisce ai giorni nostri, con una famigliola - appunto - felice che sorseggia Coca-Cola a tavola: perché "la formula della felicità in tavola è un piacere che tutti possono scoprire ogni giorno".
La campagna è stata sviluppata in Italia da Bcube, agenzia indipendente del gruppo Publicis: chapeau.
Però mi incavolo a pensare come l'idea della famiglia, della convivialità, della quotidianità l'abbia saputa sviluppare e valorizzare solo la multinazionale della più celebre fra le bevande gassate. Mentre questi sono - dovrebbero essere - valori storici del vino, nell'Italia della tanto decantata e poco seguita "dieta mediterranea".
Ecco, la "formula della felicità" dovrebbe essere quella del bicchiere di vino che, con moderazione, accompagna la pasta e le verdure sul desco quotidiano. Invece niente, il mondo del vino italiano abdica, e lascia che la propria tradizione diventi appannaggio della bibita scura. Impegnato com'è a rincorrere fuorvianti standard internazionali, non si accorge che l'italianità della tavola gli viene scippato dalla Coca-Cola.

29 aprile 2010

Cambio di date al Vinitaly: s'è mosso il Consorzio del Chianti Rufina

Angelo Peretti
Qualche giorno addietro, su quest'InternetGourmet lanciai la proposta d'un cambiamento di rotta del Vinitaly. Dicevo che a mio avviso sarebbe preferibile cominciare la domenica e finire il mercoledì, anziché mantenere il tradizionale e probabilmente un po' logoro format giovedì-lunedì. E spiegavo perchè.
Franzo Ziliani ha rilanciato l'idea sul sito dell'Ais e su Vino al Vino.
Ora ricevo il comunicato stampa col quale il Consorzio del Chianti Rufina dice d'essersi attivato da giorni presso VeronaFiere, facendosi portavoce dell'istanza d'un cambio di rotta, e proponendo d'aprire la domenica per chiudere il giovedì. Bene, molto bene. Vediamo se qualcosa si muove.
Ecco di seguito il testo del comunicato.
È di qualche giorno fa la richiesta, presentata a Veronafiere, da parte del Consorzio Chianti Rufina di cambiamento di date per la 45° edizione di Vinitaly, uno degli appuntamenti di maggior rilievo di fama internazionale che si svolge nella città scaligera durante la primavera. La comunicazione arriva dal direttivo del Consorzio: Giovanni Busi in rappresentanza dell’omonimo Consorzio in qualità di Presidente e al contempo titolare della Fattoria Travignoli, dichiara che con questa lettera il Consorzio vuol essere il rappresentante, l’ambasciatore delle tante e pressanti istanze che stanno pervenendo in questi giorni da parte degli stessi associati ma anche da altre realtà partecipanti alla manifestazione vinicola quali giornalisti, trade, ecc. Nello specifico, dichiara Busi: “Ci viene richiesto di esaminare la disponibilità a variare il giorno di inizio e di fine della fiera dagli usuali giovedì e lunedì ad una più congeniale dislocazione delle giornate, con inizio fiera la domenica e giorno di chiusura il giovedì. Questa nuova disposizione delle giornate porterebbe, a nostro parere, ad una maggiore e più incisiva presenza degli operatori esteri, i quali si troverebbero ad avere una giornata infrasettimanale in più per visitare gli stand senza incappare nella solita ressa che si registra nei giorni di sabato e domenica, e quindi, offrire loro anche la possibilità di poter estendere il soggiorno, per turismo, a Verona o nelle zone limitrofe anche durante il fine settimana, con evidenti ricadute positive sull’economia veronese. Infine, sarebbe comunque mantenuta la giornata del lunedì, che da sempre è e deve restare appannaggio di ristoratori ed enotecari. Quest’operazione quindi dovrebbe certamente giovare a tutte le categorie qui sopra citate e, al contempo, crediamo non possa causare ripercussioni negative nei confronti del pubblico di appassionati e di operatori di settore che animano la fiera in quei giorni”. Conclude Busi: “ Ora si spera che, dato il rilievo di questo evento, Veronafiere possa prendere in considerazione le nostre richieste creando così nuove e stimolanti sinergie per tutto il settore vitivinicolo”.

28 aprile 2010

La teologia del vino

Angelo Peretti
Andrew Jefford è l'editorialista che si occupa dell'Australia su Decanter, il mensile britannico che è tra le testate top al mondo per quel che riguarda il vino. La sua pagina sul numero di maggio ha per titolo "The theology of wine", la teologia del vino. Articolo da leggere.
Da leggere, sì, perché affronta la materia vinicola con una visione quasi metafisica. Come ormai non si fa più da tanto, tanto tempo. E lo fa grazie a quel che gli ha raccontato un vignaiolo: Tim Kirk, di Clonakilla, nel distretto di Camberra.
Bene, Kirk ha dichiarato di lavorare "mano nella mano col Creatore". D'essere, in fondo, nulla di più che - diciamo così - un collaboratore del Padreterno. Affermazione che potrebbe sembrare eccessiva davvero, o almeno bizzarra, se non fosse che winemaker ci fa su un ragionamento che al tempo stesso ti lascia sbigottito e ti fa pensare.
"Come cattolico praticante - spiega (traduco dall'inglese) il vigneron d'Australia - ho un credo fondamentale, quello che c'è amore nell'universo, che c'è il divino, che Dio è un buon Dio e che ha creato l'universo come atto d'amore. Ci sono vari mezzi attraverso i quali Dio si rivela, e ovviamente il primo è la creazione. Ciascuno - qualunque sia la sua fede, il suo colore, la sua storia personale - può guardare la terra e stupirsi della bellezza dell'universo creato. Amo l'idea che il vignaiolo abbia il dono di lavorare col paesaggio, con l'universo creato, con la terra sacra, per creare a sua volta qualcosa di bello. Io sono giusto una parte del terroir. La gloria è di Dio, perché questo è il suo meraviglioso mondo. Per me, un grande vino è la prova che da qualche parte nel cuore della creazione ci deve essere il divino".
Ecco, sentire un uomo del vino che parla così, e non di tecniche di cantina o di pratiche agronomiche, di andamenti climatici o di pratiche enologiche, ti lascia a bocc'aperta, non c'è dubbio. Prospettive diverse. E riflettendoci ti viene in mente che, sì, forse un simile affidamento al divino è dentro la storia del vino. Solo che ce ne siamo dimenticati.
Ma non sono, le sue, ciance per giustificare - autogiustificare - una più o meno presunta e quasi fatalistica naturalità enoica. Non è che dicendo che ci pensa il Padreterno il vino venga fuori come viene. Nossignori: "I suoi vini - scrive Jefford a proposito di Tim Kirk - sono fra i più tecnicamente sicuri del paese". E c'è una spiegazione, a questa perfezione stilistica. Una spiegazione così elementare che quasi non ti viene in mente da subito. Questa: "Se un produttore crede che Dio gli abbia in qualche modo dato il compito di manifestare la sua magnificenza, è chiaro che questo ci metterà un'attenzione infinita a ogni dettaglio del suo lavoro". Illuminante. E spiega tante cose.
Per esempio, spiega - può spiegare - come sia nata la straordinaria bellezza dei vini di Borgogna. Ché Andrew Jefford ricorda che furono i monaci a far nascere il mito enologico borgognone. E non erano forse, questi uomini, strumenti della grazia di nostro Signore? Non si consideravano forse tali?
Spiazzante.

27 aprile 2010

Attenti ai telomeri

Angelo Peretti
Voi che amate il vino, la birra, i distillati: state attenti ai telomeri. Oh, no, non sono nuovi apparecchi a disposizione delle forze di polizia per strapparvi la patente quando avete bevuto due bicchieri a cena. Sono "le regioni terminali dei cromosomi che regolano la vita della cellula". E chi beve troppo, li fa accorciare, i telomeri. E c'è il rischio che così gli venga un tumore.
Detta così, sembra una notizia drammatica. Ma forse non va detta così. Peccato che a dirla più o meno così sia stata la versione on line del Corriere della Sera, in un pezzo dal titolo "Gli italiani bevono sempre peggio", e all'interno dell'articolo in un paragrafo intitolato "Il legame tra alcol e cancro".
Diceva, il Corrierone on line, che secondo uno studio italiano presentato nei giorni scorsi all’Annual Meeting della American Association for Cancer Research, "i ricercatori dell’Università di Padova, in collaborazione con colleghi milanesi, hanno infatti svelato il legame tra l’elevato consumo di alcol, il rischio di tumori e l’invecchiamento precoce delle cellule. La causa è l’accorciamento dei telomeri, ovvero le regioni terminali dei cromosomi che regolano la vita della cellula". Insomma, mettendo a confronto i dati di del dna "di 59 persone che hanno fatto largo consumo di alcol" con quello di 197 volontari che hanno invece bevuto "nella norma", i primi avevano una lunghezza di questio benedetti telomeri "drammaticamente ridotta". E nel pezzo si legge anche che "in pratica più si beve più si rischia di perdere il meccanismo che fa invecchiare le cellule in modo naturale e, con i telomeri danneggiati, le cellule possono trasformarsi in un tumore".
Bene. Però si parla di "persone che hanno fatto largo consumo di alcol". Ora, non voglio banalizzare, ma - scusatemi - chi beve troppo non ha solo la probabilità di accorciare 'sti benedetti telomeri e di farsi venire il cancro, ma anche di morire di cirrosi e di un sacco di altre nefandissimi malanni. Chi beve troppo si suicida, si sa. Ma non serve sbattere una foto con una donna che ha in mano un bicchiere di vino a corredo dell'articolo. Come se cancro e vino fossero in perfetta corrispondenza.
La vogliamo finire di colpevolizzare sempre e solo il vino quando si parla di consumo eccessivo di alcol?

