31 gennaio 2009

Amarone 2005: quando il vino parla al mercato

Angelo Peretti
Dunque, anche l’annata 2005 dell’Amarone ha avuto la sua anteprima. In un palazzo Giusti ch’è bellissimo per il suo giardino e per le sale affrescate, ma un po’ angusto (e decadente, invero) per ospitare tutti. Ma Verona è avara di spazi, si sa, e dunque, e comunque, una pacca sulla spalla al Consorzio valpolicellese, che il nuovo evento l’ha saputo piazzare.
Che dire, dei vini? Che dopo averne tastati alla cieca sessantaquattro d’Amaroni, dico sessantaquattro (tutti quelli presenti, perfettamente serviti dai sommelier dell’Ais veronese), ti resta in bocca soprattutto zucchero e legno, e questo preoccupa un pochetto. E pure ti fa pensare il fatto che l’anno passato in terra valpolicellista han messo a passire metà delle uve, e ci si avvia verso i sedici milioni di bottiglie, che non è mica roba da riderci su.
Resisterà, molti si chiedono, il fenomeno Amarone? Credo di sì, ché in giro per il mondo c’è un sacco di gente che man mano passa dal superalcolico al vino, e cosa dunque offrirgli di meglio d’un rosso carico di alcol e tannino e zucchero? Ritengo proprio che l’onda lunga amaronista sia ancora lontana dal rallentare, anche se i numeri fanno tremare i polsi. Ma in terra di Valpolicella si parla al mercato, e il mercato risponde.
Intanto, dicevo, eccoci col 2005. Che è stata, han detto all’anteprima, annata difficile. Che i produttori hanno però saputo gestire con tecnica ormai smaliziata in fruttaio (chi si spaventa più delle piogge o dei rigori nell’autunno e inverno, cogli appassitoi controllati?). E che avrebbe dato, dicunt, vini capaci d’invecchiare, al che qualche dubbio vorrei manifestarlo. Sommessamente, come s’usa dire. Ma quegli zuccheri così esposti, quel tecnicismo così esasperato mi fa più pensare a bottiglie da aprire nel quinquennio (e qualcheduna anche con soddisfazione, per chi ama il genere), che non a roba da metter via per chissà quando. Ma quest’è solo un’opinione. Eppoi chi ha più cantine a casa in grado d’ospitare bocce destinate a invecchiare? E qual è più il ristorante che accetta d’immobilizzare quattrini e quattrini in bottiglie da aprire a chissà chi e chissà quando? Immediatezza, vuole il mercato, e ci si adegua. E in Valpolicella di flessibilità ne hanno parecchia.
Ora, dirò dei vini che più m’hanno colpito. Con le solite avvertenze, e cioè che mica tutte le aziende amaroniste son presenti, e parecchi mostri sacri anzi non si fanno vedere (ma perché? sarebbe interessante che tutti si confrontassero: coraggio!), che qualche vino è ancora in vasca e altri sono da poco assai in bottiglia, che anche i partecipanti spesso presentano il vino base e mica la riserva (che abbisogna di più lunga maturazione), e via discorrendo. Dirò dunque solo d’una diecina. Senz’offesa per gli altri (epperò qualche ossidazione qui e là l’ho trovata, e questo sì che non va bene).
Aggiungo, alla fine d'ogni testo, un voto centesimale, giusto per orientarsi.

