31 dicembre 2010

E adesso invidiatemi, io che bevo e tracanno i Bordeaux degli anni Sessanta

Angelo Peretti
Ormai da qualche anno, tra Natale e fine d'anno mi regalo, insieme ad un gruppo di amici, una bevuta - volevo dire degustazione, ma non è corretto: è esattamente una bevuta - di vecchi rossi di Bordeaux. Direte, vecchi quanto? Rispondo: quest'anno vecchi d'almeno quarantanni, ché abbiamo stappato roba degli anni Sessanta - dal 1964 al 1967 - e solo un "giovinetto" del 1970. E capisco che qualcuno obietti: ma quale bevuta? pensando che al massimo i vini di quell'età possano essere sopravvissuti, e non sia dunque possibile tracannarli. Tsè, illusi: I Bordeaux d'una volta invecchiano con nonchalance, e non solo se quelli d'oggidì, più concentrati, meno acidi, sapranno esprimere simile performance.
Li ho trovati, gli otto vini di cui lascio qualche nota qui sotto, integri nel colore - colore bordeaux, scarico -, qualcuno addirittura splendidamente brillante, e tutti succosi di frutto, e tutti freschissimi. E tutti strabevibili, accidenti. Al meno in forma avresti dato probabilmente una decina d'anni, mica quaranta e passa, e ai più aitanti potresti avergli dato un paio d'anni di bottiglia, al massimo cinque, ed è straordinario.
Beveteli, i vecchi Bordeaux.
Qui sotto, le mie note. Metto i miei faccini, e poi, nonostante non sia un fan del metodo centesimale, indico anche una mia valutazione in centesimi, ma giusto per dare il senso, per segnalare una scala interna di golosità. Sì, avete letto giusto: golosità.
Moulis 1964 Château Poujeaux In splendida forma, giovanissimo, floreale perfino, da subito, all'olfatto. Fruttino. In bocca un'acidità vibrante. Vino deliziosamente beverino: a quest'età! Giovane, giovanissimo. Alla lunga, esce la liquirizia. E resta elegante, fine, floreale e fruttato e grazioso, sì, grazioso, anche dopo più di un'ora di bicchiere. Poujeaux non tradisce mai.
92 centesimi e tre lieti faccini :-) :-) :-)
Pauillac 1964 Château Pedesclaux Al naso è ostico, chiuso, ritroso. Eppure c'è il carattere terroso di Pauillac, netto. Prugna. mora. E funghi secchi. Una freschezza notevole. Una mineralità che cresce di minuto in minuto. La liquirizia esplode in bocca. Poi esce la melagrana, la buccia di arancia rossa, il mandarino. Marasca asprigna. Foglia di geranio. Lunghezza fantastica. Grande.
95 centesimi e tre lieti faccini :-) :-) :-)
Saint Emilion 1966 Château La Fleur Pourret Ecco, una bottiglia così ti mette in difficoltà. Perché il vino è "sporcato" da un tappo che ha ceduto odore di secchezza e di legno, ma che pian piano si pulisce, e dunque devi pazientare. In bocca è teso, fresco, nervoso. Poi, pian piano si apre, si pulisce, ed esce il frutto e il carattere di Saint Emilion, e si beve volentieri.
89 centesimi e due faccini :-) :-)
Cotes Canon Fonsac 1966 Château Mazeris Bellevue Tartufo, terra nera bagnata, e poi cipria, antiteticamente, e lampone e ribes. In bocca è teso, polposetto, tannico, vibrante di freschezza, succoso di mora e mirtillo. Pepe, a tratti. Splendido fin da subito. Si apre sempre di più, e la melagrana e il fiore di geranio si rincorrono nel bicchiere. Diventa sempre più succoso. Che vino!
94 centesimi e tre lieti faccini :-) :-) :-)
Saint Emilion 1966 Château Saint-Georges Cote Pavie Fruttatissimo al naso: mora, ciliegia, prugna. E poi terra e funghi. In bocca è saldo, integro, fresco, terroso e frutatto e succoso e a tratti perfino officinale, balsamico e lunghissimo, ed è appena aperto! Poi, tabacco, sigaretta, fungo, tartufo. Mirtillo invitante. Vino infinito nella persistenza. Gran vino, da bere con gioiosa golosità.
96 centesimi e tre lieti faccini :-) :-) :-)
Saint Emilion Grand Cru Classe 1967 Château Balestard La Tonnelle Al naso un tripudio di fruttino, lampone, fragola, ciliegia, amarena, ribes, melagrana, marasca. In bocca è corrispondente. Freschissimo, acido, acidulo perfino. Giovane, scattante, nervoso, grintoso. Snello, bevibilissimo. Persistente. Se non avessi visto la bottiglia, se non l'avessi stappata tu, gli daresti una manciata d'anni appena.
90 centesimi e due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Saint Emilion 1967 Château Croque Michotte Liquirizia, immediatamente. Al naso e in bocca. E grande tannicità. E tensione e personalità. Certo, il frutto è poco in rilievo rispetto alle note terziarie, ma che carattere! Canfora, poi, al naso. Salato, succoso, vibrante. Emerge la violetta. Accidenti, che bravi in un'annata così. Vibrante, ecco, è vibrante. E un'infinità di liquirizia.
90 centesimi e due faccini :-) :-)
Montagne Saint Emilion 1970 Château Montaiguillon Carne secca, frutta rossa. Bocca tesa, vibrante di acidità. Buona tannicità. Mora, subito, netta. Pepatino. Integro, scattante. Piccolo, ma santo cielo, si beve! Col tempo esce la melagrana, e tracce di mandarino. Nuance di menta e liquirizia. Bella tenuta, per un'appellation così piccolina.
87 centesimi e due faccini :-) :-)
Aggiungo un post scriptum: la foto che vedete qui di sopra l'ha scattata Enrico Lucarini, che ringrazio, e mostra le bottiglie stappate (e, che dite, gli chiedo di nuovo di fare una sua rubrichetta di foto qui su InternetGourmet?).

30 dicembre 2010

Dei Fattori e dello stile dei Soave di Roncà

Angelo Peretti
Me lo chiedevo ai primi d'ottobre su quest'InternetGourmet: nel mondo del Soave, sta forse nascendo uno stile Roncà? Dire che sia già nato è probabilmente prematuro, ma mi par proprio che i produttori di quella contrada ai limiti estremi della denominazione soavese abbiano imboccato una strada tutta loro, che mira ad esaltare la garganega attraverso la raccolta tardiva, la surmaturazione, a volte l'appassimento. Conservando però integra la freschezza e la mineralità che sono proprie dei suoli vulcanici del monte Calvarina.
Ricordavo anche, nel mio intervento d'ottobre, che Decanter ha assegnato il suo trofeo internazionale per i bianchi sotto le 10 sterline di prezzo a Soave Motto Piane 2008 di Fattori, azienda, appunto, di Roncà. E ora il Motto Piane, ma del 2009, ho avuto modo di tastarlo e di berlo e di berne più d'un bicchiere in una cena che Antonio Fattori (è lui nella fotina qui sopra) ha proposto al ristorante Arche di Giancarlo Gioco, nel cuore della Verona antica. E non ho dubbi: anche con la nuova annata 'sto Soave di Roncà è proprio un vino appagante, con quel suo frutto croccante che seguita a rotolarti in bocca, sospinto da una salinità che ti fa salivare e t'induce alla beva. Vino elegante e di carattere. D'una lunghezza considerevole. Eccellente.
Così com'è invitante il Recioto di Soave che pure porta il nome del cru di Motto Piane, annata 2008. Ché anche qui è la freschezza ad emergere, donando slancio ad un vino passito che di zuccheri ne conserva molti, giacché in casa Fattori s'è voluta tener bassa il più possibile la gradazione alcolica. Epperò, nonostante lo zucchero, la beva è succosa e non v'è proprio nulla di stucchevole e ti vien voglia di servirtene un altro assaggio.
Ma la sorpresa, tastando i vini di Fattori, è arrivata là dove mai me lo sarei aspettato: un Sauvignon. Ora, chi mi segue da qualche tempo credo sappia che ho un paio di idiosincrasie nel mondo vinoso: la prima è lo Chardonnay - tant'è che mi definisco, prendendo a prestito la definizione di Wine Spectator, un bevitore ABC, anything but Chardonnay, ossia "fatemi bere quel che volete, purché non sia Chardonnay - e la seconda sono i Sauvignon italiani. Bevo volentieri assai i Sauvignon Blanc della Loira e della Nuova Zelanda, e adoro la loro florealità, e quelle note di salvia, d'ortica, d'erba limoncella, ma proprio non sopporto invece l'odore verde e a tratti animalesco che caratterizza - quale più, quale meno - i Sauvignon italiani. Ebbene, il Sauvignon Vecchie Scuole del 2009 di casa Fattori l'ho tastato due volte in due diversi contesti e sempre m'ha fatto una gran bell'impressione, ché mi rammenta, appunto, lo stile neozelandese. E l'Antonio Fattori m'ha spiegato che il suo riferimento è quello, ed è stato a imparare il mestiere proprio nella terra dei kiwi. Be', c'è riuscito. E comunque il vino conserva quella freschezza, quella salinità che sono nel dna dei vini di Roncà.

