31 ottobre 2009

Elogio del vinino #2 - Appunti per una estetica del vinino

Angelo Peretti
Come espresso nella mia prima formulazione dell'Elogio del vinino, essenza stessa del vinino è la piacevolezza di beva, che per la propria caratteristica di soggettività non è quantificabile mediante scale empiriche universali, e men che meno con le rigide classificazioni centesimali in uso negli attuali sistemi di valutazione ufficiali del settore vitivinicolo o nei criteri di selezione diffusi presso ampia parte della critica internazionale.
Peraltro, essendo la soggettività ad ampio spettro, poiché variabile di persona in persona, si ritiene opportuno delineare alcuni elementi costitutivi essenziali della “piacevolezza del vinino”, senza con questo escludere che vini dotati di diverse connotazioni possano apportare pari, se non superiore, piacere: tale diversa piacevolezza, peraltro, deriva da elementi e fattori che non si configurano nella definizione di vinino.
E dunque eccomi ad un ulteriore step nella definizione del vinino. Ovviamente da discutere.
Appunti per una estetica del vinino
Pur gradevole da bere fuori pasto, il vinino ha come caratteristica saliente l’estrema abbinabilità con il cibo, grazie alle proprie doti di elevata versatilità negli accostamenti gastronomici.
Essendo improntato all’immediatezza di beva, la gradazione alcolica del vinino non supera, di norma, il 12,5%.
Il quadro organolettico del vinino si rifà ai caratteri delle uve e del territorio di origine: viene pertanto ritenuto essenziale che il vinino trasmetta le sensazioni varietali tipiche dei vitigni di origine, in termini di apporti fruttati o vegetali, nonché le percezioni salienti del terroir d’origine in termini di sapidità, freschezza, mineralità, speziatura.
Essendo il carattere varietale originario uno dei canoni elettivi del vinino, di norma viene escluso l’utilizzo di qualunque tecnica di appassimento delle uve, nonché il ricorso a surmaturazioni che inducano eccessiva alcolicità o dolcezza.
Normalmente, allo scopo di non alterare il quadro organolettico riveniente dalle uve e dal territorio di origine, tutte le fasi di vinificazione del vinino avvengono in contenitori di acciaio o di cemento e parimenti nelle stesse, o nel vetro, avviene l’affinamento, escludendosi invece la botte – di qualsiasi dimensione – qualora il suo eventuale utilizzo apporti tracce evidenti sotto il profilo organolettico.
Per rispondere all’esigenza dell’immediatezza di beva, il vinino viene normalmente posto in commercio nell’anno successivo alla vendemmia delle uve da cui trae origine; nel caso di più protratti affinamenti, in termini generali sono in ogni caso da escludersi fra i caratteri organolettici del vinino le sensazioni terziarie derivanti dal prolungato affinamento o dall’invecchiamento.
Per meglio individuare la corrispondenza ai caratteri essenziali del terroir d’origine, di norma il vinino viene prodotto nell’ambito delle previsioni delle denominazioni di origine o delle indicazioni protette, escludendosi in ogni caso i vini derivanti da uve provenienti da una pluralità di aree geografiche oppure, in linea generale, da vitigni non caratteristici dei territori di origine (ancorché non necessariamente autoctoni); fanno eccezione i vini che, a causa di lacune o di restrizioni normative, vengano ottenuti da vitigni storici o comunque da lungo tempo acclimatati nella zona di produzione, ma non ricompresi nelle varietà normate dai disciplinari dello specifico territorio, ovvero ricompresi solo in termini di apporto parziale.

30 ottobre 2009

Elogio del vinino: altri riscontri

Angelo Peretti
L'Elogio del vinino ha raccolto altri commenti sulla rete. Crescono i sostenitori, si fa avanti qualche oppositore.
Nella prima categoria, quella dei fan, c'è Maria Grazia Melegari, che sul suo wine blog Soavemente si domanda (addirittura): "Con i 'vinini' si apre una nuova stagione (del gusto e della critica)?" Scrive Maria Grazia: "La domanda posta nel titolo sorge spontanea, alla lettura del bell "Elogio del vinino" scritto da Angelo Peretti, ovvero del Manifesto per la piacevolezza dei vini da bere. Dell' esigenza di riabilitare - o meglio - nobilitare quei vini che piccoli non sono, ma che offrono al consumatore la soddisfazione della beva molti sentivano davvero il bisogno. Dopo anni di disquisizioni, di degustazioni, di guide affascinate da vini superconcentrati, eccessivamente alcolici e muscolosi, perchè non rivolgere il pensiero e l'azione a vini piacevoli, serenamente godibili e bevibili? Quelli, per intenderci, che si bevono volentieri a tavola al punto che la bottiglia si svuota rapidamente. Le premesse ci sono tutte: delle guide e delle degustazioni - spesso assai autocelebrative - animate da vini monumento e spesso da celebri winemaker ci si è ormai stancati; è in crisi anche il concetto di classifiche e graduatorie basate su punteggi. La logica premiale delle guide ha finito per far credere importante e a volte sostaziale far vini d'impatto, muscolosi, alcolici. (Ho assaggiato un vino premiato di recente: era un rosso di questo tipo e l'aveva preceduto un moscato bianco di ben 15 gradi alcol segno eviidente di una logica produttiva ormai centrata sul "vino momumento"). Come fai a berti un vino così a tavola ? Davvero non se ne poteva, non se ne può più".
Di parere diverso è Roberto Gatti, che sul suo WineTaste ci manda invece a dire che non concorda con la definizione di vinino. "A mio avviso - scrive - non esistono i 'vinini', non mi piace il termine, perchè potrebbe suonare riduttivo della fatica del vignaiolo e di tutto quello che vi è a monte di una bottiglia di vino. Ritengo invece che esistano i vini buoni ed i vini mediocri, i vini eccellenti ed i vini ottimi, i vini difettati ed i vini integri ecc. Qualche tempo fà (l'accento è sull'originale - ndr) avevo pensato ad una rubrica di nuova ideazione, che avevo suggerito ad un titolare di un sito internet, dal titolo: 'Vini da tutti i giorni' che forse è il sinonimo della definizione simpatica ma non appropriata di 'vinini'." Poi, prende in esame, contestandone vari passaggi, i contenuti dell'Elogio del vinino. E concludendo, ribadisce: "Il termine 'vinino' a me non piace, perché lo trovo riduttivo del termine vino, e meglio allora sarebbe chiamare questi come: vini facili da bere tutti i giorni". Ora, come lui non è d'accordo con me, io non lo sono con lui: quel "da bere tutti i giorni" suona come una fastidiosa prescrizione medica, e "facile" lo si diceva di certe donnine d'ampia disponibilità. Mmh, suona male, male assi.

Romangia Rosso Tenores 2005 Tenute Dettori

Mauro Pasquali
Ad un amico sardo ho detto che più conosco i sardi, più amo la Sardegna. E i suoi vini. Vini non facili, proprio come i sardi. E, come i sardi, i vini di Sardegna sanno darti il meglio di sé dopo un po che li conosci, quasi volessero studiarti e valutarti, prima di aprirsi.
Ho incontrato Paolo Dettori, padre di Alessandro, su un trattore, al rientro dalla vendemmia di uno degli ultimi vigneti. E questo già mi ha predisposto favorevolmente, in un mondo dove, spesso, i produttori di vino sono più in giacca e cravatta anziché con una forbice per potare in mano. Mi ha dedicato quasi due ore del suo tempo, rubandole alla pausa pranzo, ché poi avrebbe dovuto tornare a vendemmiare. E la vendemmia, si sa, non attende.
La cantina è un inno alla tradizione: solo vasche in cemento. Dieci barriques dieci che denunciavano dal colore del legno l'età: almeno una decina d'anni. E che Paolo usa per conservare il vino che avanza quando imbottiglia una vasca di vino, anziché utilizzare cinque o sei damigiane.
In campagna l'allevamento è ad alberello, come tradizione sarda vuole. Ma, soprattutto, in campagna non vi è alcun intervento chimico, così come in cantina.
Il vino non è né filtrato, né chiarificato e la solforosa aggiunta è il minimo indispensabile per la conservazione.
L'uva è cannonau al 100% e del cannonau conserva il colore, quello vero. Se vi è capitato di berne altri, potreste rimanere sconcertati: questo Tenores racchiude in sé varie sfumature di rosso, dal rubino al granato. Ma, soprattutto è trasparente, quasi un nebbiolo all'apparenza, colore tipico del cannonau di Sennori.
Al naso si è subito avvolti da una grande complessità, con intensi sentori di frutto maturo, di spezie, di terra, polvere quasi.
In bocca entra caldo e morbido e senza quella alcolicità che ti aspetteresti da un vino che dichiara 16 gradi in etichetta. Grandissima sapidità e una sensazione quasi di salmastro fanno da sfondo al frutto maturo, alle note balsamiche e di macchia mediterranea.
Alla fine la bocca rimane bella pulita, con una grandissima lunghezza gustativa.
Un grande vino che fai fatica ad inquadrare tanto evolve nel bicchiere ma che, bicchiere dopo bicchiere, finisce velocemente, tanto è grande la beva.
Tre beati faccini :-) :-) :-)

29 ottobre 2009

In tavola mettiamoci i colori

Angelo Peretti
Leggo su Repubblica che "la dieta più salutare è come un quadro di Mondrian". E cioè che è bene che sulla tavola ci mettiamo prodotti agroalimentari di diversa colorazione, ché il colore è indice dei contenuti salutistici e nutrizionali. Dunque, avanti con "il beige dei cereali e il marrone delle carni", lasciando "campo libero alle tonalità di frutti e verdure maturati sotto al sole".
Viene poi detto: "È sempre più chiaro agli occhi della scienza, infatti, che il motivo per cui i piatti di origine vegetale fanno bene alla salute sta proprio nel loro essere colorati".
Credo sia un buon suggerimento, quello della dieta a colori: un giorno un vino rosso, un altro un rosé, il terzo un bianco...