26 aprile 2010

Altro colpo all'Eurospin: un Glera Prosecco a 1,39 euro

Angelo Peretti
La domanda che mi pongo è questa: "Ma nell'estate del 2009 i prosecchisti hanno vendemmiato prima di agosto, oppure c'è in giro tanto di quel Prosecco igt del 2008 che non si sa più dove metterlo?"
Perché mi ponga quest'interrogativo è presto detto: perché ho visto la pubblicità delle promozioni che la catena Eurospin sta facendo sino al primo di maggio. E tra i prodotti in catalogo c'è un Glera Prosecco Veneto all'incredibile prezzo di 1,39 euro, anziché al prezzo di listino - pure sorprendentemente basso - di 1,79 euro.
Non sono ancora riuscito a passare presso un punti vendita Eurospin per comprare una bottiglia di quest'incredibile Glera Prosecco Veneto (Veneto credo e spero sia l'igt). Ma posso ritenere che in etichetta non sia indicata l'annata: non è necessario metterla sui vini a igt. Certo non penso proprio che sia figlio della vendemmia 2009: sarebbe illegale, visto che a luglio dell'anno scorso è stata approvata la nuova doc Prosecco, e che a luglio non si era ancora vendemmiato: dall'ultima vendemmia nessuno può più permettersi di scrivere il termine Prosecco su un vino che non sia, appunto, a denominazione d'origine. Pertanto quello in vendita all'Eurospin sarà almeno un Prosecco del 2008 (o di prima). E allora vuol dire c'è del Prosecco giacente nelle cantine. Quanto, non è dato sapere.
Se riuscirò a passare all'Eurospin cercherò anche di vedere chi sia il produttore. Di solito, vini del genere non lo dicono in chiaro, ma riportano la sigla dell'imbottigliatore, ma da quella non è comunque impossibile risalire a chi l'ha confezionato. Ma non è questo, credo, quel che conta. Quel che conta è che la nuova superdoc prosecchista parte con del Prosecco (quanto?) che può ancora uscire a igt ed a prezzi bassissimi. Il che non aiuta, temo.
Finisco dicendo che il buyer del settore vini di Eurospin vorrei conoscerlo: dev'essere uno particolarmente attento a quel che succede nel mondo del vino, una persona capace di cogliere al volo tutte le opportunità che questa fase di crisi sistemica può offrire. Prima di Natale riuscì a piazzare sugli scaffali uno spumante Trento doc a 3,49 euro, ed era anche un prodotto accettabilissimo in termini di qualità. Ora eccolo proporre alla spettabile clientela un Prosecco a 1,39 euro, che porta oltretutto in etichetta perfino il termine "glera", che è il "nuovo" nome affidato dalla "nuova" doc alle uve che fino a luglio del 2009 si chiamavano, appunto, prosecco. Adesso, dalla vendemmia 2009, in etichetta si scrive Prosecco solo come riferimento all'origine geografico, visto che nell'area di produzione è stato tirato dentro l'omonimo comune friulano. Mentre il vitigno non si chiama più prosecco, bensì glera, appunto.
Insomma, il buyer dell'Eurospin - o chi per lui - ha giocato alla grande fra il "vecchio" vino Prosecco e il "nuovo" vitigno glera. Si tratta di gente che se ne intende, evidentemente.
Ho solo un dubbio: sicuri che nel 2008 il prosecco (uva) si poteva già chiamare glera? Me lo chiedo perché il sinonimo glera per il prosecco è stato riconosciuto nel marzo del 2009. Boh...

25 aprile 2010

8-9 maggio 2010: Formaggiore 2010 a Cerro Maggiore (Milano)

La Condotta Slow Food di Legnano affianca l'amministrazione comunale di Cerro Maggiore nell'organizzazione di "Formaggiore 2010 - formaggi tipici e d'alpeggio", che si terrà nei giorni 8 e 9 maggio appunto a Cerro Maggiore (Milano) presso il palazzo Corneliani Dell'Acqua. La manifestazione, che lo scorso anno ha visto una partecipazione superiore alle 12mila presenze, sarà articolata con un mercato-esposizione con 60 poduttori di formaggio, due laboratori didattici, un seminario-dibattito sugli Ogm, una conferenza sul cibo a chilometro zero e per la serata del sabato una cena-evento con tutti prodotti pugliesi organizzata dalla Condotta Slow Food di Alberobello. Lo scorso anno alla manifestazione hanno partecipato 13 Presidi Slow Food di formaggio e per quest'anno siamo già a 17 italiani e 2 europei che hanno dato la loro adesione.

Contrordine, compagni: la trasparenza non conviene (oppure sì)

Angelo Peretti
Giusto un mesetto fa, pubblicavo su quest’InternetGourmet un pezzo dal titolo: “Manifesto 2010: dite la verità sul vino”. Citavo l’editoriale di Matt Kramer sul numero di marzo di Wine Spectator. Partendo da un suo interrogativo: "Perché le aziende vinicole sono così riluttanti nel dire come fanno i loro vini?".
Questo l’invito di Kramer: "Nell'epoca dei web site, dei blog e delle applicazioni dello smartphone, l'abilità di raggiungere un pubblico non mediato da, be', gente come me, è senza precedenti. Diteci cosa fate e perché lo fate”.
Riprendevo, invitando da parte mia a “spiegare, parlare, comunicare. Non per giustificare, ma per informare. Per creare un clima di fiducia”. E mi spingevo anche ad affermare che “la trasparenza oggi può essere una buona pratica di marketing”.
Be', ritiro tutto. Produttori, non ascoltatemi. E nemmeno ascoltate Kramer. Mi sono sbagliato.
Lo dico dopo aver letto su quello che considero il miglior wine blog italiano, ossia il Vino al Vino di Franco Ziliani, qualche commento seguito alla pubblicazione della precisazione di una nota azienda toscana, Brancaia, a seguito di un precedente post nel quale Franco riprendeva una pagina d’un recente libro di Andrea Scanzi.
Ziliani è stato come sempre chiaro nell’esporre le informazioni in suo possesso. Ed ha fatto riferimento ad un “Decreto di Sequestro Preventivo disposto dall’Ufficio Indagini Preliminari del Tribunale Ordinario di Siena in data 24 novembre 2009, richiesta di sequestro nella quale l’azienda Brancaia è più volte citata”.
Brancaia ha voluto offrire la propria versione dei fatti, ed ha agito con una trasparenza che non mi pare così frequente nel mondo del vino italiano. Ha dunque spiegato che con le uve dei propri vigneti - e solo con quelle - fa “tre vini di punta: Brancaia Il Blu (igt), Brancaia Chianti Classico (docg) e Ilatraia (igt)”. E che poi fa anche un quarto vino. Dicendo: “Il nostro vino di pronta beva, Brancaia Tre (igt), comprende tutte le uve che non possono essere selezionate per i nostri vini di punta. Visto il successo e la richiesta di Brancaia Tre, in aggiunta alle uve di nostra produzione, da qualche tempo acquistiamo uve e vino sfuso (entrambi a igt Toscana)”.
La vicenda che vede ora coinvolta Brancaia riguarderebbe proprio ora Brancaia Tre, il vino “di pronta beva”, e questo perché l’azienda ha comprato vino da commercianti di sfuso ora coinvolti in un’indagine per la vendita “con falsa documentazione”.
Branciaia i fatti li spiega così: "Due commercianti toscani di vini sfusi sono indagati per aver venduto vini con falsa documentazione (frode). Di conseguenza, tutti i vini sfusi, anche già ceduti a produttori, sono stati bloccati. Poiché avevamo acquistato in buona fede da questi commercianti, il vino che è stato utilizzato per Brancaia Tre è stato bloccato. Durante i controlli abbiamo esibito tutti i documenti richiesti e risposto a tutte le domande. Al termine dei controlli, Brancaia Tre è stato sbloccato. Acquistiamo solo una piccola quantità di vino sfuso e solo per Brancaia Tre. La selezione di uve acquistate e di vino sfuso è prevista dalla legge e basata su alti standard qualitativi. Tutti gli altri nostri vini sono fatti solo con uve di nostra produzione".
Per me, le spiegazioni bastano e avanzano. E mi verrebbe da dire che Brancaia ha fatto bene, benissimo a spiegare. E che bene, benissimo ha fatto Franco Ziliani a pubblicare (e del resto sulla sua correttezza e professionalità non c’è proprio nulla da recriminare).
Invece no. Invece, leggendo qualche commento dico che Branciaia rischia d’aver fatto male ad essere trasparente. Perché c’è stato chi ha parlato di vergogna e di scandalo nell’apprendere che un’azienda così compra anche uva e vino da altri. E che quest’agire sarebbe “una vera e propria truffa ai danni dei consumatori”. Ma vogliamo scherzare?
Invece sì. Ha fatto comunque bene a parlare, a spiegare. E speriamo non resti un caso isolato. E che si vada avanti lungo la strada della trasparenza. Anche nelle piccole cose. Per esempio, dicendo sul proprio sito che quel tal vino è fatto esclusivamente con le uve coltivate direttamente sui propri vigneti, e quell’altro invece è fatto con la professionalità di casa, ma attraverso l’acquisto di uve o di semilavorati da altri. Sul sito di Brancaia a proposito del Tre leggo ora così: “Le uve, selezionate con cura, arrivano dai nostri tre poderi toscani: Brancaia (Castellina), Poppi (Radda) e Brancaia in Maremma (Morellino di Scansano)”. Alla luce di quanto scritto dall’azienda a Ziliani, non mi parrebbe un'informazione completa. Per favore, si corregga anche lì.
Capisco che a dire così ci siano dei rischi potenziali in termini di reputazionalità commerciale, ché far bene il négociant in Francia è considerata un’arte, mentre in Italia la reputazione non è la stessa. Di là delle Alpi ce ne sono addirittura alcuni che appartengono al mito del vino francese: dicono niente nomi come quelli di Louis Jadot in Borgogna e Guigal o Jaboulet nella Rhône? Gente che commercia tanto vino, e spesso è grandissimo vino. Ma se si è scelta la strada della trasparenza, credo possa esser bene percorrerla fino in fondo. Trasformandola in un plusvalore che l’azienda offre alla propria clientela.
Sarà un percorso faticoso, ma alla fine la trasparenza può pagare. Prendiamo il piccolo esempio di questo mio InternetGourmet: sarà anche poca cosa, ma mai prima d'ora mi ero occupato - credo - di Brancaia, e adesso ho finito per darle invece seppur modesta visibilità. Tutto perché hanno avuto il fegato di provarci, a comunicare davvero.