29 dicembre 2010

Un eretico, buonissimo rosso di Valpolicella

Angelo Peretti
Spesso me lo domando: in che cosa trova espressione un terroir? Nella personalità di un vino, certo. Ma quanto conta in questo il vitigno? Può contare tantissimo, come nel caso dei rossi di Borgogna o di Barolo: pinot noir e nebbiolo ne sono parte integrante e insostituibile, intangibile. Altre volte invece conta proprio pochissimo, come nel caso degli Châteauneuf-du-Pape, dove la lista della varietà utilizzabili è amplissima, e ognuno la declina a modo suo, epperò i vini hanno ugualmente un'anima distintiva: "sanno" di Châteauneuf-du-Pape.
La domanda me la son posta di recente tastando un rosso valpolicellese eretico. E l'eresia sta nel fatto che quel rosso è fuori completamente da ogni canone del disciplinare di produzione del Valpolicella, tant'è che viene imbottigliato come igt. Ma quel vino "sa" assolutamente di Valpolicella, ed anzi "sa" della vallata di Marano, dove nasce. E dunque se non sarà mai doc, è comunque assolutamente vino di terroir. Ora, in genere sono assolutamente contrario al fatto che in una zona che ha sua sua appellation si facciano vini a igt. Ma ci son sempre le eccezioni. E questa è un'eccezione di quelle che ti mettono un po' in crisi, e ti fanno, appunto, pensare.
Intanto, nome ed azienda: il vino è il Dedicatum 2006, Rosso Veronese igt di Terre di Leone, azienda che si può a ragione chiamare emergente, a Marano di Valpolicella.
Ci son dentro, nel vino, al dieci per cento ciascuno corvina veronese, corvinone, rondinella, oseléta, molinara, negrara, dindarella e al cinque per cento a testa croatina, marzemino, incrocio Manzoni rosso, teroldego e sangiovese, e fin qui si arriva al novantacinque per cento, e il rimanente cinque per cento è dato in egual misura da rebo e barbera. Grosso modo, ché mica puoi usare il bilancino del farmacista quando vai a tirar giù l'uva e la vinifichi.
La faccenda nasce, grosso modo, così. Sui campi che oggi fan parte dell'azienda che ha nome Terre di Leone c'era un ettaro piantato anni e anni fa con l'intendo preciso di far tanta uva. Ma siccome le rese alte danno vini scipitini, allora man mano si aggiungevano varietà che conferissero un po' di colore o un po' di struttura. Guardate che non è mica un'eccezione: nel Veronese, o almeno in Valpolicella e nell'area del Bardolino, si faceva normalmente così in passato, e questo spiega il perché siano zone dove s'è sempre fatto uvaggio. Quando su quei campi maranesi s'è pensato di dar vita a una nuova realtà vitivinicola, saggiamente Federico Pellizzari e Chiara Turati (son loro nella fotina qui sopra) han deciso di non disperdere, almeno in parte, quella tradizione, e dunque si son fatte selezioni in vigna e s'è ripiantato lo stesso mix di vitigni, che adesso sono sparsi qui e là sui dieci ettari totali dell'azienda. Poi, le uve si raccolgono e ci si applica quella che è lo stile valpolicellese, ossia un appassimento che è in realtà una specie di surmaturazione forzata in cassetta, per ottanta giorni all'incirca.
Ne viene fuori un rosso dal colore scarico, com'è proprio dei rossi della val di Marano, e dal naso - mi si consenta il neologismo - "uvoso", che insomma trasmette sentori precisi di uve rosse, cui si sommano memorie floreali e speziate. Ed ha grande beva, e freschezza salina, e lunghezza.
Credo sia un vino che può stare a lungo in bottiglia, ammesso che si resista alla tentazione di stapparlo. Ed a me piace parecchio (insomma, se qui parlassimo coi miei faccini, sarebbero tre, beatamente felici).
Per l'intanto sono diecimila bottiglie - e non è poco - a un prezzo intorno ai 15-16 euro.

28 dicembre 2010

VinNatur: i vini delle isole

Mario Plazio
Seconda tranche degli assaggi effettuati all’edizione di Taranto di VinNatur, la rassegna dedicata ai “vini naturali”.
Dopo i produttori del sud (Puglia e Basilicata), ecco quelli delle isole: la Sardegna e la Sicilia (la fotina qui accanto mostra i vigneti di una delle aziende presenti alla kermesse tarantina, la siciliana Porta del Vino).
Nei prossimi giorni proseguirà su InternetGourmet la pubblicazione del resoconto delle mie note di degustazione attraverso il nord-ovest, il nord est, la Slovenia e la Francia.

Giuseppe Sedilesu (Sardegna)
Cannonau di Sardegna S’Annada 2008. Spezie e fiori, semplice ma anche serio in bocca, gradevole e fresco. 1 faccino e mezzo :-)
Cannonau di Sardegna Mamuthone 2008. Molto concentrato, al momento pare scomposto e bisognoso di ricomporsi in bottiglia. Non manca di eleganza e questo rende fiduciosi per un futuro che potrebbe rivelarsi sorprendente. 2- faccini :-) :-)
Cannonau di Sardegna Carnevale 2007. Caldo, dolce e segnato da un rovere che poco c’entra col vino. Il legno ha spogliato il vino e tolto tipicità. 1- faccino :-)
Cannonau Ballu Tundu rierva 2007. Tre anni in tonneau, in futuro in botti da 30 hl, viti ad alberello di 100 anni. Austero e minerale, molta acidità che domanda di fondersi con i tannini e con la dolcezza del frutto. Chiede pazienza, sarà interessante. 2 faccini e mezzo :-) :-)
Perda Pinta Sulle Bucce 2008. Da uva locale simile alla grenache. Venti giorni di macerazione per un bianco travestito da rosso. La tannicità è quasi eccessiva e lo rende di difficile beva. Da risentire forse tra qualche anno.
Perda Punta 2009. Senza macerazione sulle bucce, il vino è originalissimo, esotico con un leggero residuo zuccherino e una bassa acidità e molto alcol. È tutto sommato affascinante. 2 faccini :-) :-)

Giovanni Montisci (Sardegna)
Cannonau di Sardegna Barrosu 2008. Vino contadino, che alterna eleganza a rusticità. Tannini veraci, aromi di mirto e rosmarino, morbido per un frutto maturo, ma asciutto ed elegante per l’apporto della acidità. 2+ faccini :-) :-)
Cannonau di Sardegna Barrosu Riserva 2008. Vino stranissimo e per certi versi affascinante e demodé. Sa essere fine nonostante un deciso residuo zuccherino, che riesce a contrastare in virtù di una grande lunghezza senza troppo cercare di appoggiarsi su concentrazioni esagerate. Vino da meditazione o da abbinare a cucina a base di frutta o cacao. 3 faccini :-) :-) :-)

Porta del Vento (Sicilia)
Catarratto 2008. Semplice e ben fatto, denuncia forse una scarsa profondità, resta piacevole. 1 faccino e mezzo :-)
Catarratto 2007. Maggiore spessore, profuma di erbe, miele e anice. Leggero e molto fresco. 2+ faccini :-) :-)
Catarratto 2009. Versione totalmente diversa dalle precedenti. Al momento scomposto ed austero, non è nei suoi giorni migliori, potrebbe però evolvere positivamente. 2- faccini :-) :-)
Maqué 2009. Originale versione di perricone vinificato in bianco. Naso stranissimo di pistacchio, torrone, rosmarino e rosa. Carattere da vendere e finale sapido. 2 faccini :-) :-)

27 dicembre 2010

Le Riveselle, essenza del Tai Rosso

Angelo Peretti
Le Riveselle è uno dei miei vinini preferiti, e nelle annate di grazia sa essere un rosso (pallido) di grand'eleganza e strepitosa beva. Ne parlo sul mio vinino.it.
Scrivo così. Considero Le Riveselle del 2008, un Tai Rosso della doc dei Colli Berici, uno dei migliori vinini che mi sia stato sin qui dato d'assaggiare ed anzi di bere e con piena, totale, assoluta golosità. Lo produce Tommaso Piovene Porto Godi a Toara di Villaga, dove ha cantina presso l'antica, splendida villa di famiglia, in origine dimora dei conti Barbaran, dai quali Tommaso, perfetto signore di campagna (è lui nella foto, presa da Fotocru), è discendente diretto. Chi volesse proseguire la lettura può cliccare qui.

VinNatur: i vini del sud d'Italia

Mario Plazio
Villa Favorita, manifestazione dedicata ai “vini naturali” si è spostata per la prima volta nel sud Italia. Il 20 e 21 novembre una cinquantina di produttori associati a VinNatur hanno affrontato la trasferta fino a Taranto per far conoscere i loro prodotti agli appassionati locali. Non voglio qui affrontare la questione spinosa dei vini aderenti a questa tipologia. In realtà i produttori non si affidano ad un preciso protocollo, ma abbracciano in senso ampio una idea di vino esente da residui chimici in vigna e in cantina, alla ricerca di una espressione il più vicino possibile al terroir.
Dovendo fare una rapida sintesi della rassegna, mi sento di poter affermare che la nota più positiva è la sempre maggiore consapevolezza dei produttori. È chiaro che stiamo parlando di vini spesso fuori dagli schemi, ma ho rilevato una accresciuta pulizia, una diminuita accentuazione delle macerazioni (che alla fine portano ad una omologazione dei vini) e una grande aderenza al territorio, grazie anche ad una ritrovata o nuova eleganza di molti produttori. Tra le numerose sorprese mi piace segnalare le aziende Guttarolo (la foto mostra un particolare della cantina), Daniele Piccinin e Giovanni Montisci.
Questa è la prima parte della sintesi dei miei assaggi: incomincio dal sud d’Italia, in omaggio alla terra che ha ospitato la rassegna. Nei prossimi giorni il resto delle mie note di degustazione.