28 ottobre 2009

Elogio del vinino: i primi riscontri

Angelo Peretti
La pubblicazione del mio Elogio del vinino ha ottenuto, oltre al consenso di vari giornalisti e blogger, anche alcuni riscontri, che reputo interessanti, nei post di alcuni wine blog, che vorrei riproporre all'attenzione dei lettori di InternetGourmet.
Sul suo blog Stefano il Nero (è da una sua provocazione che ha preso avvio l'idea del Manifesto per la piacevolezza dei vini da bere), dando notizia dell'uscita dell'Elogio, scrive: "Io credo che fusion classificazione-manifesto possa diventare qualche cosa di più: qui c’è una cosa partita con il piede giusto, ci si mettesse sul serio nel sostenerla si potrebbe non solo dare una piccola scossa al www (wonderful wine world) ma anche dare il via a qualcosa di 'nuovo e tradizionale'. Il mondo blog potrebbe dimostrare di saper 'fare', perchè questi spunti sono meritevoli di un palco da dove parlarne davvero e pubblicamente: a tanti, a tutti, senza scomodare nessuno a rammaricarsene ma solo invitando molti a vantarsene. Insomma questa cosa del vinino può dare un contributo a tutto il mondo del vino italiano se non viene ributtata troppo in fretta nel cassetto, c’è un mercato che aspetta messaggi positivi".
Giampiero Nadali, alias Aristide, che già prima era entrato nell'argomento del vinino, commenta così: "Nè Angelo, nè sicuramente Aristide, vogliono creare un confronto guelfi-ghibellini tra queste due categorizzazioni: a noi piacciono pure i 'vinoni', come a tanti altri di voi, è solo che dei 'vinini' si parla sempre troppo poco. E ora abbiamo anche il 'Manifesto per la piacevolezza dei vini da bere', messo a punto proprio da Angelo Peretti, e pubblicato sul suo blog. In poche righe c'è molto più che una semplice scheda segnaletica per 'vinini'."
Elisabetta Tosi, su VinoPigro, aggiunge: "'Vinino', lungi da essere un diminutivo sminuente, nella nuova dialettica enoica sta per 'vino godibile, fresco-floreale-fruttato, non impegnativo ma non per questo sempliciotto' (la definizione è mia)".
Segnalo poi che qualche tempo fa, sul tema del vinino era intervenuto anche Filippo Ronco sul suo TigullioVino, scrivendo, tra l'altro, che il termine può "indicare vini dal prezzo particolarmente favorevole, dalla beva non troppo impegnativa per tenore alcolico, con forte attitudine a svolgere il prezioso ruolo di "vino quotidiano" e, aggiungerei, con spiccata vocazione a riempire e conseguentemente svuotare le cantine a velocità disarmante. L'intento di portare all'attenzione del lettore qualcosa di estremamente concreto e immediatamente utilizzabile, traducibile in acquisto di reale soddisfazione è ricorrente e risponde all'umana esigenza di chi si occupa di cose di vino di tornare, di tanto in tanto, alla ragione vera del chiacchiericcio quotidiano: sedersi a tavola, stappare e godersi un bel vino in compagnia senza troppe menate".
Parla dell'Elogio e del vinino anche Alberto Lupini, direttore di Italia a Tavola, che scrive: "La piacevolezza in sé non è sempre l’elemento centrale dei giudizi delle Guide. Di fronte a tante esaltazioni di vini importanti, ci piace segnalare l’iniziativa dell’amico Angelo Peretti che su InternetGourmet ha lanciato la definizione del 'vinino', ossia del vino 'che si beve', in contrapposizione al vinone muscoloso e palestrato scaturito dal pensiero enologico del nuovo mondo - e poi entrato anche nella pratica enologica europea - che più che berlo, si degusta. Senza per questo voler creare una contrapposizione, tutt’altro, ci piace rinviare al manifesto del 'vinino' dove si ricorda che 'nell’epoca del dominio globale dei vini concentrati, tannici e alcolici, rivendichiamo il diritto alla piacevolezza dei vini da bere. All’estetica autoreferenziale della degustazione anteponiamo l’immediatezza appagante della freschezza fruttata e della sapidità. Alla razionalistica dittatura della valutazione centesimale opponiamo l’umanistica vocazione alla convivialità del vino, simbolo della condivisione e della fraternità'. Anche questo potrebbe essere un elemento di riflessione per restituire alle Guide un compito importante per valorizzazione un prodotto di straordinaria grandezza come il vino italiano".
Arriveranno altri contributi?
Io intanto ci lavoro sopra ancora un po'. E qualcosa farò. Ulteriormente. Nel segno del vinino.

Barbera d'Alba Ornati 2007 Parusso

Angelo Peretti
In genere faccio un po' fatica a stappare bottiglie con 14 gradi di alcol (figurarsi quelle che sono oltre). Ho una qualche reticenza ad affrontare tutta quell'alcolicità, che molto spesso è sinonimo di frutto iperconcentrato, di tannicità sopra le righe, di fastidiosa muscolosità. Così questa Barbera d'Alba, l'Ornati di Parusso, annata 2007, l'ho a lungo lasciata sullo scaffale, in cantina, mai decidendomi d'aprirla. Finché mi son fatto forza, e ne sono stato, devo proprio ammetterlo, parecchio contento.
Perché, sì, l'alcol c'è - è dichiarato in etichetta -, ma è così ben integrato con un frutto piacevolissimo e succoso, che quasi non te n'accorgi.
Ci sono anche, all'olfatto e al gusto, vene di liquirizia e di spezia dolce. Ma soprattutto sono la mora, la ciliegia, direi pure il ribes ad avvolgere. E c'è buon tannino, ma per nulla aggressivo. E una compattezza d'assieme di tutto rispetto.
Insomma, finisci per versartene subito un altro bicchiere.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

27 ottobre 2009

Breg 1998 Josko Gravner

Mario Plazio
Uno di quei vini che ti restano nella memoria. Che si amano o si odiano ma non passano inosservati. Gravner ha fatto e farà discutere, chiede disponibilità e apertura mentale. In cambio regala emozioni.
Quanti vini tutti uguali, tutti perfettini e politicamente corretti abbiamo bevuto in questi anni? Certo nessuno rimpiange i vini “bianco carta”, innocui e volgari dei tempi della Milano da Bere. Nemmeno va fatta l’apologia dei vini naturali a tutti i costi, non bisogna farsi necessariamente del male per bere bene.
Gravner è un maestro riuscendo nella magia di mettere tutti d’accordo. I suoi vini sono circondati da un’aura di mistero, emanano un fascino del tutto particolare.
Così è il Breg 1998, avvolgente, speziato e agrumato, odora di zenzero e di terra. Stupisce quasi per l’estrema pulizia e la compostezza.
Col passare dei minuti aumenta di complessità in modo impressionante. In bocca è sferico senza per questo aver bisogno di potenza o alcol. Forse con una maggiore grinta acida potrebbe andare ancora più lontano, ma sicuramente stiamo esagerando e perdendo di vista l’insieme, la coerenza di un vino dalla beva semplice, ma per niente semplice.
Grazie Josko.
Tre faccini :-) :-) :-)

26 ottobre 2009

Elogio del vinino #1

Angelo Peretti
Sulla rete c'è chi, bontà sua, mi riconosce l'effimera gloria dell'aver creato su queste pagine la definizione del vinino, ossia del vino "che si beve", in contrapposizione al vinone muscoloso e palestrato scaturito dal pensiero enologico del nuovo mondo - e poi entrato anche nella pratica enologica europea - che più che berlo, si degusta. Del vinino ne hanno parlato in particolare tre blog: prima Stefano il Nero e poi Aristide e poi TigullioVino.
E allora, un po' per gioco, e un po' anche per serietà, ecco che mi son messo a scrivere una sorta di proclama filosofeggiante del vinino. Sul quale penso che ancora approfondirò, per cui non ne escludo nuove versioni. Magari col contributo anche dei lettori di InternetGourmet (oppure di quelli di Facebook, sul quale rilancio i miei post).
Intanto ecco la prima interpretazione. Che ho titolato in maniera certo pomposa, ma che serve a render l'idea.
Elogio del vinino
ovvero
Manifesto per la piacevolezza dei vini da bere
Nell’epoca del dominio globale dei vini concentrati, tannici ed alcolici, rivendichiamo il diritto alla piacevolezza dei vini da bere.
All’estetica autoreferenziale della degustazione anteponiamo l’immediatezza appagante della freschezza fruttata e della sapidità.
Alla razionalistica dittatura della valutazione centesimale opponiamo l’umanistica vocazione alla convivialità del vino, simbolo della condivisione e della fraternità.
Rifiutiamo l’omologante gusto internazionale nel quale è smarrita ogni specificità, sostenendo l’unicità del vino che interpreta il sapere gastronomico d’un territorio.
Rifuggiamo dall’ossessiva ricerca della perfezione enologica, preferendo il vino nel quale si sostanzi l’irripetibile comunione dell’ambiente naturale e dell’ambiente umano.
Promuoviamo l’onesto piacere del vino come risposta all’incultura dell’eccesso ed alle opprimenti teorizzazioni del dilagante neoproibizionismo.