24 aprile 2010

Vinitaly: una proposta per il cambiamento

Angelo Peretti
A distanza ormai di due settimane dall'edizione 2010 di Vinitaly, mi domando se la formula della rassegna veronese si possa e si debba cambiare.
Che l'evento fieristico scaligero abbia successo mi pare innegabile, al di là delle critiche che abitualmente affiorano. I numeri lo dicono chiaramente. Ed anche lo confermano, mi pare, le opinioni degli espositori, che, vabbé, si lamentano di questo o quell'aspetto organizzativo, ma ribadiscono che a Vinitaly occorre esserci.
"Comunque vada, sarà un successo", era lo slogan di Chiambretti per un'edizione ormai abbastanza remota del Festival di Sanremo. E Vinitaly è, appunto, come il festivalone canoro, quello che in tanti criticano, però lo guardano anche, e i dati di ascolto esplodono.
Però c'è un rischio. E il rischio è quello che di slogan se ne usi un altro, quello che "squadra che vince non si cambia". Col problema che i giocatori invecchiano, e magari prima o poi la squadra comincia a perdere.
Ecco, credo invece che ora che è all'apice del suo successo di pubblico, il Vinitaly possa e debba cambiare. Senza tradire la propria anima costantemente in equilibrio precario fra evento nazional-popolare e momento di business. Anzi, rafforzando entrambe le proprie caratteristiche. ma dandovi nel contempo maggiore coerenza interna.
Intendo semplicemente - ma anche complicatamente, per gli organizzatori - questo: perché invece che continuare a fare la fiera dal giovedì al lunedì non spostare l'appuntamento dalla domenica al mercoledì?
L'attuale formula funziona, ma scricchiola. Per più ordini di motivi.
Il primo: la stampa e i buyer internazionali sono a Vinitaly dal giovedì al sabato. Poi rientrano, anche per questioni di voli (la domenica è più complicato).
Poi: il sabato la fiera resta in balìa di troppi visitatori che col business e con la passione del vino non c'entrano niente (dice niente il numero degli sbronzi in giro per i padiglioni la sera?).
La domenica è un bagno di folla, il che è positivo in termini di fidelizzazione del consumatore finale, ma non consente di fare affari: costo puro per i produttori (che tra l'altro la domenica, dopo tre giorni di fiera, sono già "cotti").
Il lunedì è il giorno della stanchezza e dell'oblio, mentre dovrebbe essere la giornata dei ristoratori, che invece - con buona ragione, essendo gli espositori in smobilitazione - disertano.
Mettiamo invece il caso che si apra la domenica per chiudere il mercoledì.
Il sabato potrebbero agevolmente arrivare gli operatori esteri e per loro - così come per la stampa di settore - si potrebbero allestire serate promozionali in città e nelle province vicine: un'occasione di business extra fiera in più. Per gli arrivi a Verona, il sabato ci sarebbe l'opportunità di sfruttare voli low cost, minor affollamento sui treni e autostrade meno trafficate.
La domenica - con gli espositori ancora "freschissimi" - ci sarebbe il consueto bagno di gente, ma senza i caciaroni-ubriaconi del sabato. La domenica costituirebbe poi un'occasione d'oro per i media generalisti, che troverebbero pane per la loro smania di folla e di gossip, con corrispondente visibilità della fiera.
Dal lunedì al mercoledì si farebbe effettivamente business, oltretutto con la ristorazione che potrebbe "riappropriarsi" della fiera.
I vantaggi per gli espositori: maggior ordine, maggior possibilità di fare affari, costi minori (un giorno in meno di fiera).
Le prospettive per la fiera: possibili minori incassi (un giorno in meno), minori costi (un giorno in meno, anche in questo caso, ovviamente), miglior soddisfazione dei clienti.
Le prospettive per l'economia veronese: week end pieno (gli espositori e gli operatori arrivano il venerdì o il sabato, e occupano le stanza al completo anche la domenica, mentre ora ci sono partenze già dal sabato) e prolungamento degli affari fino al mercoledì, non perdendo dunque neppure un giorno di "tutto esaurito" rispetto ad oggi.
Le prospettive per gli allestitori: maggior numero di giorni disponibili nella settimana pre-Vinitaly.
Mi pare possa filare. Mi illudo?

23 aprile 2010

E adesso i vinini sono anche in un libro

Angelo Peretti
Oh, accidenti, questa non me la sarei aspettata. I "miei" vinini adesso sono finiti anche in un libro. Li ho trovati con - piacevole - sorpresa fra le pagine di "Mercato del Vino", il recentissimo volume scritto da Fabio Piccoli per le edizioni dell'Informatore Agrario.
Fabio è un collega che stimo parecchio: un analista attento del mondo del vino e di tutto quello che ci ruota attorno. Sul libro penso - spero - che ci tornerò più avanti, perché contiene una serie di riflessioni su cui merita soffermarsi. Intanto dico che è la sintesi della ricerca condotta fra il 2007 e il 2009 dall'Informatore Agrario insieme con Veronafiere, in collaborazione con il Centro di formazione in Economia e politica dello sviluppo rurale di Portici. Consiglio di leggerlo.
A un certo punto della sua trattazione, Fabio Piccoli parla delle prospettive del vino italiano. E dice: "Appare sempre più evidente una certa disaffezione nei confronti del consumo quotidiano di vini 'beverini' durante i pasti. Su questo aspetto, si stanno aprendo nuovi interessanti opportunità nei confronti dei cosiddetti 'vinini', un neologismo coniato recentemente per indicare quei vini meno 'pretenziosi' che potrebbero riportare a un consumo quotidiano più adeguato all'offerta finale".
Caspita!

22 aprile 2010

Pouilly Fumé Silex 2003 Didier Dagueneau

Angelo Peretti
Quando nel settembre di due anni fa si diffuse la notizia della prematura morte di Didier Dagueneau, grandissimo vigneron, uomo simbolo del sauvignon blanc e dell'appellation Pouilly Fumé, molte testimonianze fiorirono sulla stampa e sul web, tutte in un'unica direzione: quella della genialità dell'uomo.
Ricordo cosa scrisse ad esempio Franco Ziliani sul suo Vino al Vino: "Dagueneau ha introdotto metodi di coltivazione biodinamica e sistemi di vinificazione rivoluzionari ma profondamente tradizionali nello spirito, opponendosi alla tecnica della fermentazione malolattica applicata al Sauvignon e soprattutto cercando nei vini una purezza assoluta e la capacità di esaltare al massimo, mediante bianchi in grado di durare per decenni e di acquisire complessità inaudite, pur in una cornice di assoluta freschezza e piacevolezza, la straordinaria vocazione dei terroir da cui provenivano le uve".
Qualche sera fa m'è capitato, al ristorante Il Giardino delle Esperidi a Bardolino, la benigna sorte di poter tastare l'annata 2003 del vino di punta di Dagueneau: il Silex, aoc Pouilly Fumé. Ed ecco che nel bicchiere ho trovato l'essenza del sauvignon. E della Loira insieme. Son quei vini per i quali la parola non basta per dare contezza. Bisogna aver provato, ché solo i sensi sono in grado di immagazzinarne la fascinazione. Sì, c'erano tanto frutto ed esoticità e florealità e pienezza e salina mineralità e freschezza e lunghezza ed ampiezza e possanza ed eleganza e bevibilità. E insomma però m'accorgo che più cerco di descrivere, più mi ritrovo senza elementi davvero validi per la descrizione. E quest'ammissione credo che basti.
Su questo mio InternetGourmet mi capita spesso di classificare i vini in faccini, da uno a tre, a seconda della personale piacevolezza che m'hanno suscitato, anche in relazione alla tipologia d'appartenenza. Ecco, con questo vino mi trovo in imbarazzo, ché non c'è classificazione che tenga. Dico solo che è uno dei migliori bicchieri che mi sia capitato di bere.
Poi, lo so che la poesia va a farsi benedire, ma un avviso ai naviganti lo devo anche dare: occhio, ché tanta grandezza ha il suo prezzo.

21 aprile 2010

Ma non è che abbiamo paura del vinino?

Angelo Peretti
Del convegno di Vinitaly co-prodotto con Santa Margherita sul “mio” vinino s’è cominciato a discorrere sul web. Il primo a scriverne, subito dopo l’appuntamento veronese, è stato Stefano il Nero. Che a suo tempo era stato colui che mi aveva dato il la per lanciare, appunto, l’Elogio del vinino. “È stato un successo - dice - e tutti contenti ma veramente tutti”. E più avanti: “L’idea del vinino corre nel dibattito e si dimostra valida perché fa riscoprire le radici profonde del vino, le sue tradizioni, lo fa apprezzare per il suo terroir, perché punta ad allargare la base dei consumatori con uno strumento veramente in grado di farlo ed una metodologia adeguata proponendosi come compagnia giornaliera sulla tavola nella famiglia”. Poi, entra nel cuore della questione: “La domanda sospesa rimane ‘si deve davvero chiamare vinino o che alternativa?’, un nome che non piace a troppi diventa il simbolo della paura di farcela, il comprensibile timore di aver trovato una strada, cosa rara di questi tempi. L’esortazione dalla sala è quella a continuare nella analisi e nella ricerca di una strategia, questa pare essere una occasione unica nella storia del wine-world, potremmo avere presto un nuovo prodotto senza dover piantare nuove vigne o studiare nuovi affinamenti. Bisogna andare avanti, la cosa non può finire qui”.
Va bene, prendo atto che bisogna andare avanti.
Maria Grazia Melegari sul suo blog Soavemente a proposito del convegno scrive, magari un po’ troppo entusiasticamente, così: “Un vero evento, credetemi: forse non stiamo facendo la rivoluzione, ma poco ci manca!”. Però ammette: “Per più d'un produttore il termine vinino suona riduttivo, non piace. Forse bisognerà trovare un altro termine. Bisognerà studiarci un po'.”
Va bene, capisco che bisogna rifletterci se si vuole andare avanti.
Ne parla anche Elisabetta Tosi sul suo Vino Pigro. Così: “La sostenibile leggerezza del bere. Alla degustazione-dibattito sulla piacevolezza del bere si è aperto un nuovo fronte di discussione: come si riconoscono questi vini? quando un vino può a buon diritto definirsi... ino? In attesa di risposte, mi sono guardata in giro. La degustazione era affollata, i vini in degustazione cinque (li accompagnavano gli ottimi snacks della Scuola di Alma, e generosi vassoi di prosciutto crudo).
Alla fine del tasting i bicchieri erano vuoti. Tutti. Vinini: quelli che finiscono.”
Wow! Bella questa definizione di vinini: sono i vini di cui vuoti il bicchiere e anche la bottiglia.
Chiudo con la citazione-flash di Slawka G. Scarso su Marketing del Vino: “Tavola rotonda dedicata ai ‘vinini’ e nel pieno spirito del tema una volta tanto al Vinitaly si beve più che degustare. Tante belle facce, aggiungo un volto a qualche penna”.
Chiudo tornando a Stefano il Nero. E stavolta cito il suo titolo: "Cronache dal Vinitaly 2010: il vinino è un successo che fa... paura". Mi ha fatto riflettere. Non è che abbiamo davvero paura del vinino? Un po' come c'è paura della capsula a vite. Non è che abbiamo paura di cambiare?