Guttarolo (Puglia)

Violet Rosato 2005. Sorprendente ed intrigante, evoluto ma ancora molto gradevole, con una bocca dove si ritrovano la rosa, il miele, la cera d’api e lo iodio. Buona freschezza. Vinino!
2+ faccini :-) :-)
Gioia del Colle Primitivo 2005. Ancora un vino sorprendente. Un primitivo tutto in finezza, floreale, elegante, rimanda più alla Borgogna che alla Puglia. Minerale e completo, uno dei migliori.
3 faccini :-) :-) :-)
Primitivo Amphora 2009. Come si evince dal nome è affinato in anfore di terracotta. Al naso è terribilmente ridotto, la bocca invece è irresistibile, minerale e speziata, finissima e persistente.
3 faccini sulla fiducia :-) :-) :-)
Gioia del Colle Primitivo Lamie delle Vigne 2008. Strani aromi di farina di castagne, accanto a fiori, spezie e menta. Maggiore concentrazione e acidità al palato, che riesce però a coniugare finezza e potenza.
2 faccini e mezzo :-) :-)

Antiche Cantine de Quarto (Puglia)

Primitivo di Manduria Mucchio 2008. Caldo, morbido e speziato, avvolgente e floreale. Profuma di miele, fichi e carrube.
2 faccini :-) :-)
Primitivo di Manduria Dioniso 2006. Speziato e morbido, anche floreale. Potente e deciso, conserva però una bella acidità.
2 faccini e mezzo :-) :-)
Lizzano Rosso Superiore Tarantola 2005. Negroamaro e primitivo. Oliva nera, cacao, timo e cenere. Tannico e morbido, decisamente un vino sudista.
2 faccini :-) :-)
Lizzano Rosso Negroamaro 2007. Floreale, vegetale e gradevole.
1+ faccini :-)

Cocciacavallo (Campania)

Fiano di Avellino Cardogneto 2009. Naso intrigante di fiori e spezie. In bocca non ha la stessa finezza, risulta più statico e caldo, mancando di slancio.
2- faccini :-) :-)
Fiano Apianum 2009. Versione più semplice, profuma di mela e spezie, snello e prevedibile.
1+ faccini :-)

Musto Carmelitano (Basilicata)

Marchitano Rosso 2009. Gradevole, frutta e fiori a piene mani. Vinificato in acciaio privilegia la facilità di beva, ma riesce a rivelare il carattere del vitigno. Vicino ad un vinino.
2- faccini :-) :-)
Aglianico del Vulture Serra del Prete 2008. Vinificato in acciaio e cemento. Profondo e minerale, profuma di erbe macerate e liquirizia. Al palato riesce a coniugare potenza e finezza. Vigne di 70 anni.
3 faccini :-) :-) :-)
Aglianico del Vulture Pian del Moro 2008. Vinificato in tonneau da 500 litri. Il legno influisce in maniera non del tutto positiva, prevale una sensazione poco gradevole di amaro in bocca, mentre il finale è troppo asciugante e medicinale per un eccesso di concentrazione.
1+ faccini :-)

26 dicembre 2010

Vinino: they call it funny wine

Angelo Peretti
Funny wine: è la traduzione inglese proposta dal vignaiolo-blogger ferrarese Mirco Mariotti su Casa Fuschini, la sua web tv proprio tutta casa e bottega (oh, quanti strumenti ci sono disponibili in rete se ci si mette un po' di buona volontà...) nella quale propone degustazioni on line di vini italiani. Con il parlato però interamente in inglese.
In un recente video mi cita come coniatore del termine vinino (ringrazio) e ne propone, del vinino, appunto, una traduzione inglese con funny wine, che non mi suona affatto male.
Ho dunque ripreso il video di Mirco sul mio vinino.it: chi volesse saperne di più, e poi vedere il video da YouTube, può cliccare qui.

Breganze Sauvignon Vigneto Due Santi 2006 Vigneto Due Santi

Mario Plazio
Più conosciuti per i loro rossi, i cugini Zonta dimostrano una buona mano anche sui bianchi. Il loro Sauvignon è un vino che è molto sensibile al millesimo. Così qualche anno esibisce prestazioni eccellenti, mentre altre volte si dimostra meno interessante ed evolve rapidamente.
C’è da dire che negli ultimi anni, forse grazie all’età delle vigne, il livello medio si è notevolmente alzato e stabilizzato.
Per verificarlo ho aperto questo 2006, che si rivela perfetto da bere in questo momento. È sicuramente evoluto, ed accanto alle varietali note verdi di ortica e di sambuco, presenta anche interessanti aromi di finocchietto, erbe aromatiche e tartufo.
L’impatto gustativo è dominato da una sensazione di pienezza, rinforzata da una dose importante di alcol nel finale.
Intrigante e forse ambigua è la sensazione che sotto ci sia una bella finezza, ma che la potenza del vino ne soffochi gli slanci.
Io credo sia il segno che il terroir comincia a manifestarsi, e questo è indubbiamente un fattore decisivo. Rimane da gestire l’esuberanza del vitigno, riducendone la foga e controllando, vendemmia permettendo, l’apporto dell’alcol.
Due faccini - :-) :-)

25 dicembre 2010

Buon Natale


Buon Natale dai vigneti delle colline del lago di Garda (località Cordevigo, Cavaion Veronese).

24 dicembre 2010

Ma per sfuggire all'alcoltest la soluzione è riscoprire la convivialità: parola di Gianni Mura

Angelo Peretti
In verità, del test - piacevolissimo test - cui s'era assoggettato ne avevo già sentito parlare "dal vivo" da lui nelle pause di Palla Lunga e Pedalare, una trasmissione di Tele Arena, giacché ero in studio mentre lui, Gianni Mura, gran giornalista del calcio, del ciclismo e della buona tavola, ne parlava con Roberto Boninsegna, Osvaldo Bagnoli e Franco Nanni. Ora vedo - e con piacere - che ne ha scritto su Repubblica, e visto che il pezzo è anche on line, lo segnalo invitando a leggerlo. S'intitola: "Io, risultato legalmente sobrio dopo aver bevuto sei bicchieri". E racconta di una cena in Vallagarina, di sei bicchieri di vino bevuti mangiando e d'un risultato, poi, all'alcoltest, di 0,13, nella norma.
Bravo: è un bene che i nomi importanti del giornalismo dicano le cose come stanno in fatto di vino e di cibo.
Gianni Mura racconta delle cene con la moglie Paola, e scrive: "A noi piace il vino: buono, se possibile, e non troppo. Pensiamo che l'ubriachezza stia al vino come lo stupro all'amore. Pensiamo, ancora, che si faccia terrorismo psicologico mettendo sullo stesso piano i vini e i liquori. Dubitiamo che chi guida velocissimo nel cuore della notte beva Barbaresco o Chianti, e sorvoliamo su altre sostanze che si possono assumere. Pensiamo che sia bello un bagno in mare dove non si tocca, però bisogna saper nuotare. Fuor di metafora, non abbiamo mai visto l'etilometro come un nemico. Teniamo alla nostra pelle e a quella altrui. Un limite ci vuole, come per la velocità. Meno ubriachi circolano per le strade e meglio è. Lo 0,13 è nostro e dipende da molti fattori: età, abitudine, corporatura. Ogni organismo risponde in un modo diverso. Quindi, non copiateci, ma testatevi e sappiatevi regolare. Bevete responsabilmente e seguendo una regola fondamentale: mai bere a stomaco vuoto. Bevendo a digiuno, sì che due calici di bianco bastano a sballare".
Continua, correttamente, dicendo: "è meglio chiarire: a 0,4 non ci sono sanzioni, ma la lucidità e i riflessi non sono identici a quelli di uno 0,2 o di un astemio".
E poi insiste: il vino va associato al cibo. E per sfuggire alle sanzioni dell'alcoltest, "il solo segreto, oltre alla moderazione - dice -, è il gusto della convivialità, il passare un paio d'ore rilassate apprezzando il cibo e il vino. L'importante è bere mangiando, non importa che il menù ricalchi il nostro, vanno bene anche tre panini al Gorgonzola (naturale, se possibile) o una pastasciutta e una frittata".
Sono d'accordissimo.
Leggetelo tutto, l'articolo: potete trovarlo cliccando qui.

Credo nella soggettività di giudizio dei recensori dei vini

Angelo Peretti
Ancora una volta Matt Kramer (è lui nella fotina qui accanto), editorialista di Wine Spectator, ha fatto centro. Sul numero di metà novembre della rivistona americana scrive "I Believe In Individual Tasters", ossia: "Credo Nei Singoli Degustatori". Si schiera insomma apertamente contro la dittatura del tasting panel, del gruppo d'assaggio, che alla fine favorisce la mediocrità. Evviva.
Scrive: "Permettetemi di metterla giù più secca che si può: mai credere a un tasting panel. Non importa 'chi' ne fa parte. Mai fatto parte di una commissione? Se quel che cercate è una mediocrità media d'assaggio, allora i tasting panel fanno per voi". Parole chiare, anche dure. Ma le condivido, in toto. Le commissioni d'assaggio in genere finiscono per premiare vini tecnicamente ben fatti, ma quasi sempre poveri nell'anima. Vini mediocri, insomma, seppur d'alta - tavolta altissima - tecnica. I vini di carattere, quelli più spigolosi, a volte anche rustici, vengono cassati nelle medie di un gruppo d'assaggio. Ed è un male.
Da qualche tempo a questa parte, nota Kramer, i direttori dei giornali che si occupano di vino sono diventati seguaci di quella "populistica opinione che se è un palato è buono, cinque sono meglio". Ma questo vale solo per il vino, chissà perché. "Non lo vedete succedere - afferma l'editorialista di Wine Spectator - per l'arte, la musica, i ristoranti o perfino i computer". E si dice convinto, ed io lo sono con lui, che non sia possibile sperare, settimana dopo settimana, mese dopo mese, di scoprire vini interessanti, di carattere, che valga la pena di presentare, servendosi di una commissione di palati.
Sono - ripeto - totalmente, assolutamente d'accordo. Vero: un solo assaggiatore darà un giudizio personale, soggettivo. Ebbene: evviva la soggettività. Perché su quella soggettività io, lettore, mi posso calibrare. E posso dunque capire se quel tal recensore ha i miei stessi gusti oppure no. Se ha i miei gusti, ne seguirò i consigli, convinto di trovare vini che possono piacere anche a me. Se ha gusti diversi, capirò almeno quali vini non faranno mai per me. Oppure calibrerò il mio giudizio - la mia scala di valori - sul suo. E spiego come mi regolo io da compratore. Amo i vini di Bordeaux, ma mi piace uno stile "all'antica", e dunque sì fruttatissimo, ma anche fresco e bevibile, e dunque lontano dalle concentrazioni che piacciono agli americani. Solo che i recensori più affidabili in termini di continuità d'assaggio dei rossi di Bordeaux son proprio gli americani (loro hanno gli editori che pagano trasferte e soggiorni, mica come in Italia). Seguendo con una certa assiduità i loro scritti, ho capito che i vini che ottengono punteggi dai 90 centesimi in su non fanno per me (troppo concentrati), mentre i rossi che adoro bere io si collocano di solito intorno agli 87-89 centesimi, che, secondo la loro scala di valori, vogliono dire, grosso modo, "bel frutto, ma concentrazione e tannini non troppo elevati", il che per me è l'ideale. Ergo, compro i "loro" vini da 87-89 e bevo benissimo. Ma questo succede solo perché loro assaggiano in solitudine, e dunque so come tarare il mio gusto in base al loro personale giudizio. Questo non potrebbe mai accadere se l'assaggio fosse fatto in gruppo. E dunque non mi servirebbe a nulla, se non a scoprire vini il più delle volte semplicemente tecnici.