25 ottobre 2009

Quando il pregiudizio viene smentito dalla bottiglia svuotata

Angelo Peretti
Ci sono vini che mi mandano in crisi, perché mettono in dubbio ogni mia convinzione sul tema del "buono". M'è capitato con un Bordeaux del 2006, quello di Chateau Coulonge. Mica un fuoriclasse bordolese da invecchiamento. Nossignori: un vino da tavola quotidiana, anche nel prezzo. Comprato su Internet, su Vinatis, un ottimo sito di commercio elettronico di vini francesi, a un prezzo intorno ai 6 euro, mi par di ricordare. Nobilitato in etichetta dalla dicitura "elevé en fûts de chêne", ossia "affinato in botti di rovere", che per i miei gusti personalissimi non corrisponde affatto a una nobilitazione.
L'ho acquistato per curiosità: prezzo piccolo, medaglia d'oro ai concorsi "agricoli" di Parigi e di Macon nel 2008 (e quelli son concorsi seri, almeno per la mia esperienza d'acquirente dei vini che vi vengono medagliati: sinora, mai deluso dalle medaglie d'oro). Perché non provare a tastarlo, con simili connotazioni?
Stappato, subito subito mi son detto: "Tzè, un francese furbetto". Perché, insomma, quel fruttino di bosco così in rilievo e quella sua lieve vanigliatura boisée parevano ruffianetti.
Il fatto è che quand'incontro, appunto, rossi un po' ruffiani, ne bevo poi un sorso o due, e poi il bicchiere rimane irrimediabilmente lì, pieno, e la bottiglia quasi integra.
Invece, come dire, questo qui ce lo siamo fumati in due su una bistecca alla griglia. Intendo: giusto il tempo di mangiare una bistecca e la bottiglia era vuota. Altro che furbetto: questo qui è buono.
Allora vai in crisi: ecchécavolo, una cosa del genere sconvolge ogni tuo pregiudizio.
O sì sì, eccolo qui il problema: il pregiudizio. O meglio: il pre-giudizio. Quel giudizio che attribuisce aprioristicamente, sulla base di convinzioni che si dimostrano poi solo luoghi comuni. Un rosso da piccolo prezzo "elevato" nel rovere e piacevole all'olfatto? Oh, be', allora è bollato: ti vien da pensare che sia "costruito" per essere piacione. Eccolo qui il pregiudizio. E invece no: quel rosso può esser davvero piacevole, e questo lo è, santo cielo!
Vino franco, nitido nella sua linea fruttata, legno integrato benissimo, tannino ben modulato, freschezza che fa salivare e allunga il tono fruttato. Fatto per metà col merlot e per metà col cabernet sauvignon. Magari non un capolavoro, ma trovarne di vini quotidiani così...

24 ottobre 2009

Una svolta per i sommelier italiani: alla scoperta del vino quotidiano

Angelo Peretti
Terenzio Medri, presidente dell’Ais, l’associazione italiana sommelier, l’ho incontrato solo un paio di volte, ma ne ho tratto la convinzione d’un uomo di bella simpatia, alla mano, convinto di quel che fa. Dunque non ho dubbi a credergli quando leggo l’editoriale che ha firmato sul numero di settembre-ottobre di DeVinis, il periodico, appunto, dell’Ais. Titolo: “La sfida del nuovo”. Il nuovo, si sappia, è quello che avanza nel mondo del vino. Quelle novità con le quali anche i sommelier si devono confrontare. E che magari possono contribuire a guidare o quanto meno ad orientare.
Dice dunque Medri: “I sommelier devono adeguarsi alla realtà, parlare un linguaggio semplice, valorizzare tutte le bottiglie, non solo le cosiddette eccellenze. Ogni anno il sistema vino italiano produce tre miliardi di bottiglie, ma solo cinquanta milioni sono di alta qualità e comunque destinate a un pubblico molto ristretto. L'Ais e i suoi associati, devono riconsegnare alla bottiglia il ruolo di protagonista della convivialità: questo si può fare dando dignità sia al 'vino da tavola' sia alle grandi nobiltà enologiche apprezzate dai pochi appassionati che possono permettersele”.
È un cambio d’indirizzo straordinario quello che Terenzio Medri propone alla sua associazione. E ne condivido i contenuti. Spero che l’intento diventi realtà. Incrocio le dita.
Certo non sarà facile. Anche perché occorrerà superare uno scoglio di non poco conto: lo strapotere della valutazione centesimale dei vini. Il voto in centesimi, intendo. Che ha fatto del bene per tanto tempo, conducendo fuori il vino italiano dalle nebbie della preistoria enologica, sino a far sorgere all’alba della qualità diffusa. Ma che oggi è un limite che personalmente ritengo intollerabile, giacché orienta a valorizzare come “eccellenti” solo i vini muscolosi, concentrati, possenti, mettendo in secondo piano la bevibilità e i caratteri del territorio.
Non sarà facile, superare quest’ostacolo. Che trova del resto un’espressione eclatante nella stessa guidata firmata dall’Ais, la Duemilavini, che premia, appunto, soprattutto i vini che giocano le carte della potenza. Ma che altro potrebbe fare, del resto, se la valutazione la si fa con l’ormai anacronistica scheda centesimale?
Avanti, Medri: la strada indicata è quella giusta. Avanti, e il mondo del vino italiano uscirà dalle paludi del vinone filoamericano per valorizzare, finalmente, le proprie tipicità. C'è tutto un mondo, là fuori, nelle vigne, ancora da scoprire e valorizzare, e i sommelier italiani, son certo, faranno la loro parte.

23 ottobre 2009

11-12 novembre: Aglianico e Aglianico a Battipaglia (Salerno)

L'11 e 12 novembre 2009 si svolge a Battipaglia (Salerno) "Aglianico e Aglianico", rassegna dedicata al vitigno autoctono principe del Sud. Due giorni di banchi d'assaggio, degustazioni guidate e incontri con gli enologi.
L'evento, organizzato da "La Fabbrica dei Sapori" di Battipaglia in collaborazione con Luciano Pignataro Wineblog, vede per la prima volta riunite oltre 50 cantine produttrici di Aglianico provenienti da tutti gli areali più vocati. La parte principale la fa la Campania con le cinque zone Irpinia, Taburno e Beneventano, Cilento, Terra di Lavoro e Vesuvio. Ancora il grande Aglianico del Vulture dalla Basilicata e poi Puglia e Abruzzo con caratteristiche espressione territoriali rappresentate da blasonate aziende.
Info www.lafabbricadeisapori.it

Friuli Grave Cabernet Franc Sugano 2006 San Simone

Angelo Peretti
Ci sono territori dove il dialetto marca ancora la parlata: è il caso, ad esempio, della mia terra veronese, ed io stesso ragiono dialettalmente per poi effettuare una sorta di traduzione simultanea nell'italiano. Dico questo, perché anche alcuni vini hanno accenti che sono tipici d'un certo territorio. Ed è il caso per esempio d'alcuni bordolesi del Nord Est, che bordolesi come filosofia non lo sono, perché in queste aree i cabernet - e in parte il merlot - ci sono da un paio di secoli suppergiù. E dunque si sono accasati a modo loro.
Appena stappata la bottiglia e versato il rosso nel bicchiere, ecco che questo Cabernet Franc delle Grave fiulane, dall'azienda San Simone, m'ha proprio dato quest'impressione: un classicissimo Franc nordestino. Con quella spiccatissima vena verde erbacea che ti solletica l'olfatto e che non va confusa con immaturità dell'uve, ma anzi è da leggersi come carattere territoriale.
Il tono d'erbe e di pampini di vigna te lo ritrovi in perfetta corrispondenza anche al palato, e qui si fonde bene con le note di piccolo frutto di bosco - la mora, direi, soprattutto. La vegetalità e una freschezza abbastanza spiccata favoriscono la beva, e aiutano l'accompagnamento col cibo a spettro piuttosto ampio direi. E sul fondo compaiono vene vagamente terrose, ad arricchire l'assieme, e il tannino è morbidamente modulato, ancorché il vino si sia evoluto senza toccare legno.
Un 2006 di bella giovinezza.
Due lieti faccini :-) :-)

22 ottobre 2009

Veneto Rosso Nuj 2006 Coffele

Mario Plazio
Adesso anche i bianchisti si mettono a fare i rossi. Negli ultimi anni la Valpolicella, quella cosidetta “allargata”, è il nuovo Eldorado dei produttori di Soave. Giusto per citarne qualcuno, Pieropan, Prà e Coffele si sono spinti nelle vicine terre di Valpolicella alla ricerca di nuove emozioni. E quando uno dei più eleganti winemakers di Soave, Alberto Coffele, si mette a declinare la propria sapienza per l’appunto nelle uve a bacca rossa, non può che inserirsi nel percorso stilistico che lo ha portato a realizzare alcuni dei Soave più territoriali che conosciamo.
Il Nuj è un vino che finalmente se ne infischia dei colori neri, delle bocche che ti danno da masticare e dei tannini da tagliare con il laser. È un vino di puro piacere, spontaneo, da sorseggiare senza dover per forza accostarvi cibi di incredibile complessità che gli possano tenere testa. Ed è paradossale che sia per il 75% composto da merlot, ché non lo da troppo a vedere.
Il profilo è al tempo stesso semplice, ma complesso, da bordolese stile cru bourgeois, con quel pizzico di vegetalità che non stona, ma anzi dona verve al palato. Esce giusto una traccia di calore e morbidezza al palato, ma senza alcuna forzatura e il finale resta fresco.
Davvero un bell’esordio per Chiara e Alberto ai quali auguriamo di continuare così.

21 ottobre 2009

Spumanti: si faccia il mezzo litro!