20 aprile 2010

Quando l'Amarone è classicamente valpolicellese

Angelo Peretti
Ecco, questo è Amarone. Intendo quello che ho bevuto a Vinitaly, e che sotto cerco di raccontare. Amarone d'antan, con qualche bell'anno sulle spalle. Perché se sei fortunato, in fiera può capitarti di tastare anche bottiglie che non sono le ultime uscite sul mercato, ma magari hanno qualche bell'annetto sulle spalle e sono state portate per qualche particolare private tasting per un importatore americano, un giornalista d'una testata internazionale, o anche solo per lo sfizio del produttore. E mica tutti se lo possono permettere di tirar fuori di cantina vecchie annate, ché in Italia si ha il viziaccio di vender tutto (o almeno provarci) senza tenere archivio delle vendemmie. Errore clamoroso, indice d'un mondo enoico di fatto in genere fiorito a far data dalla metà degli anni Ottanta, e dunque ancora con poca storia ed esperienza.
Non è nata certo negli anni Ottanta la Masi, azienda che ha sede nel cuore della Valpolicella. E al cui stand, grazie all'ospitalità della famiglia Boscaini, ho avuto la fortuna di riprovare l'Amarone di tre annate che giudico per certi versi molto vicine, capaci di produrre vini in grado di superare bene il tempo: il 1988, il 1990 e il 1995. Non a caso, nelle valutazioni del consorzio di tutela valpolicellese, entrambe son giudicate vendemmie al top, a cinque stelle. Così come il '97 o il 2000. Con la differenza, dico io, che queste sono state annate che han dato magari vini un po' più pronti, d'impatto più immediato, di pienezza magari anche maggiore, e crtamente di più agevole lettura, ed è però da vedere se abbiano la stessa capacità di reggere che, a mio avviso, dimostrano gli altri tre millesimi.
In particolare, dell'88 e del '95 aggiungo che sono vini nati mica dolci, ma piuttosto secchi invece, e terragni ed acidi. Non a caso.
Ora, l'88 la ricordavo come un'annata di gran bell'Amarone, giocato sull'eleganza. Intendo: elegante era quello migliore, di chi cioè sapeva mettere in campo ottime uve e conclamata esperienza di fruttaio (per gestire l'appassimento) e di cantina. Di fatto, il rosso valpolicellista cominciava allora a diventar famoso, e dunque non c'era ancora la corsa a far Amarone ad ogni costo. Fu di certo un'ottima annata, che regalò vini di bell'approccio. E così mi si è rivelato il vino della Masi. Colore non particolarmente carico, naso evoluto, impostato su aristocratici e decadenti toni di fiori essiccati, di uva appassita, di spezia. E poi è setoso nel tannino, tuttora di bell'impianto. Gran bell'Amarone, riconoscibilissimo nei canoni storici della Valpolicella.
Quand'uscì l'Amarone del '90 eravamo già in ascesa di successi e di volumi, ma ancora era tempo di vino figlio d'impostazione tendenzialmente tradizionale. Fu quella con evidenza annata che esaltò il frutto, e l'Amarone (poco, per i motivi di cui sopra) di quell'anno che m'è capito di stappare di recente l'ho spesso trovato appunto godibilissimo dal lato fruttato. Così è apparso anche il vino della Masi: rosso del tutto piacevole, con l'alcol poco esposto e il tannino vellutato. Un vino che può piacere praticamente a chiunque, ché sa unire la personalità e la morbidezza, il che la dice lunga su quale sia la formula magica della piacevolezza amaronista. Un bellissimo vino, intendo, che sa stare in tavola, che si fa bere, e non solo degustare.
Il '95 appare di certo più caratteriale - più ostico, potrei dire - sia dell'88 che del '90, e così è in genere l'Amarone di quest'annata, per me notevolissima. Rosso, questo della Masi, giovane assai nel tannino e nella freschezza, e dunque - per chi vuole e chi può - da prendere e mettere in cantina per dimenticarlo ancora un po': credo che alla fine acquisterebbe ancora in eleganza, in nobiltà. Ché lì sotto senti un frutto che freme per uscire finalmente liberato, e devi dunque attenderlo nel bicchiere. Ma ti sa poi regalare bella emozione. Vino da invecchiamento, ne son certo. E ancora, come l'88, un Amarone davvero capace d'esprimere la classicità valpolicellista. Ecco: amo l'Amarone del '95, ed è un peccato che se ne trovi poco in giro.

19 aprile 2010

Ardentemente Ardens: il Recioto di Soave sur lie

Angelo Peretti
D'Arturo Stocchetti e dei suoi vini, che escono all'insegna della Cantina del Castello - e il castello in questione è evidentemente quello scaligero di Soave, cittadina nel cui cuore antico ha sede appunto la cantina - ebbi a scrivere abbastanza diffusamente qualche tempo fa. Arturo è persona franca, diretta, soavista fin dentro alle ossa, tant'è che della denominazione è anche presidente (intendo, del consorzio di tutela del Soave). Non ricordo però d'avere prima d'ora qui scritto (e la ricerca nel mio data base mi pare proprio confermi l'omissione) del suo Ardens. E mi dispiace, ché lo ritengo uno dei vini più curiosamente intriganti e maliziosi che mi sia staato sin qui dato di bere in terra d'Italia, e dunque non solo nelle plaghe soavesi.
Ordunque, eccomi coll'Ardens, che è un Recioto di Soave - Classico per giunta - che sul sito aziendale vien definito - e concordo con la definizione - "vivace come tradizione". Oppure, come piace a taluni, potremmo definirlo come un vino che rifermenta "sur lie". Pulito solo coi travasi e poi filtrato appena poco poco nel passaggio dalla vasca d'acciaio alla bottiglia, in modo che possa appunto un po' rifermentare - muoversi - e tirar fuori quella briosità che un tempo era considerata pregio e poi a lungo è stata vista con occhio sbieco per via d'un malinteso senso della perfezione stilistica. Che orrore, dicevano i guru del modermismo enologico, avere carbonica e veder fondo in bottiglia! Annichilendo così secoli di tradizione e cultura. Che potevano e possono invece essere patrimonio d'un territorio, magari reinterpretandoli in forma sì moderna, ancorché rispettosa. E meno male, dunque, che Arturo il suo Recioto all'antica ha seguitato a farlo. Per sé, per chi l'ha capito. E oggi magari, sull'onda della riscoperta di vini meno perfettini, lo capiranno in tanti di più.
Ora dico che l'Ardens è garganega in tutto e per tutto: ne riconosci da subito i toni all'olfatto, con quel frutto giallo maturo che ti rammenta del tutto il Soave di collina classica, appunto.
Dico anche che è vino della piacevolezza, con quei suoi residui di zuccheri perfettamente compensati dalla freschezza e dalla vivacità.
Frutto croccante e succoso e, sotteso, un che di minerale, com'è logico che sia da quelle parti.
Se proprio volessimo fare dei paragoni - e prendiamoli col beneficio d'inventario, detti giusto per dare un'idea generale del vino, ché è anomalo per chi di già conosca il Recioto di Soave "fermo" - potremmo pensare a un demi sec della Loira fatto coll'uve di chenin blanc, oppure a un riesling spätlese che venga dalla Mosella (ma qui il paragone è aancora più azzardato: lo uso solo per chiarire che ci son frutto, dolcezza e freschezza in equilibrio).
A me piace, l'Ardens. Parecchio. Chissà perché non m'è mai venuto in mente di comprarmene una cassa per le sere d'estate. Rimedierò.
A proposito: l'ultimo che ho bevuto, pochi giorni fa, era del 2006. Notevole.

18 aprile 2010

Ma il bicchiere del vinino è mezzo vuoto o mezzo pieno?