Raval e il Chiaretto 2010 che sa di fragolina

Angelo Peretti
Su vinino.it ho pubblicato le mie impressioni su un primo interessante assaggio di Chiaretto della nuova annata, il 2010: è quello di Raval, piccolissima azienda famigliare di Bardolino.
Sì, lo so: sono in pieno conflitto d'interessi. Perché del Bardolino mi occupo professionalmente, e qui scrivo di Bardolino, accidenti! O meglio, di Chiaretto, che è la versione rosé del vino bardolinista. Ma che volete farci: ho avuto per le mani una bottiglia del Chiaretto 2010 (sì, nuova annata: 2010) di Raval, e non ho resistito. E del resto, come farei a scriver di vinini, senza parlar di Bardolino, che è il mio vinino di sempre? Eppoi, vivaddìo, questo è un blog, mica un giornale... E insomma, tutte le scuse son buone, e dunque portate pazienza: avvisati siete avvisati e se volete andate avanti a leggere. Per continuare la lettura si può cliccare qui.

23 dicembre 2010

Evvai col Prosecco australiano fedelmente in stile italiano!

Angelo Peretti
Evvai col Prosecco australiano! La Brown Brothers, azienda vinicola della terra dei canguri, è arrivata, con la vendemmia del 2010, alla sua terz'annata di produzione prosecchista. E ne è talmente fiera che lancia le bollicine del Prosecco australiano con un banner speciale sulla home page del proprio sito internet. Che dice - udite udite - così: "In Italia c'è quando comincia la conversazione e quando gli argomenti finiscono. Gli italiani amano il semplice piacere della buona conversazione, e la loro maniera per favorire queste conversazioni è un bicchiere di Prosecco. Con un croccante, amabile palato ricco di aromi delicati, il nuovo Brwon Brothers Prosecco non millesimato è fatto fedelmente secondo il tradizionale stile italiano". E sarebbe una bellissima presentazione, appunto, d'un Prosecco veneto-coneglianese-asolano o quel che volete: accompagna invece una bolla d'Australia, accipicchia. Dove fanno - capito? - un vero, tradizionale Prosecco in stile italiano.
O meglio, due. Perché il non millesimato è, come dice il banner, il "nuovo" Prosecco della Brown Brothers, ché da tre anni ci hanno già in catalogo il millesimato, giunto appunto, col 2010, alla terz'uscita. E la la bottiglia del Prosecco 2010 Limited Release (letto bene: edizione limitata) viene presentata così: "Questa è la terza uscita del Prosecco millesimato Brown Brothers e, facendo parte della gamma delle nostre produzioni limitate, sarà reperibile solo alla Cellar Door, nei ristoranti e nei negozidi vini di pregio. Ha un lieve colore dorato con sfumature verdi e un naso delicato che mostra caratteri di mela e di pera che continuano al palato e si fondono con delle caratteristiche, fresche e croccanti note agrumate. Il vino sfoggia una piacevole acidità naturale tipica del frutto dei territori dal clima freddo ed è fatto per essere bevuto giovani, quando la leggerezza e delicatezza sono al loro meglio."
Da dove viene l'uva? Dalla italianissime-trevigianissime colline australiane della King Valley. Lo leggo in un articolo riportato nella sezione della rassegna stampa della casa vinicola: "Come il pinot grigio - c'è scritto -, il prosecco è al meglio quando è coltivato nelle regioni più fresche e viene raccoto precocemente, in modo da conservare un'alta acidità e quegli aromi croccanti che in genere si trovano nei vini del Nordest d'Italia. Di conseguenza, le uve di questo vino sono coltivate nel più freschi climi del vigneto di proprietà Banksdale (485 metri sul livello del mare), nella parte più alta della King Valley.
King Valley, provincia di Treviso. Circa.

22 dicembre 2010

Oh, che magia quel Merlino da Faedo!

Angelo Peretti
Adesso che sono i giorni del Natale, volete un'idea golosissima da metter sotto l'albero per farvi un regalo sanamente egoistico? Prendetevi una mezza bottiglia di Merlino, un vino fortificato come non ce n'è di simili in Italia. Una magia da bere da voi soli, e semmai spartire solo a chi vi sta a cuore, ma proprio a cuore.
L'ha ideato quell'uomo geniale - una sorta di vigneron gioiosamente affetto da sindrome di Peter Pan, e quindi giocherellone ad oltranza, oppure un maghetto che usa alambicchi e tini, fate voi - che è il Mario Pojer da Faedo, dove co-conduce l'azienda Pojer & Sandri, una delle realtà più belle della vitivinicoltura trentina.
Come si faccia il Merlino lo lascio dire alle parole che si leggono sul sito aziendale, ché meglio non saprei proprio fare: "Nasce da mosto parzialmente fermentato di uve lagrein, aggiunto di nostro brandy a sua volta ottenuto da due varietà di uva locali: la schiava e il lagarino". Già, "nostro" brandy perché in casa Pojer & Sandri si distilla pure. Eh, già: alambicchi da antro dei maghi. Ed è una specie di formula magica anche il nome aggiuntivo del Merlino: 05 91, si legge in etichetta, che dice che il vino è del 2005 e il brandy del 1991, se non ho capito male.
Suvvia, non divaghiamo: riprendo la copiatura dal sito: "L’uva lagrein viene raccolta molto matura (alcool potenziale 13,5°), viene poi messa per 1-2 notti in cella frigo per abbassarne la temperatura. Dopo una diraspatura gli acini, non pigiati, vengono passati per gravità nel serbatoio (niente pompe), dove sostano per una macerazione a freddo per 5/ 6 giorni per aumentare l’estrazione aromatica, dopodiché parte la fermentazione che viene interrotta a 4-5° gradi di alcol svolto con l’aggiunta di un brandy invecchiato più di 10 anni. Importante in questa fase miscelare il distillato in modo che non vi sia bruciatura-ustione del vino. La temperatura del distillato viene portata a 10-15 gradi sotto zero e l’aggiunta è fatta in rimontaggio, la gradazione viene portata vicino ai 20° alcool e in questa maniera si 'fotografa' la situazione tal quale, i lieviti e i batteri si bloccano, lo zucchero presente rimane infermentescibile (100/120 grammi per litro), la carica aromatica fruttata resta tale. Dopo qualche giorno il prodotto viene messo in fusti dove prima c’era il nostro brandy chiamato Divino".
E qui mi fermo con le parole - saggiamente divulgative, ampiamente illustrative - del sito (e meno male che il mario confessa di non saper neppure usare la posta elettronica: non è che ce la conta?). Aggiungo solo che è vino seducente in toto. Dal colore, tra il nero e il violaceo, agli aromi, tra la mora, la marasca, la confettura di ciliegia, la prugna sotto spirito, la viola, il ciclamino, il cioccolato amaro, il caffè. Lunghissimamente persistente, avvolgente, carezzevole.
O meglio, ci ripenso, e non mi fermo con le parole del sito, perché solo l'ultima parte del testo pubblicato on linbe trae a mio avviso in errore il fruitore, laddove affermerebbe che il Merlino è "ideale da conversazione serale o leggendo un libro": nossignori, con la lettura d'un libro non ci sta, ché questo vino è così assolutamente avvincente che perderesti il filo della narrazione, distraendoti nell'inseguire le mille sfaccettature di questa magica pozione tridentina. No, col libro non ci va. Pazienza.
E comunque, anch'io in partenza ho commesso un errore: mica per forza occorre aspettare le feste natalizie per farsi un regalo del genere. Una scusa la si trova sempre, se si vuole, per autogratificarsi.

21 dicembre 2010

Dal letame nascono i fior: alla ricerca di un linguaggio del vino

Angelo Peretti
Apodottico: usai quest'aggettivo per descrivere il linguaggio dei blog nel convegno su vino e comunicazione cui partecipai in novembre a San Michele all'Adige. Se vuoi avere lettori e commentatori, sui blog devi essere apodottico: o bianco o nero, o padreterno o merda, e scusate se la semplificazione apodittica m'ha condotto alla citazione organica. Ed anche affermare che il web parla apoditticamente è - lo capisco - un'affermazione apodittica, il che non è propriamente il mio stile, ma tant'è: sono condannato ad essere quel che sono.
Esemplificativa di quel che intendo come comunicazione apodittica nel mondo dei blog è sicuramente la rubrica Black Mamba su Scatti di gusto. Nei giorni scorsi, ad esempio, ha raccolto una marea - davvero, una marea - di commenti e d'improperi un post ben più che graffiante sul Prosecco, ed anzi, direi un'entrata a gamba tesa sulle bollicine veneto-giuliane, un intervento da tergo da far estrarre il cartellino rosso: come non definirlo tale un pezzo che ti scrive che "il Prosecco è un vino da zanzare e francamente fatico ad associare all’idea di zanzara qualcosa che non attenga al disturbo, al fastidio"? Insomma: apodittico in senso pieno. Tant'è che c'è chi, fra i prosecchisti, se l'è presa proprio, ma proprio male.
Epperò - ammesso che lo stile del post possa dar qualche disagio - invito a riflettere sul fatto che, come cantava De Andrè, "dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior". E allora scorrendo i cento e passa commenti a Black Mamba, ecco che te ne trovo uno a firma d'un Umberto (Umberto chi? Mi piacerebbe sapere il nome e il cognome di chi commenta sui blog, accidenti!) che scrive un sacco bene in quanto a stile e che pone la domanda delle domande. Questa: "C’è un modo e un luogo, e questo blog potrebbe avere l’ambizione di esserlo, dove provare a parlare di bere vino (sottolineo bere vino) condividendo una lingua grosso modo comune? Diciamo una lingua che possa far comunicare insieme il bevitore, il maniaco appassionato, il critico, l’enologo, il produttore, l’esportatore e via dicendo? Una lingua del bere vino, credo, ci serva. O, più modestamente, parlerei volentieri una leggera lingua del bere vino".
Ecco, quest'è la madre di tutte le domande, l'alfa e l'omega delle riflessioni, per quanto attiene alla lingua del vino: è possibile trovare una chiave di comunicazione che accomuni tutti i "portatori d'interesse" (gl'inglesi direbbero gli stakeholder) del vino? Che si faccia capire più o meno da tutti? Un po' come succede nel pallone, giusto per dire.
Al momento, la risposta è una sola: no, non esiste questa lingua. Ma perché non provarci?