Angelo Peretti
Personalmente non lo conosco, ma stavolta almeno gli vorrei stringere la mano e dirgli: "Avanti, ché l'idea è quella giusta". Parlo di Giampietro Comolli, direttore del Forum degli Spumanti d’Italia. Leggo su WineNews che ha lanciato l'idea di mettere le bollicine in bottiglie da mezzo litro. D'accordissimo.
Di più: m'ha rubato le parole di bocca. Volevo scriverlo proprio in questi giorni, della boccia da mezzo per lo spumante, dopo che ne me n'aveva dato suggerimento una persona che stimo profondamente.
Sissignori, la bottiglia da mezzo litro è la dimensione ideale per bere una bolla in due. La mezzina da 0,375 è troppo poco, la 0,75 rischia di essere eccessiva. Il mezzo litro sarebbe l'ideale, ma, accidenti, in circolazione non c'è. Dunque, bene che si proponga di produrlo, questo formato: sarei tra i primi acquirenti.

20 ottobre 2009

Un cambio di rotta per i consorzi del vino?

Angelo Peretti
M'è sembrato un editoriale piuttosto deciso nei toni e nei contenuti quello che Giuseppe Martelli, direttore generale dell'Assoenologi, ma anche responsabile del Comitato nazionale vini, ha firmato sul numero d'ottobre de L'Enologo, il mensile dell'associazione degli enologici e degli enotecnici italiani. Dice: a Roma sono arrivate 320 pratiche per la revisione dei disciplinari delle doc (o delle igt o delle docg), ma solo una ventina sono complete, e per quelle incomplete si fa fatica ad aver le carte mancanti, ché dai consorzi tutto si tace. Dunque - cito le sue parole - "una cosa è certa: se qualcuno rimarrà a piedi questa volta non potrà dire che la colpa è dell'inefficienza degli uffici ministeriali". Di più: "Chi pensa di arrivare all'ultimo momento o confida in qualche proroga sbaglia perché l'Unione europea la proroga l'ha già data e il Ministero, per ovviare agli intasamenti dell'ultima ora sta predisponendo un decreto che fissa un tempo limite (sei o sette mesi) per regolarizzare il tutto".
La sintesi è una parola sola, esclamativa: "Sveglia!"
Detto questo - e mi fa piacere che ci sia, come Martelli (è lui nella foto), che dice pane al pane, o meglio, in questo caso, soprattutto vino al vino - v'è un altro intervento che va sottolineato nella rivista. Ed è quando lo stesso super dg degli enologi italici, in un articolo interno, passa in rapidissima rassegna i contenuti della bozza di modifica della legge 164 del '92, quella sul sistema delle doc italiane. Che va rivista entro il 29 di gennaio del 2010. Cioè domani mattina, grosso modo.
In particolare, va ridisegnato il ruolo dei consorzi di tutela, che con la nuova organizzazione comune del mercato europeo (in sigla, ocm) non hanno più funzioni di controllo, assegnate ad "enti terzi". E qui torno a citare alla lettera quanto leggo sulle ipotesi di nuove funzioni consortili: "Vengono affidate ai consorzi di tutela attività di tutela, vigilanza, valorizzazione delle do e ig che si esplicheranno nei confronti di tutti i rispettivi utilizzatori".
Se questi saranno i contenuti della nuova legge, la novità è di rilievo, perché si dice che le attribuzioni varranno per "tutti" gli utilizzatori della denominazione. Così come in precedenza i consorzi più rappresentativi avevano potestà "erga omnes" in materia di controlli - ossia erano titolati a svolgere il ruolo di controllori sia verso i soci del consorzio che verso le aziende non associate -, ora la loro nuova competenza "erga omnes" potrebbe spostarsi alla promozione. E dunque chi sino ad ora s'è guardato dall'iscriversi ai consorzi per evitare di versar quattrini in più, tenendoseli per promuovere e pubblicizzare il proprio marchio invece che quello della denominazione d'appartenenza, si troverebbero a dover cambiare strategia. In duplice direzione: o aderire al consorzio di competenza, oppure scappare dalle doc per spingere sul solo marchio aziendale, facendo vino da tavola.
Quanto ai consorzi, per sopravvivere saranno chiamati a funzionare. Non prendetela per una battuta. Se la nuova legge assegnerà loro la promozione "erga omnes", quella promozione dovranno farla davvero, e in maniera assolutamente efficace, ché altrimenti i produttori - che saranno obbligati a versare quattrini per l'attività promozionale - se ne scapperanno via, o dalla doc o dal consorzio stesso, facendo venir meno la rappresentatività dell'ente consortile. Il che significa che il consorzio dovrebbe chiuder bottega e buttar via la chiave.

19 ottobre 2009

Della sostanziale inutilità delle guide vinicole italiane

Angelo Peretti
Le guide dei vini sono arrivate in libreria. Chi non c’è ancora arrivato, ha comunque diffuso le informazioni sui premiati: i vini, intendo, che hanno ricevuto i tre bicchieri, i cinque grappoli, le corone e via discorrendo. Per conto mio, ho già comprato da tempo la guida Hachette dei vini francesi. E resto ancora una volta stordito dalla straordinaria utilità della guida transalpina e dal forte rischio d'inutilità sostanziale di quelle italiane. Parlo dal punto di vista del consumatore, soprattutto. Ma anche del territorio. E mi domando: perché non abbiamo anche in Italia qualcosa di simile alla Hachette?
Qual è la differenza? È sostanziale. Per molti, molti ordini di motivi.
Le guide italiane sono unidirezionali e di stampo decisamente filoamericano, valorizzando esclusivamente i vini che si posizionino al top in termini di punteggio (centesimale) e quindi, del tutto prevalentemente, di concentrazione e potenza. Inoltre, le schede sono dedicate non già ai singoli vini, bensì alle aziende. Si tratta di guida alle aziende produttrici, prescindendo dal loro territorio d’appartenenza, con l’esaltazione dei loro prodotti maggiormente “importanti” in termini di ricchezza estrattiva o di complessità.
La Hachette è divisa per denominazione d’origine, e dunque per territorio. Recensisce i vini e non le aziende. Per ogni singolo vino offre un rating in stelle (da zero a tre), che è sostanzialmente in linea con il sistema italiano e americano (tre stelle equivalgono a un vino molto concentrato). Ma all’interno di ogni singola denominazione assegna i propri coup de coeur (contraddistinti dalla pubblicazione dell’etichetta), che mettono in luce i vini più corrispondenti ai caratteri dell’annata e del terroir, prescindendo dal fatto che abbiano ottenuto due o tre stelle. E questo vale per ogni denominazione, anche quelle minori.
La Hachette offre dunque due diverse opportunità al lettore: scegliere i vini più concentrati e muscoli, a prescindere dall’adesione ai caratteri di territorialità (le tre stelle, per capirci), esattamente come le guide italiane, oppure – ed è questo il valore aggiunto - acquistare i vini più in linea con i caratteri dell’annata e del territorio (i coup de coeur), a prescindere dalla loro potenza.
Di fatto, un lettore della Hachette può scegliere anno per anno il meglio di ciascuna denominazione di origine francese (vuol dire: di tutte le denominazioni francesi, non solo di alcune come si fa in Italia), ovviamente secondo il giudizio soggettivo dei critici della guida. Un lettore italiano, invece, può scegliere solo fra i vini più ricchi all’interno delle sole aziende segnalate e comunque delle sole doc premiate. Un bel limite. Anzi, brutto.
Non solo. In Italia, all’interno di alcune denominazione, c’è quasi l’impressione che siano todos caballeros, ché i vini premiati son decine e decine. In Francia, invece, i coup de coeur son dati col contagocce. Ora, mettiamoci nei panni di un utente “normale” che voglia andare a conoscere un certo territorio vinicolo per provarne “il meglio”: in Italia dovrebbe tastare e comprare decine di vini, in Francia gliene bastano a volte tre o quattro, anche quando abbia a che fare con grandi appellation.
Esemplifico, che forse è meglio.
Prendiamo, per l’Italia, la docg del Barolo. In tutto, annualmente il Barolo viene prodotto in circa 10 milioni di bottiglie, un dato importante per quel che dirò di seguito. Ebbene, quest’anno, la guida del Gambero Rosso ha premiato con i suoi tre bicchieri ben 36 Barolo, mentre quella dell’Ais, la Duemilavini, ha assegnato i cinque grappoli addirittura a 39 Barolo. Domando: sarà mai possibile che un consumatore, anche appassionatissimo, li assaggi tutti? Domando ulteriormente: a che serve in un territorio piccolo come quello del Barolo indicare come eccellenti così tanti vini? O meglio, a chi serve, se non ai soli produttori?
Prendo la Hachette. Vado a vedere le pagine dei Bordeaux. Da quell’area arrivano fiumi, mari, oceani di vino. Ed alcuni appartengono a pieno titolo alla storia, al mito, alla classicità del vino. Cerco qualche appellation bordolese che in qualche maniera si avvicini quantitativamente a quella del Barolo. Prendo Saint Émilion, quasi 8 milioni di bottiglie: i coup de coeur sono solo tre. Prendo Saint Émilion Grand Crû, 9,5 milioni di bottiglie: 9 coup de coeur (ed è il tetto massimo in tutto il Bordolese). Prendo Pessac Leognan, 9,5 milioni di bottiglie: 3 vini col coup de coeur. Che differenza! Se uno vuole, qui si fa davvero l’idea del “meglio” (sempre, ovviamente, secondo il parere della Hachette). A Barolo e dintorni, se uno vuol provare il “meglio” delle guide, si prende una sbronza colossale.
Oh, sia chiaro: nulla contro il Barolo, che è e resta, per me, “il” vino rosso italiano. Ma le comparazioni potrebbero essere tantissime altre. Una su tutte: gli spumanti. Il Gambero premia coi suoi tre bicchieri ben 9 Franciacorta. La Hachette assegna il coup de coeur a 15 Champagne. Il numero dei premiati non è molto dissimile, ma le quantità prodotte (e la numerosità dei produttori) è agli antipodi: il Franciacorta fa meno di 10 milioni di bottiglie, mentre lo Champagne arriva a 260 milioni, tra l’altro dopo aver drasticamente ridotto la produzione. I dati parlano da soli. Purtroppo.
Domando di nuovo (e temo che resterò senza risposta): ma perché noi, in Italia, non possiamo avere una Hachette?