Angelo Peretti
Perplimere è un verbo che non esiste nei vocabolari. Viene dalla televisione. Epperò se ne occupa anche l'Accademia della Crusca. E dunque non posso utilizzarlo anch'io? Dico allora che mi perplime la piega che ha preso il dibattito sul "mio" vinino. Mi lascia perplesso, insomma. Neologismo per neologismo, perplimere ci può state se si parla di vinini.
Chi ha la bontà di seguirmi, saprà che a Vinitaly s'è svolto un convegno in qualche modo co-prodotto da Santa Margherita (l'azienda vinicola) e me. Lorenzo Biscontin, che di Santa Margherita è responsabile marketing, ha illustrato in sintesi i risultati di un'indagine che una primaria società di ricerca ha condotto sul tema, appunto, del vinino. E ne tratto il giudizio che il termine "vinino" abbia un'interpretazione negativa. Che non funzioni, insomma, e che dunque occorra trovare un'altra definzione. Perché anche dopo sollecitazione il 43,3% degli intervistati non si è convertito alla bontà del termine.
Dico che ha ragione. E che ha torto. Dipende da come si guarda la faccenda. Come quando c'è un bicchiere a metà: chi lo vede mezzo pieno, chi mezzo vuoto.
Ha ragione perché il dato di sopra, di per sé, è chiaro.
Ha torto se si considera che la definizione di vinino è appena nata e non ha avuto battage pubblicitario, se non il tam tam di alcuni blog. E questo tam tam ha portato a far sì che il 21,5% degli intervistati avesse già sentito parlare dei vinini. Il 21,5% dico! Attenzione: come ha sottolineato Biscontin, conoscenza non significa per forza gradimento. Però se mi avessero detto che saremmo arrivati a una simile percentuale mi sarei messo a ridere. Fin qui ho considerato il web un buon incubatoio di idee. Vuoi vedere che invece è più potente di quanto io sia disposto a credere? Arrivare a una conoscenza del 21 e passa per cento è un sogno anche per marchi affermatissimi. Lanciato solo sul web da pochi blog, il vinino è arrivato a un risultato impensabile. E, permettete, il bicchiere in questo caso comincia a tornare verso il pieno.
Lorenzo Biscontin ha poi sottolineato come, a suo parere, vi sia una evidente decodifica negativa del termine vinino: il 16,3% lo identifica spontaneamente come un vino di bassa qualità, l'11,8% come un vino economico, il 19,6% come un vino leggero. E c'è anche confusione: per il 10,6% del campione fa riferimento a vini in bottigli di piccolo formato. Il bicchiere va verso il mezzo vuoto.
Anche dopo una più completa spiegazione del termine, si diceva, la percezione negativa del termine "vinino" resta alta: (43,3%). Ma i positivi sono comunque il 30,9%, e c'è una fetta del 25,8% di indecisi da convincere. La maggioranza non dice no a priori, insomma, se il bicchiere si volesse vederlo mezzo pieno.
A questo punto gli intervistatori, durante il test, si sono scoperti, e hanno spiegato questo agli interrogati: "La definizione 'vinini' è stata coniata di recente per indicare i vini meno impegnativi e di facile bevibilità. Sono vini 'quotidiani', che si possono bere spesso in quanto piacevoli, con gradazione alcolica non eccessiva e prezzi più accessibili. Si contrappongono ai cosiddetti 'vinoni', ovvero a vini piuttosto impegnativi, in quanto più strutturati, corposi e complessi". Domandando se a questo punto, spiegato l'arcano, trovassero il termine vinino adatto o meno alla bisogna. Esito: più o meno adatto per il 51,7%, così così per il 23,7%, più o meno non adatto per il 24,5%. Però con variazioni significative fra chi aveva espresso precedentemente un giudizio positivo o negativo sulla tipologia di vino. Fra i positivi di prima, il 76% è d'accordo sulla bontà della definizione. Ed anche il 37,5% di chi aveva dato un giudizio negativo trova comunque la definzione adatta 37,5%, mentre è incerto il 25,6% (e non è poco, se pensiamo che si tratta di gente che il vinino non lo gradisce da bere) E qui il bicchiere a mio avviso va decisamente verso il mezzo pieno.
Nuova domanda: "Volendo usare la definizione di cui abbiamo parlato finora, Lei personalmente quanto direbbe di gradire i cosiddetti vinini?" Esito: molto e abbastanza 42,7%, così così 25,6%, poco o per niente 31,7%.
Bisogna rifletterci.
Chiudo con l'ultima domanda: in che momenti eventualmente berli, i vinini? A casa, per accompagnare i pasti di ogni giorno per il 34,1%, in compagnia nelle serate con amici per il 21,8%, fuori casa quando si beve l'aperitivo al bar per il 17,1%. Accidenti: ma questo è proprio il posizionamento del vinino!
Adesso, non so più se il bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto. Ma mi pongo un problema: non è che per verificare se è metà di qui o metà di là si perde di vista il bicchiere nel suo assieme?

17 aprile 2010

Pic Saint Loup T'Em T'Em 2008 Chateau de Valflaunès

Angelo Peretti
Ma guarda un po' che vino che ho trovato tra gli stand del Vinitaly: un rosso dell'appellation di Pic Saint Loup, sud della Francia. Nello spazio della Maison della Languedoc Roussillon, zona ampia vista mare, che offre vini sempre più interessanti.
A berlo con me c'era il vigneron, Fabien Reboul. Che ai suoi vini dà nomi curiosi, tipo Pourquoi pas? (ovvero: perchè no?), oppure Un Peu De Toi (un po' di te), o anche Espérance (speranza). Ma pure, in questo caso, T'Em T'em, che sta per t'amo t'amo, alla follia.
Ma è tutto marketing, dunque, con quest'etichette bizzarre? Macché, è sostanza. Fabien il vino lo sa fare. Bene.
Viene, questo T'Em T'Em, due stelle sulla guida Hachette 2010, da uve di syrah (Fabien m'ha detto che è uva che gli piace lavorare) e un po' di mourvèdre (il venti per cento).
Ed ha frutto, frutto, frutto, senza tuttavia stucchevoli smancerie o dolcezze. E c'è anche un bel tannino, saldo ma non aggressivo. E freschezza. E pepe.
Credo sia vino che invecchia ancora alla grande. O almeno, che abbia potenzialità d'invecchiamento. Sempre ammesso che si sia disposti ad attendere, ché è buono parecchio già ora. E dunque, perché aspettare?
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

16 aprile 2010

Il sorriso, il vinino e Vinitaly

Angelo Peretti
Ordunque, s'è parlato a Vinitaly anche del mio "Manifesto per la piacevolezza dei vini da bere", ovvero dell'Elogio del vinino. E l'occasione è stata offerta da un convegno che Santa Margherita, importante brand del settore vinicolo italiano, m'ha proposto di allestire, come s'usa dire, in sinergia reciproca.
Devo ammettere che la cosa è andata oltre ogni mia aspettativa: aver gente a un convegno a Vinitaly è in genere un'impresa titanica (e anche quest'anno la regola è stata puntualmente rispettata) , ma noi in sala avevamo il tutto esaurito. Mica male davvero.
Le riflessioni che ne sono scaturite sto ancora cercando di metabolizzarle, e dunque tornerò sull'argomento più avanti.
Per il momento, riporto qui di seguito il comunicato stampa diffuso da Santa Margherita.
Eccolo.
"Del concetto della piacevolezza del vino si è discusso nell'ambito del recente Vinitaly, in occasione della degustazione/dibattito "Bere con il sorriso, ovvero elogio della piacevolezza del vino" promosso da Santa Margherita congiuntamente ad Angelo Peretti, giornalista e blogger, che lo scorso ottobre lanciò l'"Elogio del vinino, ovvero Manifesto per la piacevolezza del vino da bere".
In apertura Santa Margherita ha presentato una ricerca realizzata ad hoc da cui risulta un forte interesse degli eno-appasionati per i vini accessibili ed eleganti, che per il loro profilo sensoriale si prestano ad un facile abbinamento con il cibo e quindi ad un consumo anche quotidiano di qualità. Allo stesso tempo la ricerca ha evidenziato che un numero piuttosto ampio di consumatori percepisce il termine "'vinino" come sminuente.
Durante la degustazione, realizzata in modo conviviale con le bottiglie sui tavoli e libertà per i partecipanti di scegliere l'ordine in cui assaggiarli - con l'accompagnamento di prosciutto crudo e di cinque diversi creakers gourmet preparati per l'occasione da ALMA - sono sorti numerosi spunti per definire e valorizzare meglio questa tipologia di vini.
Proprio per questa ricchezza di stimoli si è deciso di far proseguire il dibattito sul web, creando "#vinini" su Twitter, in modo da raccogliere tutte le idee, anche di chi non ha potuto trovare posto in sala. La prima proposta per un nuovo nome viene da Santa Margherita ed è i "Vini del sorriso".
Il web si conferma un'eccellente incubatore ed anticipatore di tendenze, considerando che il tema della bevibilità, accessibilità e semplificazione dell'approccio al vino è stato uno dei leit motiv nelle conversazioni che si sono sentite al Vinitaly 2010.
Santa Margherita si dimostra ancora una volta all'avanguardia nell'utilizzo del web 2.0 come strumento di comunicazione e di dialogo, non solo tra gli esperti ma anche tra semplici appassionati del bere di qualità".

15 aprile 2010

Ma chi non cambia muore

Angelo Peretti
M'è capitato di ascoltare qualche giorno fa "Voci di impresa", la trasmissione curata da Alessandra Scaglioni su Radio 24. Facevo zapping (si dice così anche per la radio?) mentre guidavo, tornando da Vinitaly. Mi ci son soffermato perché parlava Diego Planeta, che è un mostro sacro del vino siciliano (è lui nella foto). E poi a casa ho voluto riascoltare l'intervista (Radio 24 ha l'archivio on line). Un passaggio, in particolare, m'ha colpito. Quello nel quale Planeta si soffermava sulla crisi attuale del mondo del vino e sulla necessità di cambiamento. Un passaggio illuminante, di cui trascrivo qui di seguito le parole.
"Io sono preoccupato da una certezza - ha detto Diego Planeta - e la certezza è che il mondo che ne verrà fuori, verrà fuori diverso, specialmente per ciò che concerne le abitudini dell'uomo. Dobbiamo cambiare il sistema di distribuzione, dobbiamo cambiare canali, dobbiamo cambiare vestito, dobbiamo cambiare messaggio. Sicuramente dobbiamo cambiare qualcosa. Siamo entrati in un tunnel e ancora la luce non la vediamo. Non abbiamo veramente le idee chiare su come dobbiamo cambiare. Le do per certo che chi non cambia muore".
Parole pesanti come pietre. Che il mondo del vino farebbe bene a leggere e metabolizzare.