Fortana, le bolle che vengono dalla sabbia

Angelo Peretti
Su vinino.it presento i "vini delle sabbie" di Mirco Mariotti, appassionato interprete del fortana, vitigno autoctono ferrarese. Ed ovviamente ho scritto dei suoi Fortana, tipicamente da ascrivere alla categoria di vinini.
Ho scritto varie volte qui del Vinix Live! dell'11 dicembre a Ferrara, "dedicato" al mio Elogio del vinino da Mirco Mariotti. Ma lui, il "dedicatore", lui che fa il vignaiolo, che vini ha fatto tastare all'inclito pubblico presso il castello estense? Ovviamente ha fatto bere il suo Fortana nelle diverse declinazioni. Ché del Fortana il Mirco è un promoter anche sul web, col suo blog sui "vini delle sabbie" (le vigne dell'uva d'oro, che sono però rosse e si chiamano fortana, vengono proprio su terre sabbiose, e non è mica facile tirarle avanti). Per continuare la lettura potete cliccare qui.

20 dicembre 2010

Un Ruché guerrigliero dal Monferrato: Cascina Tavijn

Angelo Peretti
Su vinino.it, il mio nuovo blog dedicato alla piacevolezza dei vini da bere, ho pubblicato un pezzo dedicato al Ruché della Cascina Tavijn, nel Monferrato. Una lietissima scoperta, per me che non conoscevo il vino, fatta al Vinix Live! svoltosi a Ferrara.
Nadia Verrua il basco nero non se l'è tolto neanche un momento al Vinix Live! di Ferrara dell'11 di dicembre: posa barricadera per una giovane donna che fa vino in terra di Monferrato, in un posto che si chiama Scurzolengo, nel quale non so se mi sarei mai imbattuto se non fosse perché, appunto, ci ha vigna da un secolo la famiglia Verrua. continua a leggere cliccando qui

Di nuovo a proposito di concorsi enologici

Angelo Peretti
L'altro ieri ho scritto dei concorsi enologici e delle nuove regole emanate dal Ministero per le politiche agricole. Conversando su Facebook, Maurizio Gily, che è eccellente tecnico di vigna e di cantina, nonché wine writer che stimo e direttore di Millevigne, m'ha ricordato d'un suo articolo pubblicato tempo fa su Focus Wine. Parlava d'un concorso enologico australiano. Del livello assoluto dei giurati che ci ha trovato (c'erano anche alcuni master of wine). E del metodo d'assaggio e di valutazione che di certo non era ingessato dentro rigidi schemi da manuale, come, più o meno, si usa da noi. Nella sostanza - ma v'invito a leggere tutto il pezzo scritto da Maurizio - prima s'è fatta una scrematura in commissione, assaggiando in proprio e poi discutendo con gli altri giurati, e poi si sono tastati i vini finalisti abbinandoli col cibo. Sissignori, abbinandoli col cibo, che è quel che poi faccio anch'io da anni ormai nelle mie serate di degustazione con la combriccola che si riunisce alla Taverna Kus di San Zeno di Montagna o in altre sedi. Vivaddìo, se il vino è fatto per essere bevuto a tavola, dovremo ben capire come sta col cibo, o no? E garantisco che non è affatto la stessa cosa tastare il vino da solo o mangiando: in molti casi la valutazione cambia, oh, se cambia!
Ma a parte questo, a intrigarmi è stata la parte conclusiva del pezzo di Maurizio, e così gli ho chiesto il permesso di riportarlo qui su InternetGourmet. E dunque qui di seguito trovate le sue parole. Aggiungo solo che condivido. In pieno. Finale incluso.
"Premesso che nessun test di degustazione è perfetto e ognuno ha pregi e limiti, il grande numero dei vini degustati e la semplicità del metodo di giudizio non mi ha fatto rimpiangere l’assenza della classica scheda centesimale dei concorsi italiani ed europei, quella dell’Union des Oenologues. La quale, non sono il solo a dirlo, con la sua astrusità concettuale e il suo linguaggio iniziatico è assai lontana dal modo con cui un normale consumatore si accosta al prodotto. Tanto è vero che, come ho visto in moltissime occasioni, quasi nessuno la usa davvero: si esprime un giudizio sintetico in centesimi e poi si compila la scheda a ritroso, con l’intento di far “tornare i conti”. Un’assurdità di cui sarebbe ora di prendere atto, concludendo che quel modello promana odore di muffa (non nobile) e va quindi cambiato. Dopo questi giudizi penso che nessuno in Italia mi inviterà più ai concorsi. Ebbene, me ne farò una ragione".

19 dicembre 2010

Lambrusco Grasparossa di Castelvetro Fontana dei Boschi 2001 Vittorio Graziano

Massimo Zanichelli
Chi vivesse ancora di perniciosi luoghi comuni sul Lambrusco, dovrebbe, come San Tommaso, toccare con mano (anzi con naso e palato) questa versione d’autore firmata da Vittorio Graziano sulle colline di Castelvetro.
Proveniente da pratiche agronomiche biodinamiche estranee a mode e retorica, e prodotto con la tradizionalissima, ancorché – purtroppo – sempre meno diffusa, tecnica della (ri)fermentazione naturale in bottiglia, questo Grasparossa stupirebbe i più scettici per la tonicità del frutto e la vivezza dello sviluppo: sentori di erbe medicinali e piccoli frutti rossoneri (ma non necessariamente milanisti); palato succoso e invitante (perché, appunto, succoso), dalla carbonica ancora fine e dai tannini ancora “sul pezzo” a distanza di 9 anni dalla vendemmia (alla faccia della veloce corruttibilità dei vini frizzanti)…
Insomma, una goduria.
Tre faccini solo apparentemente sorprendenti :-) :-) :-)

Ribera del Duero Vega Sicilia Unico 1985 Vega Sicilia

Mario Plazio
Ci sono alcuni vini che si devono bere almeno una volta nella vita. Vini che per la rarità o il loro costo fuori dalla norma difficilmente ci possiamo permettere, nonostante la nostra grande passione. Il Vega Sicilia è uno di questi, e non è nemmeno uno dei più cari.
L'immensa classe di questo spagnolo si rivela soprattutto in bocca, dove tutto è ai limiti della perfezione. Densità, morbidezza, eleganza, persistenza. Tutto è (quasi) ai massimi livelli.
Eppure c’è qualcosa che non mi convince pianamente, almeno in un vino di questa caratura, dove pretendi che tutto si esprima con coerenza ed armonia.
Direi che il naso non è dei più eccitanti che mi sia capitato a tiro. Percepisco un filo di rigidità, probabilmente dovuta all’uso di un legno americano (come capita spesso in Spagna) che toglie eleganza e complessità all’impalcatura del liquido.
Esemplare la tenuta nel bicchiere: terra, sangue, spezie, vaniglia. C’è molto, ma potrebbe essere ancora più profondo.
Non conosco il valore dell’annata, potrebbe non essere una delle migliori, però non mi espongo.
Il palato è comunque uno dei più seducenti che mi sia capitato di sentire, con una finezza di grana dei tannini davvero esemplare. Ecco, qui possiamo davvero parlare di seta, la consistenza è assolutamente fuori portata per i comuni mortali.
Tre faccini (con un piccolo meno) :-) :-) :-)

18 dicembre 2010

Concorsi enologici: le nuove regole serviranno a ridurne la proliferazione?

Angelo Peretti
Non sono un fan dei concorsi enologici.
Il fatto è, in primis, che li ritengo strumenti concettualmente obsoleti. Secondo me, appartengono come forma di promozione ai tempi in cui i vini tecnicamente corretti non erano così tanti come ora. Non è un caso che di norma a giudicare i vini nelle competizioni siano sempre stati soprattutto gli enologi: per valutare, appunto, la correttezza formale del vino, e non altro. Il che oggidì non ha moltissimo senso: le teniche di cantina han fatto passi da gigante.
Eppoi i concorsi sono anche eccessivi, stucchevolmente ridondanti, e quindi comunque poco significativi, perché ce ne sono davvero troppi, in Italia: decine e decine e decine di gare e garette e garucce organizzate da enti, istituzioni, consorzi, associazioni, pro loco, sodalizi, circoli e chi più ne ha più ne metta. Ne basterebbero molti, molti di meno, e allora forse avrebbero un certo valore per il mondo produttivo da un lato e per i consumatori dall'altro.
C'è poi un altro aspetto che a mio avviso non va: se ne premiano decisamente troppi, di vini, nella gran parte dei concorsi d'oggi, ed è logico che succeda questo, perché i campioni in lizza vengono valutati assegnando voti centesimali in base al metodo d'analisi sensoriale dell'Union internationale des oenologues, e questa metodologia valorizza, appunto, più i requisiti formali che gli aspetti di piacevolezza, e dunque sono comprensibilmente molti i vini che superano soglie di giudizio minimo fissate poco oltre quota 80 centesimi, e dunque son todos caballeros (oh, che frase lunga che ho scritto!).
Ora, non so se il nuovo decreto "recante la disciplina dei concorsi enologici" - firmato il 16 dicembre dal ministro Galan - servirà a contenere la proliferazione delle disfide vinicole: non ci spero del tutto, ma me lo auguro proprio. E la speranza sta nel fatto che il decreto dice che d'ora in poi chiunque voglia attribuire un riconoscimento ad un vino - che si tratti di "medaglia, diploma, premio, trofeo, etichetta, menzione in etichetta, bollino, ecc." (sono le fattispecie indicate nel testo del decreto) - deve essere autorizzato dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, sentito il Comitato nazionale vini. Il che è già di per sé impresa di una certa consistenza.
Gli organizzatori - o meglio, secondo la dizione ufficiale, l'"organismo ufficialmente autorizzato" ad allestire il concorso - deve domandare "l'autorizzazione al Ministero, Dipartimento delle politiche competitive del mondo rurale e della qualità, almeno 4 mesi prima dell'inizio del concorso" e il nulla osta ministeriale viene rilasciato "nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della domanda". Insomma: ci vuole una certa pianificazione, il che, con gli empirismi e l'estemporaneità cui siamo abituati in Italia, non è scontato.
Non solo. Una volta che abbia ottenuto l'autorizzazione, l'ente organizzatore deve "due mesi prima dell'inizio delle selezioni", comunicare al Ministero: "l'avvenuta pubblicazione per estratto del regolamento del concorso su almeno due quotidiani o riviste specializzate nel settore enologico a larga diffusione, a livello nazionale od a livello regionale, in relazione all'ambito di svolgimento del concorso medesimo; la composizione del comitato organizzatore; il luogo e la data della manifestazione e delle operazioni di selezione; il nome del notaio, o di altro pubblico ufficiale incaricato alla anonimizzazione (...); il nome del responsabile della segreteria e della tenuta della documentazione contabile; il nome del presidente delle commissioni di degustazione responsabile della parte tecnica del concorso". Poi, "quindici giorni prima dell'inizio delle selezioni", deve anche "comunicare al Ministero l'elenco dei componenti le commissioni di degustazione, specificando nome, cognome, qualifica professionale e mansione ricoperta da ciascun componente".
Insomma: burocrazia di un certo peso e spese non irrilevanti spero che rallentino la proliferazione dei concorsi, e che magari ne spazzino via qualcuno. Spero troppo?