18 ottobre 2009

10-17 novembre: master sul caffé a Valeggio sul Mincio (Verona)

La condotta Slow Food del territorio villafranchese presenta il Master od Food di Slow Food dedicato al caffè. Un docente Slow Food illustrerà la cultura del caffè e i suoi rituali. Si parlerà di storia, coltivazione e produzione del caffè, commercio, origini, miscele. Ogni sera è prevista una parte teorica e una degustazione guidata di caffè.
Il master si terrà nei giorni martedi 10, mercoledi 11 e martedi 17 novembre 2009 con inizio alle ore 20.30: sede del corso la trattoria Il Cavallino a Valeggio sul Mincio (Verona).
Per informazioni ed iscrizioni contattare il numero 349 8112503.

Occhio a quell'olio, Striscia!

Angelo Peretti
Oh, no, non voglio fare il rompiscatole, soprattutto con una trasmissione cult della tv come Striscia la notizia. Però ieri sera, 17 ottobre, sabato, mentre cenavo, in casa, a televisione accesa (nelle case italiane si cena così, purtroppo, e casa mia non fa eccezione), m'è scivolato l'occhio su una rubrica di Striscia, quella dell'Occhio allo spreco, condotta da Cristina Gabetti.
Riguardava un'interessante iniziativa d'un negozio che vende tutto sfuso, e tutto o quasi di provenienza locale, dai fagioli al vino alla pasta all'olio. Col titolare che spiegava che così si risparmia, avendo oltretutto - diceva - prodotti di "alta qualità". Benemerita intenzione (e correlata attività), in una bottega definita dalla Gabetti "il mio negozio ideale", perché "non solo privo di imballaggi", ma anche "a filiera corta".
Strabene. Se non fosse che un particolare proprio non m'ha convinto.
Il particolare è che a un certo punto la Gabetti ha chiesto d'avere un po' d'extravergine, in "dose da single". Insomma, di poterne prendere poco. E anche quest'è buona cosa. Solo che quell'olio è stato consegnato in una bottiglia di vetro bianco, completamente trasparente insomma, che è quanto di più negativo possa esistere per conservare un olio. La luce induce rapida (io dico rapidissima) ossidazione nell'olio, è noto. Insomma, ne degrada i caratteri organolettici e nutrizionali. Mai esporre l'extravergine all'ossigeno, alla luce e al caldo: è la regola.
Ahi, ahi: per l'olio, la conservazione è il passaggio più delicato. Un olio degradato fa male alla salute, altroché. La dichiarata "alta qualità" non basta darla nelle materie prime, ci vuole anche nella conservazione e nel confezionamento. Occhio!

17 ottobre 2009

Bob Dylan - Together Through Life

Angelo Peretti
Oh, accidenti: l'avevo proprio abbandonata questa mia rubrichetta del Music for Food, che avevo impostato un bel po' di tempo fa come mio personalissimo divertissement, ad unire la passionaccia per il cibo e il vino con quella per la musica (l'ascolto, intendo). Ora eccomi qui con questo recente cd di Bob Dylan nel lettore (volevo scrivere che è l'ultimo, ma in questi giorni è uscita un'inattesa, a tratti quasi surreale raccolta di brani natalizi), e mi vien voglia di riprenderla. S'intitola, questo disco, per me bellissimo, Together Through Life, e fin dalla prima volta che l'ho ascoltato, a inizio estate, e poi a ogni riascolto, sempre m'ha fatto avanzare un'idea vinosa: quella del Barolo. Invecchiato.
Già, volendo assimilare un vino a questo dico, be', non v'è dubbio, per me: Barolo con qualche bell'anno sulla groppa. Ché del grande rosso nebbiolista langarolo ci sono, assieme, l'aristocrazia e la rusticità, la viola e il tannino, il frutto e la lunghezza, la liquirizia e la freschezza. Che superano il tempo. Come la voce di carta vetrata di questo Dylan che torna a tirar fuori rock'n'roll d'antan e poi sofferte, dolcissime ballate e poi blues elettrici che tolgono il fiato.
Rassicurante come il Dylan che conoscevi, nuovo come il Dylan che non t'aspettavi. Come una grande Barolo, insieme, appunto, rassicurante nella sua corrispondenza al nebbiolo e al terroir, sempre nuovo man mano che evolve in bottiglia, con lentezza.
Bob Dylan - Together Through Life - 2009

16 ottobre 2009

Quando il vino è datato: il marchio di fabbrica degli anni Novanta

Angelo Peretti
Una delle mie passioni è quella di ascoltare musica. Soprattutto in viaggio, in macchina, per mancanza d'altro tempo. Acquisto una marea di cd. Forse un po' troppi. Ho ricomprato molti dei dischi che avevo già in vinile: roba degli anni Settanta e Ottanta. Qualcuno perché è decisamente bello, qualcheduno per una sorta di collezionismo antologico, qualcun altro spinto dalla nostalgia.
Capita talvolta che, non riascoltandola da lungo tempo, metta nel lettore qualche incisione di quegli anni. Chessò: brani del periodo che s'usava chiamare del progressive rock, quello che aveva qualche assonanza con la classicità, rivisitata con gli strumenti elettronici. Spesse volte ritrovo quelle musiche datate: si riferiscono a quel preciso periodo, coi pregi, ma anche coi difetti evidenti e a tratti quasi infantili di quel tempo, con un suono che è proprio di quella circoscritta, breve epoca, e così finiscono per avere il fiato corto, col loro essersi cristallizzate in un decennio o anche meno.
La medesima impressione mi sovviene a volte stappando qualche bottiglia degli anni Novanta, sia essa italiana, francese o d'oltreoceano o dei nuovi mondi. Molte volte ricevendone la stessa impressione che ho, oggi, di tante musiche dei decenni andati.
M'è capitato di recente bevendo una bottiglia d'un taglio bordolese fatto in California. L'Alluvium '95 di Beringer, dalla Knights Valley, nell'area di Sonoma, California. In controetichetta è scritto che viene da uve di merlot, cabernet sauvignon, cabernet franc, petit verdot e malbec: tutta l'ampelografia rossa di Bordeaux. Vino ben fatto, enologicamente parlando. Ed anche tutto sommato piacevole da bere. Ma chiaramente attribuibile proprio a quel preciso periodo: la metà degli anni Novanta. Quando il gusto bordolese-parkeriano dominava, imperava nel mondo del vino.
Ecco, questo mi son detto, bevendolo: "Quest'è un classicissimo, tipicissimo esempio di quello stile di far vino, e dunque è oggi databile e datato". Al naso, mentolo ed eucalipto. In bocca, frutto surmaturo e liquirizia e a tratti memorie di terra rossa bagnata e un tannino ben presente ma anche ben modulato. Nessuna sbavatura dal lato tecnico, insomma. Un bordolese in perfetto stile internazionale, e per chi ama appunto quello stile è una bella bottiglia, così com'è bello riascoltare il progressive per chi è rimasto legato a quel genere di musica. Ma è, per assurdo, questa sua perfezione che diventa per me imperfezione: è un vino che racconta una tecnica e un'epoca, ma non una personalità e un terroir. Così come tanti altri vini del periodo, che magari allora avrei applaudito - come applaudivo il progressive degli anni Settanta -, ma che oggi trovo irrimediabilmente datati.
Capisco che forse son prevenuto, che magari sono anch'io succube delle mode. Ma che volete farci: i tempi cambiano, e certe infatuazioni finiscono. Resta l'essenza, che sta nell'umanità e nella terra.

15 ottobre 2009

Hopfen & Co - Bolzano

Angelo Peretti
Quando mi capita d'essere a Bolzano, un salto da Hopfen & Co, in pieno centro, piazza delle Erbe, quella del mercatino, lo faccio proprio volentieri. Ci si beve soprattutto birra, la Bozner Bier, la birra di Bolzano. Chiara & dolce (e lasciate perdere le rimebranze poetiche del liceo), dissetante, piacevole.
La birreria è al piano interrato. La stube di sopra. Qualche tavolino all'interno, qualcheduno fuori, lungo la via. Preferisco l'esterno, soprattutto quand'è aperto il mercato in piazza. Proprio di fronte alla birreria c'è il banchetto che vende i pani sudtirolesi, da comprare.
Alla Hopfen & Co ci si può mangiare anche qualche piatto, altoatesino pur'esso, ovviamente. Salumi, zuppe. Buoni i weisswurstel, i wurstel bianchi, portati in tavola nella pignattella con l'acqua calda: si accompagnano con la senape, quella dolce e speziata.
Una birra piccola e un piatto, andate sui 12-13 euro: ideale per una merenda.
Hopfen & Co - Piazza Erbe, 17 - Bolzano - tel. 0471 300788