14 aprile 2010

Vinitaly: qualcosa, la sera, non va

Angelo Peretti
Non sono mai stato, e credo che mai sarò, fra coloro che sparano sul Vinitaly. Non è uno sport che condivida. Anzi, ritengo che il mondo del vino italiano del Vinitaly abbia bisogno. E che non ci sia spazio per altri velleitari tentativi di sostituzione della kermesse enoica veronese.
Vabbé, magari apparirò campanilista, visto che veronese lo sono, ma quest'è il mio pensiero. E certo capisco che partecipare a Vinitaly è un costo notevole e che lo standard dei servizi, dentro e fuori della fiera, va accresciuto (il fatto che la fiera sia "dentro" la città certo non agevola). Ma ho visto negli ultimi anni un continuo miglioramento. E, ripeto, il Vinitaly a mio avviso offre comunque ai produttori chance che nessun'altra rassegna in Italia sarebbe in grado d'esprimere.
Detto questo, non posso però proprio evitare di stigmatizzare come quest'anno qualcosa sia tornato a non funzionare dal lato dell'ordine interno. Soprattutto il sabato sera, lo spettacolo (spettacolo?) offerto (offerto?) da branchi di giovinastri e meno giovinastri ubriachi fradici era davvero sconsolante. L'anno passato era andata abbastanza bene, mi pare, anche da questo lato. Questa volta invece siamo tornati ad indecenze da pessima sagra paesana: urla, strepiti, gente che beve a canna nei corridoi da bottiglie sottratte agli espositori, furti, molestie.
Non mi scandalizzo del fatto che nel tardo pomeriggio, alla chiusura della fiera, ci si trovi a che fare con qualcuno che ha, come s'usa dire, alzato il gomito. Mica tutti reggono, mica tutti si sanno regolare. E capisco bene che non è facile gestire una massa di pubblico come quella che affolla la fiera veronese. Ma non ci sta che questo qualcuno siano decine, forse centinaia, e che possano agire impunemente.
Occorre rimediare. Son certo che si rimedierà.

13 aprile 2010

Decanter, Ferrini e il sangiovese

Angelo Peretti
Non conosco di persona Carlo Ferrini. Certo, so bene che è tra i più noti winemaker italiani e che nel portafoglio clienti ha nomi altisonanti. Ma ci ho parlato di persona solo durante una cena post Vinitaly di quattro o cinque anni fa.
Non lo conosco, però m'ha molto fatto pensare un suo intervento sul numero di maggio di Decanter, il mensile britannico. Orbene, Ferrini vi parla di Brunello e di sangiovese. Dice (traduco dall'inglese) che il sangiovese può sì dare grandi vini, "solo che richiede più lavoro". Aggiunge: "Il sangiovese ha bisogno di condizioni di crescita perfette per eccellere, ed anche allora ha bisogno di essere coccolato. Se i produttori di Brunello vogliono continuare a usare il 100% di sangiovese, devono ammettere che il Brunello non dovrebbe esere fatto in tutta la zona di Montalcino, ma essere invece limitato alle aree in cui eccelle. Se vogliono fare grandi vini in tutta Montalcino, sono necessarie altre uve".
Accidenti, questa è una bomba che rischia di far riesplodere il "caso" del Brunello. Insomma: si deve (si può) oppure no cambiare il disciplinare, dopo che varie aziende, anche blasonate, son state "pizzicate" a tagliare il sangiovese con vini fatti d'altri vitigni?
La risposta mi pare ovvia: no, non si può e non si deve. Il Brunello lo si fa col sangiovese. Dunque, se si è convinti che da qualche parte il sangiovese a Montalcino non rende qualità, che lo si faccia solo là dove il terroir lo consente. Altrove si farà semmai un'altra denominazione. Magari quella del Sant'Antimo doc, e in questo caso se servisse anche cambiandone il disciplinare, ché tanto è denominazione recente: sennò cosa l'hanno inventata a fare?

12 aprile 2010

Gli illuminanti ricordi del Creato pantesco di Salvatore Murana

Angelo Peretti
A volte ti si concretizzano quasi per caso idee che hai - come dire - annusato qui e là. Magari si tratta appena d'attimi, flash, parole ascoltate o percepite chissà quando e chissà dove, che ti riaffiorano alla mente, assumendo, ora, una significanza che in origine non avevi colto.
M'è accaduto a Vinitaly. Nel caldo, nel vociare della kermesse veronese del vino. Padiglione Sicilia, stand d'un produttore che per me rappresenta una sorta di mito: Salvatore Murana, da Pantelleria, uomo che da quelle pietre vulcaniche in mezz'al Mediterraneo e dalle vigne che a fatica vi crescono tira fuori alcuni dei più spettacolari vini dolci che troviate nel mondo. Nel calice un suo vino che è, a suo modo, leggendario: il Creato, un Passito pantesco del 1976. Nato pertanto quando lui, Salvatore, era giovinotto. Venuto da uve di zibibbo più mature che mai. Lasciato - probabilmente dimenticato - lì ad affinare lungamente, lentamente. Finché eccolo, una manciata d'anni fa, saltar fuori dalla botte e passare alla bottiglia. Acclamato dalla critica (fu un "tre bicchieri" sull'edizione 2006 della guida gamberista) e agognato dal pubblico. Quasi inavvicinabile, ché ce n'è proprio poco e per di più la bottiglina (da 0,50) la trovi sugli scaffali a duecento e passa euro (talvolta trecento).Lo vedo nel bicchiere, quel gioiello, ed ecco venirmi incontro il ricordo di parole avvertite in tempi passati, e messe lì da parte, ed ora invece utili - forse, se non m'abbaglio - a capire. a spiegare. A sognare, probabilmente. Mix d'una conversazione francese ed una spagnola, che a suo tempo non decifrai, non codificai appieno, e che trovano adesso compimento. Questioni d'unghie: le unghie del vino, intendo, quegli aloni che, nel bicchiere, si vedono nella parte alta a ridosso del vetro.
In terra di Borgogna v'è chi sostiene che un pinot noir destinato a superare il tempo ha da avere, fin da giovane, una sottile - sottilissima - unghia bianca. Non colorata, no: bianca, cristallina, trasparente. Ed è quello che, prima ancora della freschezza o d'altro, t'offrirebbe l'indizio di potenziale longevità. E nobiltà.
Nel sud della Spagna, dalle parti di Jerez, dove l'uve le fanno passire al sole per poi farne mosti da destinare agli Sherry, da maturare lunghissimamente nelle cataste di botti a solera, m'hanno invece insegnato che un vino davvero bene invecchiato ha da avere un'unghia orientata al verde. Più e meglio è definita, più e meglio vuol dire che sarà stato affinato il vino. Dunque, più complesso e fascinoso lo si troverà all'olfatto e al palato.
Mai m'era capitato d'associare le due suggestioni. Mai prima d'avere nel bicchiere il Creato di Salvatore Murana. Invece, guardandolo, ecco riaffiorarmi - e folgorarmi - fin da subito quei ricordi. Ché il vino, nel calice, ha all'esterno una sottilissima ma luminosissima aureola bianca, e subito dopo questa, prima del caramello, un cerchio di verde intenso e profondo. Sintesi incredibile e inattesa di quelle parole avvertite fra Borgogna e Andalusia. Se devo trarne conseguenza, se devo considerarle prove certe, allora ho davvero davanti a me un vino di quelli che ti capita di rado di provare, di tastare, d'assaporare, mi dico. E dico bene, ché quest'è realmente passito d'emozione.
Ordunque, è velluto e seta insieme, questo Creato. Ché t'avvolge senz'assalirti, ti dona dolcezza senza mai stancare, e pure ti sembra incredibile, impossibile per la freschezza.
Potrei qui narrare ora dei sentori di fico, d'uva passa, di miele e d'erbe mediterranee e di tant'altre impressioni. Ma sarebbe - penso - riduttivo. Come soffermarsi su qualche pennellata d'un quadro, su un unico rigo di note dentro a una sinfonia.
Posso solo augurare a chi legge d'aver modo di berlo, prima o poi, il Creato.
Per me, fuori dello stand né più vocio, né più caotica ressa, né più soffocanti arie.

11 aprile 2010

Côtes de Bourg Cuvée Tradition 2006 Château Belair-Coubet

Angelo Peretti
A novembre, dando qualche "consiglio per gli acquisti" per chi avesse voluto comprar vino on line, indicavo anche un "piccolo" Bordeaux, il Côtes de Bourg Cuvée Tradition 2006 di Château Belair-Coubet. Dicevo: "Un Bordeaux di una piccola denominazione dallo straordinario rapporto qualità-prezzo".
Ora, non so chi abbia avuto voglia di seguire il consiglio, ma chi avesse comprato questo rosso bordolese penso non se ne sia proprio pentito.
Certo, non è un colosso di quelli da tener lì anni et annorum in cantina, ma è anzi vino da mettere in tavola oggi. Epperò che piacevolezza che ti porta, appunto, sulla tavola.
Due terzi di merlot, un terzo di cabernet sauvignon, ti porge un fruttino succoso che è un piacere. E c'è spezia pepata, leggera, e bella freschezza. E unitamente alla freschezza, il tannino, per nulla aggressivo, ancorché ben presente, sostiene il frutto e lo amplifica. E c'è bella lunghezza.
Ora, io nuovamente dico che per chi non conoscesse la realtà bordolese e ci si volesse avvicinare con gradualità, ecco, questo è un ottimo acquisto, ad un prezzo del tutto ragionevole, ché il costo che ho indicato a suo tempo adesso è addirittura calato (lo trovate su Vinatis).
Dico anche che, certo, le guide sono opinabili fin che si vuole, ma questo rosso era stato coup de coeur della guida Hachette del 2009, e io - l'ho già scritto e riscritto - adoro quella guida, e questa è un'altra prova che spessissimo ci azzecca, avendo il coraggio di premiare anche "piccoli" vini come questo.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