17 dicembre 2010

Trento Brut Riserva Bruno Lunelli 1995 Ferrari

Massimo Zanichelli
La prima, storica Riserva Bruno Lunelli, frutto di un millesimo d’eccezione, mi guardava da un po’ di tempo da un angolo della cantina…
E la bottiglia “che non sapeva stare in piedi”, per via di quel punteruolo che sbucava dal suo sedere, ha dimostrato tutta la grandezza della sua statura.
Perlage sottilissimo, profumi “champagnotti”, frutto croccante, nitido sviluppo agrumato.
Un “blanc de blancs” da incorniciare, summa organolettica delle bollicine di casa Lunelli.
Tre faccini molto sorridenti :-) :-) :-)

Soave Cassico Superiore Calvarino 2000 Pieropan

Mario Plazio
Ancora un Soave? Certo, perché ne ho in abbondanza in cantina (per mia fortuna) e perché mi piace osservare come cambiano nel tempo. E questo lo puoi fare solo seguendo negli anni un certo numero di produttori. Pieropan è uno di questi. E il Calvarino, non è una novità, è uno dei più grandi bianchi d’Italia. E non solo.
Questo 2000 è figlio di una annata solare, ma il carattere del Calvarino è tale che riesce ad imporsi anche nei millesimi dalla voce grossa. È sicuramente maturo ed evoluto, come deve essere. La mineralità (è uno dei pochi ad esibirla sul serio) sfuma talmente da diventare idrocarburo e conferisce una nota più lieve all’insieme. Il lato maturo si rivela nella frutta tropicale (ananas victoria) e nei sentori di macchia mediterranea. L’acidità di cui è comunque dotato è sufficiente a far rilanciare una spinta acida che fa ripartire ed amplifica le sensazioni fruttate e minerali in un gioco a rincorrersi.
Non la migliore versione, ma una brillante intepretazione di un millesimo complicato.
Due faccini e mezzo :-) :-)

16 dicembre 2010

Quelle franche vigne di enantio vecchie di cent'anni

Angelo Peretti
Ora, mettiamo che vi imbattiate in un arcaico vitigno autoctono, e in vigne vecchie dai settanta ai cento e passa anni, e tutte franche di piede, mai innestate, e che ne proviate il vino e che vi piaccia anche: come fate a non raccontarlo? E dunque eccomi a raccontare l'incontro con le vetuste vigne d'enantio che hanno Paolo, Rita e Chiara Zanoni, i tre fratelli dell'azienda agricola La Prebenda, a Brentino, nel tratto veronese della Valdadige, nel mezzo di quella che vien detta la Terra dei Forti per via di tutti i fortilizi che vi han lasciato gli austriaci e gl'italiani nei tempi dei loro conflitti otto-novecenteschi, e prima le casate feudali.
L'enantio è una lambrusca, vigna selvatica addomesticata da anni et annorum. Qualche tempo fa, riscoprendo il vitigno e rinominandolo, se ne fece un gran can can, pensando che sarebbe stato il nuovo paradigma atesino, ma il successo arriso al pinot grigio - successo che pareva imperituro, e invece si sa quanto son caduche le cose del mondo - ne ha tarpato le ali. Talché molti degli antichi impianti della lambrusca son stati estirpati per far posto, appunto, al grigio, che dava bel reddito, vendendolo ai trentini delle cantine sociali. Stava per far quella fine il vigneto degli Zanoni, se non fosse stato che i giovani di famiglia han pensato che fors'era invece meglio investirci, perché lì poteva risiedere quella diversità che permette a un'aziendina di metter fuori la testa. E hanno pensato bene, e oggi son contenti di quella scelta. Dunque, han salvato i loro begli ettari di fondovalle piantati a ceppi ormai massicci d'enantio su piede franco, con piante che hanno settanta-ottant'anni almeno e alcune che passano il secolo, ché papà Zanoni, che è quasi ottantenne, se le ricorda da sempre, e se le ricordava anche il di lui padre, e dunque vanno in là col tempo. Son coltivate a pergola trentina, e qualcheduna è gigantesca, ed è una rogna star dentro a quei limiti che sono imposti da un disciplinare pensato - qui come altrove - per le rese di vigneti giovani e per di più gestiti a filare. Il fatto è che a diradar troppo simili monumenti viticoli non solo non fai uva migliore, ma porti anzi in stress la pianta, e l'acino addirittura si spappola, ipertrofico, ipernutrito, se non trova competizione sul lunghissimo tralcio. Insomma: ci vorrebbe una deroga, ma non è mica facile convincer la burocrazia. Così Paolo cerca d'arrangiarsi come può, diradando, potando, pluri-vendemmiando, per portar l'uve giuste in cantina. E farci una riserva d'Enantio che va in commercio dopo cinque anni almeno, di cui prima due nell'acciaio eppoi due ancora nei tonneaux eppoi ancora un altro d'affinamento nel vetro.
Sinora ne è uscita di cantina la sola annata (che si ricorda torrida) del 2003, e fra un po' dovrebbe andar fuori anche il 2005. Li ho tastati entrambi, ed entrambi mi son piaciuti, e qui di seguito riporto le mie note.
Valdadige Terra dei Forti Enantio Franco di Piede 2003 La Prebenda
Granato. Naso insolito, antico, curioso, intrigante, inebriante, decadente. Sorbe, nespole di bosco, tamarindo, frutto macerato, fiori essiccati, pellame, mobile vecchio, viola, pepe. Amplissimo, complesso. Bocca succosa, tannica il giusto, rusticheggiante, pepatina. Si beve che è un piacere. E potrebbe ancora crescere col tempo, e credo crescerà, ché quella complessità che hai avvertito all'olfatto è ancora lì che deve appieno svilupparsi al palato. Affascinante.
Due liet faccini e quasi tre :-) :-)
Valdadige Terra dei Forti Enantio Riserva Franco di Piede 2005 La Prebenda
In bottiglia da due o tre mesi appena. Giovanissimo. D'un intenso, brillante rubino violaceo. Avverti ancora il legno, ma senza che sia preponderante: ha solo bisogno di sostare nel vetro. Frutta di bosco, mora soprattutto, e poi prugna, e ancora pepe e ancora viole. In bocca il tannino deve ora del tutto integrarsi, ma avverti che il vino è in divenire, ed anzi ci trovi finezza, eleganza, quasi una marcia in più del 2003. Ed ha bella freschezza, che fa presumere durata. Ed è di già in ogni caso bevibilissimo.
Due lieti faccini e quasi tre, fiducioso nell'evoluzione :-) :-)

15 dicembre 2010

Si dipinge col sentimento: la lepre, il paiolo e Chardin a Ferrara

Angelo Peretti
Chi nelle ormai imminenti giornate del tempo natalizio avesse in animo di regalarsi una giornata di relax può prendere in considerazione una visita alla cittadina di Ferrara. Perché il centro è indubbiamente carino. Perché ci si può mangiar molto bene senza svenarsi (e magari una dritta ve la do). Perché vi sono alberghi ospitali ed a prezzi accettabili (altra dritta). E soprattutto perché c'è una mostra che merita d'esser vista. Per chi ama la pittura, certo, ma anche per chi è interessato alla storia della cultura alimentare. Per chi vuol sentirsi vivo, soprattutto.
La mostra è a Palazzo Diamanti, che già per il bugnato della sua facciata merita una sosta, per l'ammirazione che destano le luci e le ombre che giocano a nascondino, vestendosi dei toni del bianco e del grigio, da un lato riflettendo e dall'altro celando le luci fredde dell'inverno. È dedicata, l'esposizione, a Jean Siméon Chardin, "il pittore del silenzio". Uno dei geni della pittura francese del Settecento. Specializzato, nella prima e nell'ultima parte del suo percorso espressivo, in un genere che all'epoca non andava di certo per la maggiore, ma che seppe nobilitare come pochi: la natura morta, soprattutto d'oggetti di quotidianità cuciniera. O meglio, la natura morta, sì - e non a caso, facendo quasi un'eccezione, l’Accademia reale di pittura e scultura di Parigi lo accolse, nel 1728, come autore specializzato "nella raffigurazione di animali e frutta" -, ma anche la pittura "di caccia". Ed è curioso leggere che determinante, a quanto narrano le fonti, sembra essere stato per l’artista l’incontro con una lepre morta che Chardin voleva dipingere 'nel modo più veritiero possibile' e con uno stile nuovo, dimenticando, come affermava lo stesso pittore, 'quello che ho visto e anche le maniera in cui questi oggetti sono stati raffigurati da altri'".
Ora, so che non è riflessione sull'arte del dipingere, ma vedendo quelle lepri e quelle pernici così crudamente ritratte, appese a un chiodo con la testa all'ingiù, accanto agli strumenti del cacciatore, e così realisticamente pronte, ora, all'attività del cuciniere, m'è venuto da pensare come sia cambiato, nel tempo, il rapporto con la caccia e con la cucina di cacciagione. Chi oggi si azzarderebbe a dipingere simili soggetti? Quali strali gli pioverebbero addosso? Com'è diversa l'attuale sensibilità di molti. Ed altro non aggiungo, ché m'infilerei in un dibattito di quelli spinosi, e non è questo l'obiettivo. Oppure no, aggiungo che è un po' con un tuffo al cuore che quei quadri "di caccia" m'han fatto tornare alla mente, per un attimo, i fagiani che catturava mio padre. Scene domenicali della mia finazia ed adolescenza, nell'autunno inoltrato, nel primo inverno. E mi son sembrati tanto lontani quei tempi, e vuol dire che sono invecchiato, e vuol dire che ho vissuto stagioni che sono appena di là dell'angolo, eppure appaiono quasi sfocate, perdute nei recessi della memoria e, forse, del sentimento. Oh, che cosa può fare, che cosa può evocare un artista con la tela e il pennello.
Ecco, sì, ora capisco la frase di Chardin, ripresa su una parete, nel bell'allestimento della mostra ferrarese: "Ci si serve dei colori, ma si dipinge con il sentimento". Ché evocano, appunto, sentimento quelle scene domestiche, quei paioli quasi dimenticati sul tavolo, quelle due uova, quei cetrioli, quelle fragoline di bosco, quelle pere. Colpiti dalla luce, che le vivifica. Sì, è vero quel che scrivono gli organizzatori: con l'opera di Chardin "la pittura diviene poesia del quotidiano, un mezzo per esaltare con sensibilità i gesti delle persone comuni". E t'accorgi che dunque il quotidiano può donare poesia, e ti possono allora sembrare meno noiose e vuote le giornate.
Andate a vederla, questa mostra. C'è tempo, ancora: è aperta fino al 30 gennaio del 2011. È organizzata in collaborazione con il Museo del Prado di Madrid, che la ospiterà dopo Ferrara, ed è curata da Pierre Rosenberg, massimo esperto di Chardin, Accademico di Francia e presidente-direttore onorario del Musée du Louvre.
Dicevo che avrei dato un paio di dritte per stare a Ferrara. Per il desinare, il ristorante Cusina e Butega (parecchi tavoli, sempre pieni, luogo informale, servizio gentilissimo, una sfilza di prodotti regionali, grandi salumi, bei piatti - consiglio i cappelletti in brodo di tacchino - e bella scelta di vini, qualcheduno anche a bicchiere). Per il soggiorno, l'hotel Ferrara, proprio di fronte al castello.