14 ottobre 2009

Quell'eresia che contagia il Papero Giallo

Angelo Peretti
Stavolta mi cito, partendo da una citazione. Stefano Bonilli, ex guida dei ristoranti del Gambero Rosso, sul suo blog Papero Giallo ha scritto qualche po' di giorni fa d'un passaggio al Villa Fiordaliso, ristorante di charme sulla riviera d'occidente del Garda. E, insomma, lui che più che di vino ha detto e dice di cucina, stavolta ha dedicato l'apertura del pezzo alla materia vinosa. Ché l'ha intrigato un curiosissimo e rarissimo (e buonissimo) vino della zona: l'Eretico di Cantrina.
Racconta così: "L'altra sera a cena in riva al lago, serata calda e piacevole, tanto che mangiamo all'aperto, arriva in tavola del Bagoss e una bottiglia di Eretico della cantina Cantrina. È un pinot nero passito... urca, un pinot nero passito? Ma si, un vino, il pinot nero, che ha un'immagine non certo da vino passito e che fa una gran bella figura perché te lo aspetti dolce e invece... ha residuo zuccherino, non c'è dubbio, ma è proprio un gran vino-vino dal colore scuro violaceo che maturando sarà ancora più buono e questo nostro giudizio era ed è tanto più sorprendente perché a inizio cena avevamo aperto le danze con un vino della Mosella da rimanere senza fiato tanto era buono e quindi il palato volava già alto. Il sommelier di Villa Fiordaliso, personaggio bravo, che i vini se li sceglie uno per uno e sa raccontare senza tediare, ha tirato fuori l'Eretico per farci fare percorsi inusuali e ha proprio fatto centro".
Urca! Come Bonilli, adesso l'esclamo anch'io. Ché quell'Eretico - quello del 2003, il primissimo - m'è sempre piaciuto. Fin da quand'era in botte, in barrique, una sola. Ed è, appunto, vino che si può mettere in tavola. È da tempo che mi son ripromesso di provarlo con la selvaggina. Non ci sono ancora riuscito, più che altro per mia pigrizia o dimenticanza, ma ci devo provare.
Come faccio a sapere che l'Eretico tastato da Bonilli era proprio quello del 2003? Lo so, perché so che al Villa Fiordaliso quello hanno, e me l'ha confermato Cristina Inganni: Cantrina è sua.
Ne scrissi (in realtà ri-scrissi), dell'Eretico del 2003, un paio d'anni fa, fra le mie bottiglie stappate. Ribadisco quel che dissi allora, e son contento che Bonilli indirettamente me n'abbia data conferma anch'egli.
Ripubblico qui sotto la descrizione del settembre del 2007: mi cito, vivaddìo, stavolta.
Ecco qui.
"Eretico, proprio eretico. Quando alla gente dici che è un pinot nero passito, rabbrividiscono. Poi l’assaggiano e... Ci voleva l’estremismo vinicolo di Cristina Inganni per tirar fuori un vino del genere. Che è figlio dell’annata sua: un 2003 di gran calura. E siccome di pinot nero a Cantrina, contradina dell’entroterra estremo del Garda bresciano, ne hanno un bel po’, e l’uva surmaturava, Cristina s’è detta di osare l’inosabile. E dunque, ecco che è nato un rosso d’eresia assoluta. Una sola barrique. Finita poi in poche bottigline da 0,375.
È vino memorabile, credetemi. Chi poi s’aspetta un vin dolce, non ha capito bene. Residuo zuccherino ce n’è, certo. Ma quest’è un vino-vino. Che metteri in tavola con la selvaggina, pensate un po’. Ha colore scuro, denso, nero, con l’unghia che però vira verso il rubino violaceo.
Al naso appare fascinosamente speziato&fruttato. Tanto pepe, tanta cannella, tanto fruttino di bosco surmaturo. Una bellezza. La bocca è tannica, tesa, robusta, polposa. Pepe e frutto nero si intrecciano lungamente. Emergono presenze di rabarbaro e di caracadè e di ciliegia amarena stramatura e di prugna cotta. C’è bella persistenza. Appagante. È vino ancora giovanissimo ma di notevole personalità. E insomma ha un caratterino che te lo raccomando. Ha bisogno probabilmente di ben più lungo affinamento. Anzi, son sicuro che con gli anni si farà ancora più complesso e aristocratico. Great!"

13 ottobre 2009

Champagne Ambonnay Grand Cru Blanc de Blancs Eric Rodez

Angelo Peretti
Ecco uno Champagne da uve chardonnay che definirei "classico", oppure, chessò, "didattico". Ché qui ci trovi quello che t'aspetti da uno Champagne: la crosta di pane, la brioche all'albicocca, la spuma cremosa. Il Blanc de Blancs di Eric Rodez è questo. Ora, non voglio dire sia la quintessenza delle bollicine francesi, ma è indubbiamente una bottiglia ben fatta. Se poi consideriamo che l'avevo in cantina da più di un anno, e che non mi pare di quelle bolle da lungo invecchiamento, c'è di che è essere contento nell'averla stappata.
Ma una sensazione pià delle altre m'ha colpito: una sapidità davvero salina. Piacevolmente rinfrescante.
Col tempo, nel bicchiere, ecco emergere maggiormente la vena fruttata, e arriva qualche cenno di pesca gialla perfino, insieme col fruttino di bosco e, ancora, l'albicocca. Eppoi la crema pasticcera, densa.
Ha buon corpo, anche, e così non te ne servi solo come aperitivo, ma lo puoi portare in tavola.
Due lieti faccini :-) :-)

31 ottobre: la giornata nazionale del Trekking urbano

Sabato 31 ottobre, per la sesta giornata nazionale del Trekking urbano, ristoranti e osterie di alcune delle 32 città che partecipano all’iniziativa propongono cene a base di piatti tipici. Accanto ai percorsi, i partecipanti potranno avere a disposizione una sosta con il “piatto del trekking” per assaporare menù diversi a prezzi promozionali.
Il trekking urbano è una pratica ideata a Siena nel 2002 per fare esperienze turistiche fuori dai luoghi scontati e riscoprire la città. Ogni anno, in autunno, celebra la sua giornata nazionale durante la quale molti capoluoghi organizzano percorsi arricchiti da vari eventi.
Le città che partecipano alla sesta edizione del Trekking urbano sono: Siena, Ancona, Arezzo, Ascoli Piceno, Bari, Biella, Bologna, Brescia, Chieti, Cosenza, Ferrara, Foggia, Forlì, Genova, Lucca, Macerata, Mantova, Massa, Matera, Palermo, Pavia, Perugia, Pisa, Prato, Ravenna, Salerno, Savona, Tempio Pausania, Trento, Treviso, Urbino, Viterbo.
Info www. trekkingurbano.info

12 ottobre 2009

Isidoro, l'olio, la frutta, la vaniglia e il premio dell'Espresso

Angelo Peretti
Sarò anche un sentimentalone, ma mi sono un po’ emozionato a leggere, sulla pagina della Repubblica che parlava della presentazione della guida de L’Espresso, il nome del ristorante Al Caval in mezzo ai luoghi mito della cucina italiana d’oggidì. Insieme, intendo, a posti come Le Calandre, l’Osteria La Francescana, Vissani, l’Enoteca Pinchiorri, La Pergola e via discorrendo.
Quest’Al Caval è un ristorante di Torri del Benaco, riva orientale del lago di Garda. Il mio paese. O meglio, il capoluogo del mio comune di residenza, giacché ho casa in una sua frazioncina. Ma soprattutto è il locale d’un amico, Isidoro Consolini, col quale ho intrapreso ormai una ventina d’anni fa un percorso che ha portato lui a cambiare rotta di cucina e me a scrivere sempre di più di vino e di gastronomia (il terzo della squadra, Flavio Tagliaferro, oggi fa il manager d’una catena di ristoranti italiani negli Stati Uniti, ma continua a scrivere, di tanto in tanto, per quest’InternetGourmet, che è poi l’evoluzione del sito di quell’associazione I Ghiottoni che fondammo assieme, noi tre, per correre la breve avventura d’una micro casa editrice di librini di cucina benacense).
Ma torno ad Isidoro. Meglio: ad Isi, ché è così che lo chiamiamo. La sua ricerca d’uno stile espressivo personale, improntato alla leggerezza, alla vaporosità quasi dei piatti, all’esaltazione della nuance, al sussurro direi perfino, e comunque basato saldamente sulle materie prime del territorio, anche le più semplici, le più umili (come le erbe spontanee che va a raccogliere di persona sul monte Baldo), lo ha portato ad avere prima la stella Michelin, l’anno passato, ed ora un premio dall’Espresso, quello del miglior dessert alla frutta. Ed anche il dessert per il quale ha avuto questa menzione è per me denso di ricordi. Si tratta di quella composizione di frutta fresca con olio extravergine alla vaniglia che ho visto di fatto nascere, e che più volte lui ha sperimentato anche in pubblico, nelle piazze, sotto ai tendoni delle feste, nei corsi di cucina che assieme abbiamo allestito: una fusione perfetta tra le frutta di stagione e l’olio della nostra riviera, con la mediazione aromatica della vaniglia. Piatto lentamente, continuamente aggiornato, sino a farlo arrivare all’attuale equilibrio. E l’olio è quello fatto con la casaliva, varietà gardesana, perfettamente a suo agio nel mix con la frutta, appunto, oltre che, ovvio, sui pesci e sulle verdure e, a mio avviso, perfino col cioccolato.
Adesso, ecco dunque un premio ad Isidoro, al suo Caval e a questa ricetta. Un premio, dice l’editore (L’Espresso nell’iniziativa ha come partner Chiquita), che per la prima volta quest’anno va “al ristorante che più si è distinto per la particolare attenzione riservata alla frutta nelle sue declinazioni di fine pasto”. E i fine pasto al Caval son sempre una sorpresa, ché qui il dessert è soprattutto gioco, invenzione, divertissement, con quella levità, con quella leggerezza che ispira tutta la cucina di Isidoro.