Amarone della Valpolicella 2005 Cà Rugate
Il naso è da subito apparentemente piccolino: fruttino. Ma poi ecco note di mare, di alghe, di iodio. E un che di terroso, anche. Ma tratteggiati appena, questi toni. In bocca il frutto è succoso. La bocca è salata. La freschezza e il tannino si bilanciano. Escono il tamarindo, la cannella, un cenno di noce moscata, mai sopra le righe. Qualche vena di basilico, di erbe officinali. Più un paesaggio all’acquarello che un quadro astratto in acrilico, come ci hanno invece abituato certi Amaroni. E c’è bella lunghezza. E buona beva, ed è quasi incredibile. 90

Amarone della Valpolicella Classico Tenuta Lena di Mezzo 2005 Monte del Frà
S’era intuito che i Bonomo volessero fare le cose per bene, comprando terra a Fumane e affidandosi alla consulenza di Claudio Introini, valtellinese avvezzo ai vini da appassimento. Ma qui mi sa che hanno bruciato le tappe. Al naso pompelmo rosa, arancia rossa, marasca. Vene aromatico balsamiche. Cenni floreali di ciclamino. La bocca ha polpa e sostanza senza però opprimere. Gran frutto, gran tannino. Alcol alto, ma integrato. Lunghezza impressionante: il frutto appassito si libera con lentezza e gradualità. Giovanissimo, ma già notevole. 90

Amarone della Valpolicella Proemio 2005 Santi
Oh, il naso oggidì non è gran cosa, con quelle note riduttive che raccontano d’una giovinezza assoluta. In bocca è altra storia, con quel frutto succoso di melograno, di arancia rossa. La freschezza è in bel rilievo. La nota di zenzero rinfresca ulteriormente. La presenza fruttata e speziata è considerevole. L’alcol non appare marcato. Il tannino deve ancora del tutto distendersi, ma l’equilibrio complessivo appare di già molto buono, e il vino ha bella beva e notevole slancio. Lunghezza davvero invidiabile. Sulla fiducia. 88

Amarone della Valpolicella Classico 2005 Tenute Galtarossa
Naso chiuso, ostico. In bocca invece è subito un’esplosione di freschezza fruttata, con la ciliegia croccante, il melograno, il ribes, il fico, l’arancia rossa, il cedro. Succoso, nervoso, slanciato. Grande vitalità, giovanilità. Si beve. La dolcezza c’è, ma è tenuta a freno dal tannino, ancora invero un po’ ruvidotto (ma si farà, credo), e dalla freschezza. Tracce vaghe di rabarbaro (di caramella al rabarbaro, meglio). La lunghezza fruttata, agrumata e a tratti anche floreale è considerevole. Un vino giovane giovane, che mi piace. 88

Amarone della Valpolicella Classico Calcarole 2005 Guerrieri Rizzardi
D’accordo, oggi il naso è un po’ oppresso dal rovere, ma sotto avverti, pronte ad uscire, tracce di mineralità terrosa e di frutto nero. La bocca è impostata sulla dolcezza del frutto e sulla levigatura del tannino. Molto alcolico al primo impatto, amaroneggia in stile moderno, con memorie di boero, cacao, ciliegia sotto spirito, frutta in composta. Ma non vuol essere per forza ciccione. Ben fatto, nel genere suo: ti vien comunque voglia di berne un bicchiere, o forse due. Probabile che col tempo l’attuale dolcezza evolva verso eleganze terziarie. 88

Amarone della Valpolicella Classico 2005 Bixio
E chi se lo sarebbe aspettato? New entry amaronista, ed è un bell’ingresso, per me. Produttore dell’est veronese con vigne in zona classica. Il vino ha naso tra il floreale e il fruttato. Sottili vene speziate di cannella. In bocca la presenza rinfrescante dello zenzero. Certo, l’alcol picchia, però la freschezza dà slancio. E rotola il fruttino nero, e ha lunghezza davvero interessante. Note sottese di tamarindo, che restano a lungo e giocano a rimpiattino col cassis. Vene ferrose, terrose. Ha sostanza senza opprimere. 87