14 dicembre 2010

Cà Lojera: i bianchi che onorano la Lugana e vincono la sfida del tempo

Angelo Peretti
Lo dico e lo scrivo da anni: il Lugana è un bianco che si presta ad essere invecchiato. Anzi, a volte migliora coll'affinamento. In teoria. Perché in pratica trovar Lugana invecchiati è un'impresa: venduti e bevuti entro l'estate, e meglio così per le casse dei luganisti. Ora, è però vero che la regola è talvolta confermata dall'eccezione. E in terra di Lugana l'eccezione c'è, ché chi volesse cavarsi lo sfizio di bere Lugana di qualche anno una chance ce l'ha: Cà Lojera. L'azienda di Ambra e Franco Tiraboschi è, per me, quella che più e meglio interpreta l'anima del trebbiano di Lugana coltivato sulle argille della Lugana. Senza tante smancerie modaiole.
Dei Lugana di Cà Lojera n'ho potute stappare in serie varie bottiglie degli anni passati. E qui ne rendo conto, così come rendo conto delle belle sorprese (sorprese? ma no, era esattamente quel che mi aspettavo) che ho trovato in bottiglia. Aggiungo solo che ho provato tre annata del Lugana Vigna Silva (vino che non si fa più ed era affinato in legno grande e medio), otto del Lugana Superiore (prima legno piccolo, ora legno grande) e quattro della Riserva del Lupo (tutto o soprattutto acciaio, a seconda dell'anno). Sintetizzo per chi non vuol leggere tutto: dei bei Lugana, che reggono il tempo, con qualche strepitoso fuoriclasse.
Lugana Vigna Silva 1998. Colore giallo dorato, oro antico, con qualche venatura verde. Naso tropicaleggiante, lievi toni di idrocarburi. Bocca polputa, grassa, ancora vibrante di acidità, lievemente salina, salmastra, leggermente tannica nel finale. Buona acidità. Secchissimo. Un faccino e quasi due :-)
Lugana Vigna Silva 1999. Giallo dorato che sfuma nel verde. Al naso è quasi chiuso, su toni di fieno e leggerissime note tropicali e ricordi minerali. Bocca freschissima, agrumata, con l'ananas in rilievo. Salino. Resinoso. Il finale è quello che gli conoscevo: legno di pino e resina. Meno ampio interessante olfattivamente del '98, ma molto più vibrante in bocca. Due faccini :-) :-)
Lugana Vigna Silva 2000. Colore dorato. Naso evoluto. Bocca col frutto polposo, ma un po' cotto. Niente faccino.
Lugana Superiore 1999. Leggermente dorato. Naso evoluto, ma trovi anche agrumi maturi, con vene di arancia rossa, bergamotto, pompelmo. Cotognata. Accenni di dattero. Bocca fresca, frutto croccante, pesca non ancora matura, tracce di tè. Secchissimo. Vino rusticheggiante, onesto. Due faccini :-) :-)
Lugana Superiore 2000. Giallo dorato antico. Al naso caffè, orzo, cicoria tostata. In bocca il legno si avverte eccome (sembra una Chardonnay americano di quegli anni), ma c'è bella freschezza. Niente faccino, per i miei gusti.
Lugana Superiore 2001. Giallo brillante. Al naso camomilla, fiori di campo, clorofilla, e poi pera. Giovane ed elegante, finissimo. In bocca freschezza salina, vena lievemente minerale. In forma smagliante. Per nulla presente il legno, anzi! Secco. Ed ha ancora tanta vita davanti a sé. Un autentico gioiello luganista. Tre faccini :-) :-) :-)
Lugana Superiore 2002. Giallo brillante. Naso spettacolare per purezza del frutto: pera, com'è e deve essere nel trebbiano di Lugana. Tracce di fieno e di clorofilla. Fiori essiccati. In bocca è polposo di frutta gialla. Acceso dal lato acido. Minerale (gli idrocarburi). Si beve che è un piacere ed ha dalla sua ancora un potenziale d'invecchiamento. Due faccini e quasi tre :-) :-)
Lugana Superiore 2003. Colore giallo-verde. Naso agrumato, lievemente resinoso. Bocca grassa, matura, di frutta gialla. Eppure c'è freschezza, che conferisce un certo slancio alla polpa. E c'è qualche traccia minerale. Il calore si avverte parecchio. Un faccino e quasi due :-)
Lugana Superiore 2004. Colore giallo brillante. Naso sottile, elegante. Finissimo. Floreale. Pera. Clorofilla. Petalo di rosa. Mai sopra le righe. Che naso! Eppoi bocca densa, croccante, fruttatissima. Fresco e polputo. Leggera memoria di rovere. Nonostante la grassezza ha una bella beva, e può migliorare ancora col tempo. Due faccini :-) :-)
Lugana Superiore 2005. Bottiglia infelice per via del tappo, peccato.
Lugana Superiore 2006. Naso floreale. Lievi memorie di idrocarburi. Tè verde. Bocca polposa e freschissima e quasi tannica. Vene agrumate e tracce di fiori essiccati. Asciuttissimo. Bella lunghezza sui toni di pera. Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Lugana Riserva del Lupo 2003. Naso fruttato, agrumato. Pesca sciroppata, ananas. Fiori secchi. Fieno. Idrocarburi: gasolio. Balsamico. Clorofilla. In bocca è pulsante, vibrante. Nervosa acidità. Finale tannico, asciuttissimo, che lascia spazio al kerosene. Grande forza, carattere incredibile. Grande bianco delle argille. Uno dei più grandi Lugana di sempre. Tre faccini :-) :-) :-)
Lugana del Lupo 2004. Ananas e agrumi. Fiori bianchi, gelsomino. Idrocarburi. Bocca fresca, snella, slanciata, agrumata. Polposa, però, rispetto al 2003, e un che meno rustica: più alla ricerca della polpa e della morbidezza del frutto, peraltro lunghissimo e persistente. E la traccia minerale è presente. Due lieti faccini :-) :-)
Lugana del Lupo 2005. Pesca gialla sciroppata, ananas, frutta tropicale. Bocca tesa, tannica, freschissima. Vene minerali già presenti. Meno compiuto del 2004, ma ha tutto il tempo per rifarsi. Due faccini :-) :-)
Lugana del Lupo 2006. Naso quasi aromatico, a tratti sauvignoneggiante, e poi tabacco da pipa. La bocca è perfettamente in sintonia. Ha polpa e succosità e un che della morbidezza dei Lugana "new stile", ma è tenuto in bell'equilibrio da una freschezza salina che ti avvince e da un maschio finale tannico. Due faccini e quasi tre :-) :-)