11 ottobre 2009

La bóndola del Gianni e lo sgombro col Gorgonzola

Angelo Peretti
M'è venuto in mente passando al Corsaro, ristorantino di lago (e proprio in riva al lago) ai piedi del castello di Malcesine, Alto Garda veneto. In cucina c'è il bravo Roberto Brighenti. Il papà Gianni aveva una botteguccia di generi alimentari a Castelletto di Brenzone, pochi chilometri da lì (ha da tempo chiuso l'attività).
A Castelletto ci lavoravo, in banca, una ventina d'anni fa. E intorno alle dieci del mattino, il Gianni, di persona o per mezzo dell'ambasciata di qualche comune cliente, m'avvisava ch'erano arrivate le rosette calde dal forno. Una me l'imbottiva con la bóndola, rigorosamente col pistacchio: o meglio, la riempiva con la regina, come chiamava lui la mortadella, quella che in cert'altre parti d'Italia chiamano Bologna. Oppure a volte ci metteva lo sgombro preso dalle grandi scatole di latta, o il tonno, pur esso prelevato dall'olio della lattina e insaporito coll'aggiunta di qualche cappero preso dal barattolino di vetro, o ancora il Gorgonzola cremoso. Il massimo era una sua invenzione: rosetta farcita con sgombro e Gorgonzola assieme, che sarà anche una botta tremenda di calorie, ma è mangiare assai appetitoso. Poi si traversava la strada e s'andava a bere un gotto - in genere Lambrusco - lì di fronte, al Sole, l'osteria, poi trasformatasi in ristorante.
Ho nella mente quei sapori. Semplici, diretti, solidi, popolari. Quelli che adesso fai fatica a ritrovare, nelle botteghe, asservite alle multinazionali, e finanche nei ristoranti, infatuati dalle schiumette e dai fornitori di novità standardizzate. Per non dire del pane, che fai fatica a trovarlo, dalle mie parti, che sappia di pane.
A proposito: Roberto, al Corsaro, fa cucina di sostanza. Che abbia preso dal papà?

10 ottobre 2009

Ma le castagna sono dei montanari

Angelo Peretti
Su usa dire che le vie dell'inferno sono lastricate di buone intenzioni. Infatti a volte, anche inconsapevolmente, si possono far danni ritenendo di dar buoni suggerimenti. M'è venuto in mente leggendo la pur bella pagina web dedicata alle "buone castagne" (urca se non buone! sono un fan delle castagne) del sito internet della Cucina Italiana. Il testo, prima delle ricette, dice così: "Racchiuse nei loro ispidi ricci, in questi giorni se ne può fare abbondante scorta passeggiando nei boschi".
Nossignori che non se ne può far buona scorta passeggiando nei boschi: le castagne nei boschi hanno dei proprietari. Ci son contadini, montanari che da quei ricci s'aspettano di trarre del reddito, e se invece gliele porti via, le castagne, gli fai doppio danno: da un lato gli sottrai prodotto, dall'altro non gliene compri, ché hai già provveduto con il tuo non autorizzato self service.
Vi è la cattiva abitudine di considerar la libera raccolta delle castagne come qualcosa di perfettamente lecito, vi è la deteriore usanza di ritenere quei frutti un bene pubblico. Invece è atto illecito ed è bene privato. Ché quella gente, il castanicoltore, il malghese, il contadino dei monti, è là che tribola anche per noi, e mantiene il territorio e ci suda sopra e ci fatica e magari evita col suo lavoro di farci franar giù verso valle pezzi di montagna. Rispettiamola, questa gente delle montagne. Anche comprandogliele, le castagne, invece che facendone indebita incetta durante una passeggiata nei boschi.

9 ottobre 2009

Caffè Monte Baldo - Verona

Angelo Peretti
Uno dei miei rifugi enoici preferiti: il Caffè Monte Baldo, a Verona, in via Rosa, in pieno centro, a due passi da piazza delle Erbe.
Gianni Vesentini, patron del locale, è uno degli osti più validi che abbia la Verona del vino. Qui, al Monte Baldo, c'è approdato da qualche anno, dopo altre esperienze cittadine. Ha trasformato il vecchio bar in un'osteria rigorosamente condotta secondo i canoni della veronesità.
E dunque: vini in mescita scritti alla lavagna (una ventina almeno: bianchi, rosati, rossi, bollicine), banco con i bocconcini (con l'uovo, il tonno, l'acciuga, il Gorgonzola, la salsa di radicchio, la salsa di asparagi, il sedano rapa eccetera eccetera), i paninetti (con la mortadella, la soppressa, il prosciutto) e le immancabili, buonissime polpettine. A pranzo anche qualche piatto caldo. Bottiglie esposte sugli scaffali. La sera è il momento dell’aperitivo e del gòto del dopo cena.
Caffè Monte Baldo - Via Rosa, 12 - Verona - tel. 045 8030579

8 ottobre 2009

Etna Bianco 2006 Valcerasa

Angelo Peretti
Devo ad Alma Torretta, collega siciliana, la conoscenza di questo bel bianco dell'Etna, targato Valcerasa, dall'azienda agricola della famiglia Bonaccorsi. Figlio di vigne di solo carricante, coltivate ad alberello intorno agli 850 metri d'altitudine, sul versante orientale del vulcano. Là dove la temperatura ha sbalzi notevoli di temperatura fra il giorno e la notte.
All'olfatto dichiara senz'indugi l'origine vulcanica, con quelle vene di pietra focaia che si ritrova. Eppoi le nuance agrumate, la levità delle memorie di frutto tropicale, i fiori bianchi, e in aggiunta certi sentori erbacei.
In bocca eccolo presentarsi con una freschezza e una mineralità di tutto rispetto. Ed a tratti è quasi salato. C'è buona polpa. Ed ha un finale asciutto, quasi tannico, di quelli che mi piacciono. E nonostante abbia già qualche bel tempo d'affinamento (è un 2006), è bianco giovanissimo, probabilmente destinato a dar bella soddisfazione ancora per un certo numero d'anni.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

7 ottobre 2009

Da Giretiello - Ottaviano (Napoli)

Angelo Peretti
M'hanno detto, e ho letto, che quest'osteria da Giretiello, rinata da qualche anno in una nuova collocazione, era un'istituzione ad Ottaviano, terra vesuviana. O meglio, popolosa cittadina sulle pendici del Monte Somma, ché qui ci tengono alla distinzione dal Vesuvio. Per me, è stata una piacevolissima sorpresa cenarvi, da Giretiello. Assaporando la cucina terragna della zona. Con una sfilza d'antipasti che hanno fatto pasto.
La pizza di scarola ( con acciuga, uvetta e pinoli), l'immancabile, freschissima mozzarella, una parmigiana di melanzane da bis anche per me che non è che ami particolarmente la melanzana, i peperoni ripieni (carne, melanzana, olive, capperi), la papaccella (un peperone in frittella, all'insegna del contrasto dolce-piccante), una zuppetta di ceci e porcini e una di fagioli e pomodorini del piennolo da scrivere nella memoria: grande sequenza di sapori, profumi, consistenze.
Mi si assicura che varrebbe la pena anche provar le carni e lo stocco (il baccalà), ma li riserverò, se capiterà, per un'altra volta. Perché se torno da quelle parti, mi piacerebbe davvero sedermi nuovamente in saletta.
Osteria con Cucina Vesuviana da Giretiello - Corso Umberto I, 42 - Ottaviano (Napoli) - tel.081 8278285

6 ottobre 2009

Quando la bolla scoppia

Angelo Peretti
Oh, quanti se ne son letti, nei mesi passati, di proclami trionfalistici sulle vendite degli spumanti italiani, che avrebbero - parapaponziponzipò - fatto polpette del francioso Champagne. Su quali evidenze poggiassero i festosi editti non lo so. Ma se devo dar fede a Marco Baccaglio e al suo in genere informatissimo blog I numeri del vino, c'è invece da mettersi le mani fra i capelli.
Ordunque, più che d'espansione, ci si dovrebbe trovare a parlar di crollo, ché le esportazioni di bollicine italiane, fra gennaio e giugno di quest'anno, son calate del 18%.
Ma almeno - vien da chiedersi - quel che vendiamo ci frutta di più? Macché. Stando sempre a Marco Baccaglio, se il prezzo di vendita dei nostri vini sta diminuendo, talché a giugno è agli stessi livelli del 2006, per gli spumanti va peggio, dato che "sono addirittura il 3% più bassi sul medesimo confronto".
Oh signùr, mi sa che la bolla è scoppiata.

10-11 ottobre: Pomaria a Casez (Trento)

Il 10 e l'11 ottobre il borgo rinascimentale di Casez (Trento), in alta Val di Non, si trasforma in una sorta di teatro a cielo aperto, con le vie popolate da decine di figuranti, che metteranno in scena usi e costumi di un tempo, per la quinta edizione di Pomaria, evento dedicato alle celebri mele della zona.
In programma vari laboratori: da “Le mani in pasta”, che permetterà di apprendere come realizzare lo strudel, a “Le coccole di mammina”, dedicato a chi vuole conoscere le tecniche base per confezionare una marmellata. Nel centro storico sono allestiti gli stand di vari produttori trentini, che propongono la mortandela, saporito insaccato presidio Slow Food, il vino Groppello e le bollicine del Trentodoc.
Info: www.pomaria.it

5 ottobre 2009

Ristorante Perbellini - Isola Rizza (Verona)