10 aprile 2010

Recioto della Valpolicella Classico Le Novaje 2005 Novaia

Angelo Peretti
Scrivendo qualche tempo fa del Valpolicella di Novaia dicevo della Val di Marano e di come i produttori di questa vallata sappiano (ancora) rappresentare il loro terroir d'origine, interpretandolo in vini mai troppo carichi, mai troppo concentrati, a cominciare perfino dal colore, che è spesso un po' più scarico che presso i cugini d'altre plaghe valpolicellesi. Una valle che, anche quando amaroneggia, sa conservare beva, e non è mica così frequente in terra valpolicellista.
Ecco, torno sulla questione con un altro vino della famiglia Vaona, questo Recioto del 2005 che magari in degustazione - con la valutazione centesimale che premia le strutture - potrebbe anche non uscire fra i top, non mirando appunto a concentrazioni marmellatose, ma che nel bicchiere, a fine cena, oppure stand alone in qualche ora meridiana o serale, sa il fatto suo. Perché si fa bere, e s'apprezza soprattutto per questa sua dote: la bevibilità. Eppoi certo anche per un fruttato minuto, ma molto ben delineato, e una spezia fine e mai sopra le righe e una freschezza succosa e una dolcezza ben calibrata, per nulla orientata alla stucchevolezza.
Un Recioto apparentemente esile, ma in realtà per nulla banale, ed anzi perfettamente espressivo della valle maranese d'origine.
Insomma: un bel Recioto, di quelli che ti vien voglia di vuotartene subito un altro bicchiere.
Ora, però, che mi si conceda, dopo questa recensione così favorevole, un'unica nota un po' critica sull'etichetta, il fogliolino incollato sul vetro intendo. Oh, se quell'etichetta rendesse un po' meglio merito al contenuto della bottiglia...
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

9 aprile 2010

Champagne Grand Cru Brut Zéro Varnier-Fanniere

Angelo Peretti
Quando si parla di Champagne, occorre tener conto che ci sono le scuole di pensiero e che, a parte il solito dualismo fra chi ama una prevalenza di chardonnay e chi vorrebbe solo pinot (personalmente, tendo a propendere per la seconda opzione, anche se non mi piace assolutizzare), ci si divide, nel mondo degli appassionati, fra che beve i vini dosati e chi invece adora il dosaggio zero. Intendo, Champagne che al momento della ritappatura abbiano avuto aggiunte di zucchero, oppure che siano nature (e anche qui per parte mia propendo per la second'ipotesi, anche se certamente si ha a che fare con vini meno piacioni, più spigolosi, ma pure più personali).
Ora, questo Brut Zéro della maison Varnier-Fanniere l'ho avvicinato proprio perché ho letto che "non contiene nemmeno un grammo di zucchero", e n'ero dunque incuriosito. E adesso che l'ho tastato credo proprio che me ne comprerò qualche bottiglia: è davvero un gran bel bere.
Succosissimo di fruttino quasi asprigno e di agrumi (l'arancia, il mandarino, anche un che di pompelmo), ha slancio, vitalità, carattere. E una beva salina e invitante. E una vena acidula quasi irriverente. E in ogni caso lo riconosci Champagne fin nell'intimo più profondo.
La bollicina è sottilissima, persistente, insistente.
Ma le belle notizie non finiscono mica qui. C'è anche la faccenda del prezzo. Sappiate che cercandolo on line potrete acquistarlo a 29 euro, e per una bolla del genere è un prezzo che induce all'acquisto immediato.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

8 aprile 2010

Cinque bottiglie difettose in due settimane: non vi sembra troppo?

Angelo Peretti
Ora, è vero che mi capita molto spesso di mangiar fuori casa, ma mica ogni pranzo e cena li faccio al ristorante. Insomma, la media non la saprei dire. Però statisticamente è a mio modo di vedere comunque molto rilevante il numero di bottiglie che nelle ultime due settimane m'è capitato di mandare indietro dal tavolo perché sapevano di tappo: cinque in una quindicina di giorni mi pare davvero tanto, e tanto sarebbe anche se avessi mangiato fuori ogni mezzodì e ogni sera, figurarsi se s'è trattato della metà circa delle occasioni.
Nell'ordine, a darmi cocente delusione e a farmi chiedere il cambio di boccia sono stati un Fiano avellinese di un'ottima azienda, due Riesling della Mosella (eccellente vigneron, bell'annata, grande vigneto), un bianco frizzante dell'Oltrepò Pavese, uno Champagne. Cito le zone e le tipologie per significare che il problema è - come dire - ad ampio spettro, sia geograficamente, sia reputazionalmente, sia anche economicamente, ché si va da vinelli da un paio d'euro in cantina fino a roba da trenta e più euro presso la maison.
Ormai ho l'ansia da tappo. Sono tante, davvero troppe le bottiglie che mi si presentano difettose, e non credo proprio che si tratti di mia sfortuna. E mica e sempre appaiono fallate solo per il famigerato tricloroanisolo et similia, ossia per il classico odor di tappo. Ma anche per altri problemi: riduzioni, ossidazioni, comunque aberrazioni. Non ne posso più.
Tre settimane fa ero a cena con un collega, un giornalista di quelli proprio in gamba. Ordina lui un vino per il dessert: per quel che mi riguardava si trattava di una novità. Assaggio e lo trovo abbastanza buono, anche se di certo mica al livello di quanto m'aspettassi. Soprattutto, l'impressione è quella che a un avvio piuttosto interessante faccia seguito una repentina fine. Che il vino, insomma, si smorzi di colpo, lasciando una cert'asciuttezza al palato. Vedo che lui, il collega, è perplesso, e gliene domando ragione. Mi dice che avverte il vino meno brillante di come l'aveva trovato qualche mese fa, a ridosso dell'imbottigliamento. Prova anche l'oste, e anche lui ha la stessa sensazione. Butto lì: "Se mi dite così, vedrete che la bottiglia era chiusa con un tappo sbiancato". Già, ché m'è capitato altre volte che i tappi soggetti a sbiancatura avessero quest'effetto annichilente sulla freschezza dei vini. L'oste va in cerca del tappo e lo porta: effettivamente, candido come la neve, sbiancato.
A prescindere dai punti che ho guadagnato facendo l'indovino e azzeccando da un semplice assaggio la tipologia di tappo con cui era chiuso il vetro, il problema di tappi è grande assai.
Per me, si sa, sarei per metter la capsula a vite dovunque, ma soprattutto sui bianchi e sui rosati. Non c'è motivo per rischiare con altre chiusure, e soprattutto di seguitare con quegli orrendi moccoli in plastica, duri come il sasso, che il vino te lo fanno ossidare in pochi mesi. La soluzione della vite c'è: coraggio. Magari cominciando ad accantonare gli assurdi pregiudizi che hanno i ristoratori, che quasi (senza quasi) si vergognano a portarti in tavola una bottiglia serrata con lo Stelvin. Ragazzi, aggiornatevi!
Un mesetto fa, al ristorante. Adocchio nel frigo la bottiglia (una mezzina) d'un bianco che mi piace parecchio, chiusa con lo Stelvin. Al tavolo la ordino senza esitazione. Di lì a poco, ecco arrivare, imbarazzato, il gestore, che mi sussurra che il vino che ho scelto, sì, insomma, ha il tappo a vite. Come se si trattasse di un difetto, di un crimine, d'una subcategoria enoica. Gli dico senza mezzi termini che la bottiglia l'ho scelta proprio perché ha lo Stelvin. Ci resta di sasso.
Ce n'è di strada da fare, ancora.

7 aprile 2010

A noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui

Angelo Peretti
Non m'interessa qui parlare di fede. Però il giorno di Pasqua nelle chiese hanno letto un passo degli Atti degli Apostoli. Quello in cui si vuol dare testimonianza dell'incontro col Cristo risorto. Recita così: "Dio la ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti". Ecco, quel che mi colpisce è proprio questo passaggio: il fatto che per affermare la veridicità della testimonianza si dica "a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui". Non ci cita altra prova che l'aver pranzato in compagnia del Risorto. Ché il mangiare e il bere assieme aveva valore d'un rito, quello della condivisione. Posso addirittura semplificare l'affermazione: convivere a tavola era un valore, punto e basta.
Oggi a tavola non si convive - quasi - più. Si mangia in fretta, spesso in affollata solitudine: un panino da soli, in un bar pieno di altri solitari come te. Una cena a turni in famiglia, prima uno, poi l'altro, e a far compagnia la tv.
Temo che nessuno - o quasi - oggi si sentirebbe di sostenere la veridicità d'un incontro semplicemente dicendo d'aver mangiato e bevuto con l'altro. Gli si chiederebbe prova documentale: una foto, un video, un testimone, almeno la ricevuta, lo scontrino. Ché oggi lo spezzare il pane con l'altro non è più un valore.
Com'è cambiato il rapporto col cibo. Com'è mutata la relazione con gli altri, quasi non più mediata dal consumare assieme un pezzo di pane e un bicchier di vino.

6 aprile 2010

Convegno su vino, web e social network a Vinitaly l'11 aprile

Si parlerà di "nuovi" media e dell’evoluzione della stampa di settore domenica 11 aprile, alle ore 10.30 a Vinitaly, presso il Centrocongressi Europa-Sala Vivaldi, nel corso di un convegno intitolato: “Vino, web e social network: opportunità e responsabilità.
Relatori saranno Enrico Grazzini (Prima Comunicazione, Corriere della Sera), che traccerà lo scenario attuale e il futuro di media e social network; Francesco Zonin, che racconterà l’esperienza di My-Feudo, ovvero come sta cambiando la comunicazione del vino e la scelta del web da parte del gruppo vinicolo vicentino; Filippo Ronco, dieci anni sul web, l’esperienza di TigullioVino e Vinix; Giampiero Nadali (Aristide Blog), che tratterà il tema delle nuove frontiere della comunicazione; Gianluca Amadori (Presidente Ordine dei Giornalisti del Veneto) che si soffermerà sulla necessità di regole a tutela del pubblico; Angelo Gaja, produttore; Elena Amadini, brand manager del Vinitaly. Moderatore, Beppe Giuliano, direttore di Euposia-La Rivista del Vino.

5 aprile 2010

Contro il regime dell’etilometro: protestiamo clamorosamente in occasione del Vinitaly!