Amarone della Valpolicella Classico Moròpio 2005 Pierpaolo e Stefano Antolini
Oh, gli Antolini brothers, in Val di Marano, stanno crescendo. E fanno vini che hanno personalità (se mi è piaciuto il loro Recioto!). Quest’Amarone ha naso fruttato, con tracce di arancia e di ciliegia ben evidenti e leggere note di spezia, di tamarindo, di china. Pout pourri di fiori secchi. In bocca è in sintonia, e in più c’è uno slancio acido di tutto rispetto. Tannino abbastanza ruvido, per ora, ma non opprimente. E succosità considerevole e anche buona lunghezza. E freschezza di tutto rispetto. Mi piace per questo: ha freschezza e beva. 86

Amarone della Valpolicella Rocca Sveva 2005 Cantina di Soave
La Cantina di Soave, che detiene un bel po’ d’uve valpolicelliste, ha tirato fuori quello che credo sia il suo miglior Amarone di sempre. Per ora, certo, ha naso molto verde, ma sotto c’è spezia e frutto. La bocca è setosa e in principio perfino un pelo vinosa. Poi ecco la ciliegia mora stramatura: polposa, masticabile, eppure non oppressiva. Pian piano, ecco il boero, la ciliegia sotto spirito. Vaghe vene di terra nera. Cenni di erbe bagnate. Lento nell’evolvere. Un po’ di amaro nel finale, che dovrebbe integrarsi con lo stare in bottiglia. 86

Amarone della Valpolicella Valpantena Villa Arvedi 2005 Bertani
Naso ridottino, come può accadere in vini a questo stato di maturazione. Ma sotto ha note di tamarindo, di frutto sotto spirito, vene di melograno. La bocca ha una dolcezza evidente ma per nulla sfacciata, ed oltretutto compensata da un’acidità di tutto rispetto. Il tannino è ancora un po’ ruvidino, sinonimo anch’esso di giovinezza, ma non per questo impedisce al fruttino di mantenere una buona succosità. Ha bisogno di bottiglia, sissignori, ma potrebbe diventare un vino molto interessante in termine di beva e di eleganza. 86

Amarone della Valpolicella Classico 2005 Monte Dall’Ora
Altra sorpresa. O forse no, ché ormai è un anno che i vini di quest’aziendina di Castelrotto m’intrigano. Hanno personalità: se vi par poco… Un nome nuovo, da seguire con attenzione. N’ho avuta conferma anche stavolta. Il naso per ora è chiuso. Ma la bocca è decisamente interessante. Tesa, nervosa nella componente tannica e acida. L’alcol, elevato, è integrato in una struttura considerevole. Si fa avanti il frutto ipersaturo, insieme a una vena balsamica che rinfresca. Ha tanta materia e polpa. E personalità, ripeto. 86

Ribera del Duero Barrica 2003 Martin Berdugo

Angelo Peretti
Fan grandi rossi in Ribera del Duero, Spagna.
O meglio, fanno gran rosso per chi il rosso lo ama polposo e denso di frutto.
Questo Barrica di Martin Berdugo - l'uva è quella del tempranillo - la consistenza l'esprime già dal colore, rossissimo e quasi nero e con sfumature che tendono al violaceo.
Il naso magari appare un po' compresso, e son la mora e il pepe a venir fuori soprattutto.
In bocca è materico, e morbido. Ha tannino che mira al velluto. E la frutta rossa, stramatura, e il fruttino di bosco sono in bell'evidenza.
Ancora la mora accanto alla prugna, all'amarena, e soprattutto, direi, al mirtillo, succoso.
Riempie il palato, carnoso. Epperò non è solo da degustare, ché si beve, e va giù un altro bicchiere dopo il primo.
In fondo, sul finale, leggerissime note di liquirizia. Ma è l'unica rimembranza del legno dell'affinamento.
Ben fatto.
Due lieti faccini :-) :-)