Angelo Peretti
L'ha scritto Anthelme Brillat-Savarin nella sua Fisiologia del Gusto che "la scoperta di un manicaretto nuovo fa per la felicità del genere umano più che la scoperta di una stella". Il che magari può essere - e in effetti è - affermazione sopra le righe, ma sta a significare che, per il gastronomo, l'opera d'un grande cuoco appartiene a tutti gli effetti alla dimensione del genio. E geniale ho trovato la cucina di Giancarlo Perbellini, nel suo bi-stellato ristorante di Isola Rizza, nel sud est della provincia veronese, un luogo che ci devi andare apposta, e se non ci sei mai passato resti un po' basito a trovarti di fronte a una sorta di capannone e poi invece entri e comincia la magia.
Ora, mettersi a descrivere questo o quel piatto potrebbe apparire fuori luogo, ché è come voler dissertare su un colpo di pennello d'un pittore e non sul complesso dell'opera pittorica scaturita dal suo talento e dallo studio e dall'intelligenza e dall'applicazione. E infatti quando c'è talento nella cucina, preferisco affidarmi allo chef nella sequenza dei piatti, in modo di trarne una visione più d'assieme che di dettaglio. E non si pensi che sia facile, per il cuoco, scegliere per te sei-sette piatti in sequenza, ché nulla sa dei tuoi gusti, delle tue passioni, del tuo carattere, del tuo umore di quel giorno e di quell'ora. Così ho fatto anche da Perbellini, e l'assieme è stato davvero di valore.
Capisco che per qualche esemplificazione ci si deve pur passare. Così, sì, proprio ad esempio, il "wafer al sesamo con tartare di branzino, caprino all’erba cipollina e sensazione di liquirizia" è uno di quei piatti che giustamente appartengono alla mitologia della grande cucina italiana d'oggidì, ma che vuoi mai provare a darne conto con le parole se poi il descrivere nulla vale al confronto dell'armonia che ti sei ritrovato al palato?
Eccola, la parola magica: armonia. Questa è l'opinione che vien fuori quando mi ci provo a descriverla, la cucina di Giancarlo Perbellini. Che è poi la quadratura del cerchio, l'elemento di reale fascinazione d'un piatto memorabile, così come d'un vino dell'emozione, così come d'una composizione musicale: armonia che fonde in sé i contrasti, li doma, li plasma.
Per provare a rendere l'idea devo esemplificare di nuovo, e allora torno a un'altra proposta della carta: "alici, sgombro e capelonghe su pane al pomodoro, olive, carciofi e profumo di menta". Detto così, pare giusto un elenco d'ingredienti, una lista d'appunti prima dell'uscita verso il mercato, ma poi ti ritrovi in tavola un piatto dalla simile intitolazione e senti il mare e la mediterraneità che ti si riassumono sui rebbi della forchetta, ed è istantanea rievocazione di panorami e paesaggi e profumi ed afrori che hai accumulato nella memoria. Come la si descrive un'esperienza come questa? Coi semplici canoni dell'analisi organolettica? sarebbe riduttivo.
Mi fermo, ché finirei per elencare e ripetermi. Aggiungo che la sequenza delle portate è stata in crescendo, Col tripudio finale del carrello dei dolci, preceduto dal sublime "pane & fichi". Confesso: non resisterò mai alla millefoglie “strachìn”, simbolo di famiglia, composto lì davanti a tuoi occhi.
Grande lista dei vini, con la Francia in trionfo. Servizio impeccabile, ma quest'è quasi ovvio.
Perbellini - Via Muselle, 130 - Isola Rizza (Verona) - tel 045.7135352

4 ottobre 2009

10 ottobre - 15 novembre: San Zeno Castagne & Bardolino

Dal 10 ottobre al 15 novembre a San Zeno di Montagna (Verona), sul monte Baldo, balcone affacciato sul lago di Garda e patria del marrone di San Zeno dop, la cucina autunnale delle castagne incontra il vino del territorio, il Bardolino, in cinque menù degustazione.
La dodicesima edizione di "San Zeno Castagne & Bardolino" vede di scena gli chef dei ristoranti Al Cacciatore, Bellavista, Costabella, Sole e Taverna kus, che continuativamente, per più di un mese, propongono piatti fra tradizione e innovazione, preabbinati al Bardolino.
Prezzi tra i 30 ed i 42 euro, vino incluso.
Organizzano il Consorzio di tutela del Bardolino e Slow Food del Garda Veronese, in collaborazione con il Consorzio di tutela del formaggio Monte Veronese dop.
Info e menù completi su www.ilbardolino.com

The Wine Trials

Flavio Tagliaferro
Da un po’ di tempo sugli scaffali di Whole Food (il supermercato organico più trendy negli States) si trova un libro piuttosto interessante. Il titolo è “The Wine Trials”, sottotitolato: un libro critico senza paura. Autore Robin Goldstein, fondatore di Fairless Critic Book Series, critico gastronomico, chef e sommelier, nonché autore di guide di viaggio, scritto con il supporto di collaboratori sparsi per mezza America, ed un comitato scientifico di primordine.
Come sapete, i più famosi Trials sono quella competizione tra atleti che si tengono negli Stati Uniti per decidere che parteciperà alle Olimpiadi. In questo caso l’autore del libro si ispira al meccanismo dei Trials per mettere uno contro l’altro i campioni di vino di due categorie: vini che costano dai 10 ai 15 dollari a bottiglia, contro vini che costano da 50 a 150 dollari a bottiglia.
Ovviamente tutti gli assaggi, cui hanno partecipato professionisti del settore e non, sono stati tenuti alla cieca, utilizzando il classico sacchetto di carta per coprire le bottiglie.
Il rigore scientifico della ricerca si commenta da solo: 507 assaggiatori in rappresentanza del mercato americano, dal professionista master sommelier al consumatore di ogni giorno; quasi 600 vini assaggiati e selezionati per categorie come: bianchi leggeri del nuovo mondo, o rossi corposi del vecchio mondo; statistiche curate scientificamente dal comitato di garanzia; wine tasting in due round con etichette rivelate dopo l’assaggio, ma anche prima per vedere quanto la marca influenza l’opinione finale; una scheda esemplare studiata per facilitare il giudizio di esperti e non. Il senso dell’esperimento, è stato quello di dimostrare che in un mercato molto confuso, dove i prezzi sono arbitrari, le etichette difficili da interpretare, e le guide spesso di parte, il consumatore americano è completamente alla mercé del mercato stesso.
I consumatori di solito scelgono i vini basandosi su tre criteri: costo, rating delle guide, e marca. La gente compra il vino non basandosi su ciò che veramente piace, ma per un fatto di marketing, di etichette che scioccano e non rappresentano il contenuto, basandosi sul falso parametro che più costoso è uguale a più buono, e usando le guide come bibbie.
A questo punto non credo sia difficile capire come è andata a finire.
I vini tra i 10 e 15 dollari hanno letteralmente stracciato i più blasonati avversari.
Tanto per citare degli esempi il Brut di Chateau S. Michel (12 dollari al supermercato) vince 3 a 1 contro Dom Perignon (150 dollari a bottiglia), il cabernet da 9 dollari di Beringer vince contro il Cabernet Riserva da 120 dollari della stessa cantina!, il Vinho Verde Portoghese da 6 dollari a bottiglia sorpassa il Chassagne Motrachet di Louis Latour da 50 dollari.
Il motivo che l’autore rileva è che il palato dei consumatori americani è molto meno evoluto di quello dei critici e quindi i consumatori d’ogni giorno non sono in grado di riconoscere le diverse sfumature dei vini più costosi e più apprezzati dalle guide.
Quindi si chiede ancora l’autore, chi o che cosa fa il mercato?
Perché la totale mancanza di correlazione tra il piacere ed il prezzo spinge, nonostante tutto, il consumatore a comprare il vino più caro? Risposta: il sapore dei soldi, vino costoso quindi buono. È l’effetto placebo indotto dal prezzo del vino.
Perché i consumatori spendono fior di soldi per comprare vini che solo gli esperti ed i critici apprezzano? Risposta: per il piacere di comprare un vino costoso. L’esperienza cambia e si fa più intensa, quando sappiamo di assaggiare un vino costoso. Comprare un vino costoso è un’esperienza che può dare lo stesso appagamento che comperare una costosa giacca firmata. Non per niente LMHV possiede Gucci e Moet Chandon, quindi Dom Perignon, Christian Dior e Chateau D’Yquem.
Perché a dispetto del fatto che questo esperimento ed altri dimostrano che i prezzi dei vini sono arbitrari, le guide gastronomiche si ostinano a premiare i vini più costosi? Risposta: domanda cardine. Come le guide possono essere obiettive, quando gli stessi vini giudicati nella guida appaiono a tutta pagine nella pubblicità a pagamento nella guida stessa? Come possono essere obiettive quando produttori a critici pranzano regolarmente assieme? Perché non una delle più prestigiose guide ha un solo vino che supera i 91 punti e costi meno di 10 dollari?
Domande piuttosto interessanti, vi pare? Personalmente se la metto sul piano costo-piacere, mi viene da ridere pensando, ad esempio, alla ratio di cui sopra per certi Supertuscans, tanto per dirne una.
Alla fine cosa c’e’ di male in tutto questo? Potremmo rispondere: “Niente, è cosi che va il mondo”. Ma a questo punto sorge una domanda: “Se il prezzo da solo può convincere i consumatori che il vino è buono, perché i produttori dovrebbero sforzarsi a fare meglio, a diversificarsi, a fare vini che rappresentano il territorio invece che ricorrere l’omologazione?”
Ma attenzione, non e’ detto che la cuccagna sia infinita. Argentina, Australia, Cile e Spagna stanno portando sul mercato vini fatti molto bene e dal costo molto competitivo.
Vi assicuro che si può bere molto, ma molto bene con bottiglie che costano meno di 15 dollari in negozio.
Per finire alcuni dati.
Vincitori assoluti in questa speciale classifica, con il maggior numero di vini nei primi 100: Spagna, con 14 presenze, che spadroneggia nei rossi, seguita da Italia e Francia, con 10 presenze, e poi il nuovo mondo con Argentina, Cile e Australia (un dato impressionante, Yellowtail vino da tavola Aussie, Chardonnay tutto burro, vaniglia e oak, come piace agli americani, fa 100 milioni di vendite annue nei soli Stati Uniti)
Tra gli Italiani, Feudi di San Gregorio Falangina, vincitore di categoria, Santi Pinot Grigio, Kuttmeir Pino Grigio, Vitiano Falesco, Rotari Brut e, sorpresa delle sorprese, un solo Chianti a dispetto del fatto che ne sono stai assaggiati in gran numero.
Un ultimo suggerimento: volete proprio divertirvi/replicate quest’esperienza con gli amici? Il divertimento è assicurato.