13 dicembre 2010

Sul contributo dell'oseléta ai rossi della Valpolicella

Angelo Peretti
Sandro Boscaini è uno che il vino veronese lo sa rappresentare da star in giro per il mondo, con una capacità di stare sui media che non ha moltissimi paragoni in terra italica, fatti salvi il divo Angelo Gaia e pochi altri. Il suo brand è quello della Masi, azienda di famiglia. Capiamoci: quando parliamo della Masi, non stiamo mica dicendo di un'azienda piccina picciò, bensì di uno dei maggiori gruppi vinicoli italiani, con un fatturato tra i 50 e i 60 milioni, mica scherzi. E parliamo altresì di quell'azienda che aveva registrato - e, permettetelo, lanciato . il marchio Ripasso, ceduto poi, ma solo dopo una lunghissima e laboriosa querelle, alla Camera di commercio veronese. Insomma: gente che sa il fatto suo. Al punto che adesso che non hanno più il monopolio del Ripasso e che anzi il nome (e lo stile) è un po' abusato, si sono inventati un altro marchio, tutto loro, che è quello rappresentato da logo "'Appaxximento. Masi Expertise" (appaxximento con la doppia x), "con cui Masi Agricola - lo leggo in un comunicato stampa diffuso in occasione dell'ultimo Vinitaly - intende certificare la sua Expertise nell'Appassimento nel XXI secolo, ovvero la sua capacità di interpretare con modernità e originalità questa tecnica".
Ora, gli è che il Sandro Boscaini, vuoi un po' per passione autentica, vuoi magari anche per un pelino di spirito di marketing, ha all'attivo anche un altro primato: quello della riscoperta e del rilancio d'un vitigno valpolicellese ch'era stato obliato, ossia l'oseléta. Che adesso piantano in tanti, e che mettono ad appassire per ampliare l'articolazione aromatica dell'Amarone. Ma che assai probabilmente senza Sandro Boscaini e la Masi sarebbe ancora tra i ricordi d'un lontano passato contadino. Sia dato a Sandro quel ch'è di sandro, dunque.
Il figlio di Sandro, Raffaele, che coordina il gruppo tecnico della Masi (il team è quello nella foto: Raffaele è quello al centro, seduto, con la t-shirt bianca, mentre Sandro è in giacca scura, alle sue spalle), m'ha invitato in azienda qualche tempo fa proprio per far degli assaggi in tema d'oseléta. Nel nome d'un interrogativo: può davvero questo vitigno offrire qualcosa di più al panorama enologico valpolicellese? Ed è un interrogativo senza dubbio intrigante. Anche se è mica facile gestirla, in vigna e in cantina, 'st'oseléta. Che rende poco e non matura mai: devi aspettarla a lungo e a lungo, come m'ha ribadito Raffaele Boscaini. Ed ha, questo vitigno autoctono e antico, carattere grintoso, con quel tannino quasi ruvido e comunque nerboruto e quell'acidità sopra le righe e quella pepatura.
Per cercare di dargli almeno un'abbozzo di risposta all'interrogativo, abbiamo tastato assieme tre annate del Toar, un rosso veronese a indicazione geografica, che di fatto mette insieme i vitigni caratteristici della Valpolicella, ossia corvina e rondinella, con l'oseléta, appunto. E qui di seguito riporto le mie note d'assagio, non senza prima aver cercato di dare la mia risposta. E la mia risposta è che sì, l'oseléta può essere davvero interessante complemento alla corvina. L'una, la corvina appunto, ha il frutto rotondo (la ciliegia) e la spezia elegante (il chiodo di garofano, la cannella). L'altra, l'oseléta, ha appunto la freschezza e il tannino, ma anche un che di pepe che non guasta a dare una qualche grintosità al rosso. Ed a garantire, mi par proprio di capire, anche maggioor longevità, supportando la succosa beva della corvina. Dunque, se tanto mi dà tanto, oseléta sia.
Di seguito i tre vini provati.
Toar 1995
Quella del '95 è stata la prima annata nella quale l'oseléta è entrata nella composizione del Toar. Ce n'è entrato un 10-15% all'incirca, con la corvina all'80 e la rondinella poca poca. Appena versato il vino appare, al naso, evoluto, e ti vien da pensare che poco possa emergere da quella vena ossidativa. Poi però alla bocca subito ti colpiscono la freschezza e il tannino saldo, e capisci che va atteso nel bicchiere, e infatti eccolo aprirsi anche olfattivamente a mano a mano, mettendo in luce un bel fiore appassito, che s'amplia col passare dei minuti. In bocca c'è frutto maturo, e piccolo frutto sotto spirito, eppoi memoria terrosa.
Due lieti faccini :-) :-)
Toar 1999
Che strano naso che ha da subito: tra il metallico e il minerale, e dunque chiuso assai. Epperò di già sotto avverti che c'è il frutto rosso, che cerca di farsi largo, ed è frutto valpolicellista, con quella ciliegia che trovi tratteggiata. La bocca da subito è fresca d'acidità e nervosa e scattante. Il frutto, al palato, è morbido, e c'è grassezza, epperò anche beva. Ed ecco il pepe e la terra rossa, che rammenta quella del vino di quattr'anni prima. Vino di carattere, che certo non dimostra d'avere dieci anni e più, e che ha ancora parecchio da dire negli anni a venire, ritengo.
Due lieti faccini :-) :-)
Toar 2005
Il cambio di stile è avvenuto, per il Toar, con la vendemmia del 2000, quando l'oseléta è salita al 20% ed ha accompagnato la corvina senza più la rondinella. Questo 2005 è rosso giovanissimo. All'olfatto è fruttatissimo (la confettura di ciliegia emerge, netta): i tratti distintivi della corvina sono in rilievo, ed è sua anche quella leggerissima speziatura.che avverti sullo sfondo. La bocca è tesa. Il tannino è saldo, e deve ancora fondersi in toto col frutto. Eppure, ecco, la tannicità non prevarica il carattere fruttato. E c'è anzi di già un qualche equilibrio, che pare destinato a crescere col tempo. Ed ecco farsi avanti il pepe e un che di terra.
Due lieti faccini :-) :-)

12 dicembre 2010

Il padre che versa il vino ai figli

Altro grande rivelatore di intese è il vino. Sono un sostenitore di un consumo moderato di vino per la protezione della salute (il resveratrolo contenuto nel vino ha un effetto protettivo nei confronti di alcuni tumori) e anche per il suo valore simbolico. Il padre che versa il vino ai figli è una celebrazione dei legami familiari e dei valori che si tramandano, e un atto di condivisione affettuosa insostituibile.
Umberto Veronesi, "Dell'amore e del dolore delle donne", Einaudi 2010

Le Contarine 2009 Il Mottolo

Angelo Peretti
Recensendolo ai primi d'ottobre su quest'InternetGourmet, Mario Plazio attribuiva alle Contarine del 2009, bianco dei Colli Euganei a base di moscato bianco e giallo, più un quid di garganega, due suoi personali faccini abbondanti. Assaggiandolo io ora, a distanza di tempo, confermo la bella impressione e mi spingo fino a tributargli tre dei miei soggettivissimi faccini, ché è un bianco davvero avvincente e seducente.
Teso, secco. Bella vena aromatica. Perfino mentuccia, anice. Piacevolissimo. Si beve con soddisfazione. Peccato se ne facciano solo duemila bottiglie in tutto.
Sissignori, son d'accordo con Mario: non si finisce mai d'imparare, ed è bello imparare che esistono vini così.
Confermo: tre lieti faccini :-) :-) :-)

11 dicembre 2010

La certificazione dei vini? Rendiamola Siquria

Angelo Peretti
Il mondo del vino è cambiato. Da un anno e mezzo, quasi. In meglio o in peggio, non lo so. So che è cambiato. Anche burocraticamente, organizzativamente. I controlli sulla produzione non li fa più il consorzio di tutela. Il compito, dall'agosto del 2009, l'ha assunto o una società terza di certificazione, o una camera di commercio.
Un numero altissimo di consorzi e di doc s'è affidato a Valore Italia, azienda nata dalla partnership tra Federdoc, che detiene il 51% delle azioni, e l'ente certificatore Csqa. A Verona, si sono affidati a Valore Italia il Custoza e il Lugana. Le altre denominazioni scaligere, più i vicentini, hanno scelto invece d'affidarsi a Siquria (l'acronimo sta per Società italiana per la qualità e la rintracciabilità degli alimenti) nata nel 2009 da un progetto condiviso fra CeVive (Centro Vini Veneti), che ha come scopo sociale quello della valorizzazione delle denominazioni di origine venete, e la società di certificazione Csi. Con un decreto ministeriale del primo luglio del 2009, Siquria ha ottenuto il riconoscimento pubblico ad esercitare l'attività di certificazione e controllo nel settore dei vini dop (dovremo ricordarcelo: per gli europei il vino a denominazione è dop, mica doc o docg) e igp (idem al posto di igt). Dunque, è Siquria a controllare e certificare ex lege le denominazioni dell'Amarone, dell'Arcole, del Bardolino, del Breganze, dei Colli Berici, del Gambellara, del Lessini Durello, del Merlara, del Recioto della Valpolicella, del Recioto di Soave, del Soave, del Valpolicella e della doc Vicenza.
Detto anche che alla guida di Siquria è stato chiamato Guido Giacometti, un giovane per il quale nutro notevole stima, segnalo che sul sito dell'ente certificatore c'è una curiosa, ma anche utile sezione da consultare: quella dei "Veri Falsi". Dove s'espongono i casi dei vini "taroccati" scoperti - e sanzionati - grazie all'azione di Siquaria.
Ebbene, ci si trovano i casi - didatticamente piuttosto interessanti - di quattro falsi Amaroni. Tutti presentati con tanto di foto della bottiglia incriminata.
Il primo è un fantomatico Amarone proveniente da mano sconosciuta. Viene descritto così: "Prodotto anonimo, totalmente contraffatto. Si noti la stravaganza delle diciture 'Valpolicella dell'Amarone' e 'Vendemmia DOC'. In etichetta è falsamente indicata la ragione sociale di un imbottigliatore esistente (Cantina Sociale della Valpolicella) ma estraneo alla vicenda".
Secondo caso: il falso Amarone della Valpolicella Cà da Pietro. Descrizione: "Prodotto totalmente contraffatto. L'azienda 'Cà da Pietro Srl' di Fumane (VR) è inesistente, come pure il codice ICRF VR/618".
Terzo vino tarocco: l'apocrifo Amarone della Valpolicella Castello Venezi, definito come "Prodotto contraffatto nel contenuto" Vino che, tra l'altro, si trova descritto on line da CellaTracker, come si può vedere cliccando qui. Venduto in danimarca a 149,95 corone danesi (una ventina di euro), come indica il sito TeltLiv.
Quarto campione della categoria: il sedicente Amarone della Valpolicella Santa Raffaella, che viene descritto anch'esso come "prodotto contraffatto nel contenuto". Vino di cui si ha contezza sul sito di Snooth, segnalato in vendita (ma ora non disponibile) alla cifra non bassissima di 26,63 dollari, e che si trova segnalato anche su siti danesi, come questo di TeltLiv (a 89,95 corone danesi, appena una dozzina di euro).
Gli ultimi due falsi Amaroni, tra l'altro, mi sembrano quelli coinvolti dai sequestri scaturiti dall'inchiesta Amarone Ter.
Bene, dunque, all'azione di Siquria: continui così, infittendo i controlli e dando contezza dei risultati. Una buona maniera per ridare fiato e fiducia ad un mondo, quello del vino, che sembra averne proprio bisogno.