30 gennaio 2009

Tappo a vite per sette in Alto Adige

Angelo Peretti
Che io sia tra i fan dei tappi a vite di nuova generazione l'ho detto e scritto più volte. Da tempo.
Sono straconvinto che, almeno per i bianchi e i rosati, ma anche per certi rossi, il tappo a vite integrato nella capsula sia la soluzione ottimale. Ché il vino si conserva più fresco, più nervoso, più scattante, più sul frutto. E ormai qualche anno d'assaggi (e bevute) di splendidi Sauvignon neozelandesi e Riesling tedeschi e Grüner Veltliner austriaci, tutti in tappo a vite, me n'ha fatto persuaso.
In Italia, si sa, le cose si muovono con lentezza. Conservatori e ritualistici come siamo. Eppoi abbiamo perfino i disciplinari che non lasciano sempre grandi margini di manovra. E arriviamo all'assurdo che da parte ministeriale si vieti il tappo a vite sui vini che riportano in etichetta la dicitura Classico.
Non è un caso che, da noi, all'avanguardia nell'utilizzo delle nuove chisure siano gli altoatesini. Pardon, Südtiroler. Che, respirando aria mitelleuropea, son probabilmente più aperti all'innovazione. Ed hanno insomma minori pregiudizi o preconcetti.
Ora, gli è che un drappello di valentissimi produttori sudtirolesi han deciso, tutti insieme, di passare al tappo a vite. E i nomi son di quelli qualitativamente di rilievo: Unterort, Falkenstein, Kuenhof, Kobler, Thurnhof, Unterhofer, Laimburg. Gente che il vino lo sa fare benone. E che produce alcune delle più belle bottiglie del nord.
Addirittura, han realizzato, a firma congiunta, un fogliolino che inseriscono nelle casse delle loro bottiglie, per spiegare. "Siamo lieti - dicono in un italiano così così e che non tocco - che possiamo presentare nostri vini con una capsula a vite. Questa capsula rappresenta una chiusura che combina contemporanamente bellezza estetica e modernità. Secondo esperienze pluridecennali i vini imbottigliati con la chiusura a vite maturano in modo ottimale, perché il vino si sviluppa di più per le interazioni delle oltre 2000 componenti, piuttosto che per il lento ingresso dell'ossigeno attraverso il sughero".
Ecco, io non so bene la storia delle duemila componenti, però credo che abbiano ragione sul fatto che la capsula a vite (definizione corretta: è una vera e propria capsula saldata sul collo della bottiglie, eppoi "tappo a vite" sa troppo di bottiglione da scaffale di quart'ordine) sia una chiusura ottimale. E mi domando cosa cavolo aspettino altri a far la stessa scelta. E cos'aspettino soprattutto i signori gestori di wine bar, enoteche, bar, trattorie, ristoranti eccetera eccetera ad optare per le bottiglie imbottigliate con la vite. Che magari avranno bisogno d'un minuto d'ossigenazione appena aperte (un minuto, mica di più), ma non fanno rischiar praticamente nulla al cliente. Sia in termini di odori di sughero e di marciumi vari, sia in quanto ad ossidazioni.
D'accordo, non ci sarà più il rito della stappatura. Ma quante rogne in meno! Eppoi chi la boccia non la finisce la può tranquillamente richiudere col tappo a vite e portarsela via senza (quasi) il pericolo d'innaffare i tappetini dell'auto.
Suvvia: cerchiamo di non esser scioccamente schizzinosi, e convertiamoci a questa nuove capsule. Funzionano.