Angelo Peretti
Il titolo è ripreso pari pari da un post di Franco Ziliani sul suo Vino al Vino. Perché qui voglio rilanciare la sua provocatoria proposta: mettere in scena una clamorosa protesta contro l'uso indiscriminato dell'etilometro, utilizzato quasi sempre come strumento repressivo piuttosto che come mezzo educativo. E si tratta oltretutto di uno strumento su cui circolano insistenti sospetti di inaffidabilità.
In cosa consiste la protesta? Lo spiego con le parole di Ziliani: "Un gesto semplicissimo: uscire dal Vinitaly e presentarci in massa, a piedi, perché non essendo ancora saliti nelle nostre auto non ci possono accusare di aver compiuto alcun reato, dai vigili e dalle forze di polizia che si trovano fuori dall’ente fieristico, autodenunciandoci di aver superato i limiti dei consumi di vino consentiti e pretendendo, in massa, di essere sottoposti ai controlli dell’etilometro. Facciamolo in cento, cinquecento, mille, e ancora di più e se necessario presentiamoci in massa, arrivandoci a piedi o in autobus, al comando dei vigili urbani di Verona in via del Pontiere, a quello della Polizia Stradale in Lungadige Galtarossa, convochiamo i cronisti dell’Arena di Verona e dei principali quotidiani e delle televisioni, solleviamo il caso, facendo clamorosamente risaltare l’ipocrisia di una situazione paradossale che autorizza di fatto l’infrazione ed il reato di massa. Questo perché sarebbe letteralmente impossibile controllare le migliaia di visitatori che usciti dal Vinitaly salgono sulle loro auto, perché si sa perfettamente – e si fa finta di non sapere – che tantissimi di loro non sono in regola. Un gesto clamoroso, una protesta plateale, spettacolare. Forse il modo migliore, in quella che per cinque giorni è la capitale del mondo del vino italiano, per sollevare un problema, quello della schiavitù da etilometro, degli eccessi di severità da etilometro, lo ripeto, del “terrorismo” da etilometro, dell’ingiusta criminalizzazione di chi, in fondo, non fa altro che bere due o tre bicchieri di vino a tavola, mangiando, che non può davvero più essere ignorato.
E che in occasione della vetrina del Vinitaly finirebbe per diventare un argomento da prima pagina… Cosa ne dite? Se siete favorevoli e disponibili a partecipare a questa protesta civile contattatemi a questo indirizzo di posta elettronica".
Fin qui le parole di Ziliani, che vi invito a contattare se siete interessati a dar man forte all'iniziativa.
Per parte mia, riprendo quel che ho già scritto più di un anno fa, il 15 marzo del 2009: se dobbiamo metterci alla guida solo se siamo dentro a certi parametri di tasso alcolemico (e anche sull'affidabilità scientifica dei parametri in questione c'è chi mette i puntini sulle i), ci si diano degli strumenti omologati in grado di auto-testarci. Se su una strada c'è il limite di velocità a 50 chilometri orari, ho in macchina uno strumento omologato - il tachimetro - che mi permette di verificare con sufficiente affidabilità se sto viaggiando appunto entro i limiti oppure no. Mi domando se sia legittimo che io possa invece verificare se sono dentro ai limiti alcolemici solo se vengo fermato da un pattuglia e sottoposto a test. La cosa è assurda, semplicemente. E non mi si dica che nelle edicole o nelle botteghe d'enologia gli etilometri li vendono: non hanno omologazione, non sono affidabili per legge. Ecco, questo pretendo: di essere in grado di verificare da me se sono nella norma oppure no, di avere gli strumenti per autovalutarmi preventivamente, perché questo è far prevenzione. Altrimenti, è solo repressione, ed ho dei dubbi che la repressione sia così tanto costituzionale.

4 aprile 2010

Lunga vita alle brassadèle broè

Angelo Peretti
Al panificio Zambiasi di Cavaion Veronese ho comprato la brassadèle broè. Dolcetti di Pasqua, Che poi, dirgli dolcetti non è del tutto esatto. Mica sono così dolci. Ciambelline secche, ma poco zuccherate. Semmai, da inzuppare nel vino dolce - il Recioto di Valpolicella, rosso - oppure nel latte. E non è neanche che mi siano mai piaciute, le brassadèle broè. Epperò le ho comprate lo stesso, un po' perché comunque in questo forno lavorano bene, e poi anche perché sono tradizione. O meglio, tradizione quasi perduta e ora ritrovata. E comprandole ho come avuto la sensazione d'aver contribuito a salvarla anch'io, quest'usanza da fornai. Tutta veronese.
In un libretto di qualche tempo fa dedicato alla cucina veneta, Ranieri Da Mosto scrive che “una curiosa usanza gastronomica rivive per la Pasqua a Pazzon di Caprino Veronese sulle pendici del Baldo", e Pazzon è poco lontano da Cavaion, una manciata di chilometri. E quest'usanza erano "le ciambelle bollite infilzate sui rami di ciliegio in fiore”. Aggiunge che assumono in questa località il nome di brassadèle broè. E quel broè, che sta per ustionate, scottate, fa riferimento alla bollitura, ché per realizzare questi dolcetti croccanti si fa una impasto con farina, uova, burro e un pizzico di zucchero e lo si lascia riposare per una giornata, prima che “le mani svelte dei fornai” diano forma alle ciambelline “che vengono subito tuffate nell'acqua bollente finchè ritornano a galla” per passare poi nel forno ed essere cotte di nuovo. Con l'aggiunta che la pasta prima della cottura in forno vien tagliuzzata in modo che la ciambellina abbia delle specie di petali o creste, una volta infornata.
La forma, quella della ciambellina, si presta - si sa - ad essere interpretata simbolicamente. Da un lato, l'interpretazione cristiana, che vede in quel circoletto crestato un'interpretazione della corona di spine imposta al Cristo sulla via del Calvario. Dall'altro, la simbologia naturalistica, che vede nella ciambella un segno di fertilità, un'icona del sesso femminile. E c'è poi il simbolismo solare, con quella forma, appunto, circolare da cui si dipartono delle specie di raggi.
Quale dei simboli sia il più corretto, non sta a me dirlo. Dico però che mangiare è spesso, appunto, rito. Ed è ritualità quasi sempre arcaica, pre-cristiana, paganeggiante. Da salvare comunque, ché fa parte della nostra storia, della nostra cultura, del nostro essere. E si salva, questa cultura, anche comprando un sacchetto di brassadèle dal panetterie del paese.

3 aprile 2010

La terribile jattura dei dessert della stagione calda

Angelo Peretti
Cena in un buon ristorante. Mangiato direi bene. Ci starebbe anche il dessert. Arriva la lista dei dolci. Ce ne sono sei. Tutti però impostati sul freddo, gelati. Non uno che preveda almeno la temperatura ambiente. E io non amo chiudere una cena mangiando roba fredda: mi blocca la digestione, mi fa star male. Rinuncio al dessert, stramaledicendo lo chef, rovinando il piacere d'una bella sequenza di piatti.
Ecco, ci siamo. La stagione ha appena cominciato ad aprirsi e ricomincia la terribile jattura dei dessert della stagione calda. Capita spesso - tra la primavera e l'estate - che non ne trovi uno che non sia freddo: gelati, semifreddi, ma niente che sia non dico caldo, ma almeno tiepidino. Che senso ha? Possibile che si faccia pasticceria a senso unico? Roba calda d'inverno, roba fredda d'estate: prendere o lasciare. Ma chi l'ha deciso, chi l'ha stabilito?
Nossignori, così non va. Amici chef, non potete lasciarmi senza dolce a fine cena, soprattutto se da voi son stato bene. Non mi potete privare d'un piacere solo perché fate pasticceria a senso unico, ad unica temperatura. E se io avessi voglia, chessò, d'una fetta di torta di mele? No, mi devo per forza cuccare il gelato alla mela, il sorbetto alla mela, il semifreddo alla mela, ma la torta niente, a meno che non sia ghiacciata anche quella.
Diamine, se avete comprato la macchina che vi fa i gelati, non vuol dire che al cliente dobbiate dare solo gelato per ammortizzare i costi. Perché il rischio è che quel cliente i costi non ve li ammortizzi proprio più. Cambiando indirizzo.
Un po' di professionalità, per favore.

1 aprile 2010

Wine blog: un'alleanza a tre cambierà le regole del gioco

Angelo Peretti
Good news. Ogni tanto il web porta buone notizie. Questa è una buona notizia: tre dei migliori wine blogger italiani si alleano per "offrire una vetrina in più a quanti lo meritano realmente". Il "quanti" è riferito ai produttori e alle aree del vino in Italia. I magnifici tre sono Carlo Macchi (WineSurf), Luciano Pignataro e Franco Ziliani (Vino al Vino).
Ora, che la notizia sia stata lanciata il primo d'aprile, un po' di brivido lungo la schiena me l'ha anche fatto correre. Ma conoscendo i tre, ed avendo avuto conferma on line della veridicità del tutto da parte di Franco Ziliani, be', devo crederci che non è un pesce d'aprile, e dunque rilancio.
La nuova joint venture del mondo dei blogger italici si chiamerà Vino Igp e Igp starà per "i giovani promettenti". Partirà l'8 d'aprile.
Sul comunicato che hanno lanciato, leggo: "Amici nella vita reale, una lunga esperienza di giornalismo alle spalle, la curiosità sempre viva. Sono gli ingredienti che mettono insieme Carlo Macchi, Luciano Pignataro e Franco Ziliani nella navigazione nel web. Un accordo che mantiene inalterate le specificità di ciascuno e l'autonomia sempre apprezzata dai lettori, ma che consente una consultazione rapida e reciproca dei rispettivi blog offrendo al grande pubblico un servizio in più. Tre sensibilità diverse, Nord, Centro e Sud, ma una cosa in comune: la passione onesta per la viticoltura di qualità e la totale autonomia e libertà di pensiero. L'obiettivo è crescere insieme, aumentare i contatti, offrire una vetrina in più a quanti lo meritano realmente".
Come faranno a conciliare le tre identità, non lo so, e dunque aspetto l'8 di aprile. Ma i tre sono intelligenti, esperti e preparatissimi: non ho dubbi sul fatto che abbiano ben valutato la cosa e abbiano trovato la quadra.
Dunque, evviva: stappo una bottiglia per augurare il miglior successo all'iniziativa. Finalmente, qualcosa di veramente nuovo nel mondo del wine writing italiano, qualcosa che potrebbe anche cambiare le regole del gioco. Alla faccia del primo d'aprile.