28 gennaio 2009

Osteria dell'Angelo - Roma

Angelo Peretti
Cucina romanesca. Autentica. saporita. E a buon mercato. Che volete di più?
Ormai dubitavo di riuscire a mangiare un cacio e pepe come-dio-comanda nella capitale. E invece, eccomi qua: tonnarelli cacio e pepe abbondanti e gustosi all'Osteria dell'Angelo. E spero di poterci tornare presto.
Il locale è rusticotto: tavolini (piccini) col piano in marmo rosso, tovaglietta di carta, niente cristalleria, ché i bicchieri son quelli tozzi, vino senz'etichetta (ma bevibile: bianco frizzantino, rosso corretto). Alle pareti una marea di memorabilia rugbistiche (mi si dice che il titolare è stato nazionale della palla ovale). Servizio rapido. Informale, ma insieme anche professionale. Slang capitolino.
Di giorno ordini alla carta. La sera funziona in modo schematico: antipasti, un primo, un secondo e i dolcetti a 25 euro. Vino a parte (che però costa 5 euro appena).
Che se magna? Antipasti: pesce finto, che è poi una piacevole mousse di tonno, maionese, patate, capperi e acciughe, fagioli in zuppetta, bruschetta all'olio, salsiccia di cinghiale (non uno o l'altro: ve li portano tutti, e senza braccino corto). Poi si sceglie il primo, da un elenco tutto made in Rome: mi sono strafogato, l'ho detto, di cacio e pepe, ma ho provato anche, dai piatti dei commensali, l'amatriciana e la carbonara, e sissignori erano proprio buone anche quelle. Secondo: altra scelta da un altro elenco in stile tradizionale, tipo: caoda alla vaccinara, trippa, polpette, coniglio. Contorno: wow, le puntarelle con l'acciuga! Infine, taralli dolci con i semi di finocchio e la frutta secca.
Ci siamo stati in sette: 208 euro in tutto compresa l'acqua e due bottiglie. Segnatevelo, se passate da Roma.
Osteria dell'Angelo - Via Bettolo, 24 - Roma - tel. 06 3729470

27 gennaio 2009

Vin de Pays du Comte Tolosan Les Fumées Blanches Sauvignon Blanc 2007 Domaine Francois Lurton

Angelo Peretti
Se non fosse stato per una cena in periodo di Vinitaly, difficilmente credo che avrei incontrato questo vino. A suggerirmelo è stato un sommelier che s'è messo a fare trading vinicolo: si chiama Pierre Paillardon. Francese. Discutevamo di Sauvignon Blanc. E m'ha parlato del Fumées Blanches. E me ne ha fatte spedire tre bottiglie. E gli sono grato, ché è uno dei vini più piacevolmente disimpegnati e dispimpegnatamente piacevoli che mi sia capitato di bere.
Les Fumées Blanches è un Sauvignon Blanc, un Vin de Pays du Conte Tolosan. Da noi si direbbe un igt. Marchio Jacques et Francois Lurton. Azienda di tutto rispetto.
Tappo a vite: v'assicuro che, avendolo provato in prima estate e poi adesso, d'inverno, non s'è mosso d'una virgola.
Ha naso di fiori bianchi e di salvia e d'ortica. Ed ha perfino un che di spezie dolci finissime. Appena appena, la vena affumicata.
La bocca è croccante e succosa di frutta bianca. E floreale, di fiori estivi. Ed è freschissimo, questo bianco, e si beve che è un godimento.
Se vi capitasse d'incrociarne una bottiglia, non esitate: è golosissimo.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

26 gennaio 2009

Turriga 2001 Argiolas

Mauro Pasquali
Un bel colore rubino con riflesso granato predispone bene all'assaggio.
Al naso subito note tostate, cuoio e speziatura.
In bocca frutta rossa molto matura, in primis prugna e poi caffè, frutta sotto spirito e una vena balsamica intrigante. L'uscita è molto lunga e lascia la bocca piacevolmente pulita. I tannini risultano quasi astringenti, evidenziando un potenziale evolutivo ancora notevole.
Insomma. un bel vino e una bella beva, ma quasi giovane (!) a dispetto dei suoi sette e passa anni.
Vorrei riprovarlo fra un paio d'anni.
Vino di Sardegna.
Due beati faccini pieni e convinti :-) :-)

24 gennaio 2009

Alcol e sicurezza stradale: il parere della Fivi

Pubblico, condividendone i contenuti, il comunicato diffuso dalla Federazione italiana dei Vignaioli indipendenti in materia di alcol e sicurezza stradale.
Angelo Peretti

La Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti desidera prendere una posizione chiara e forte rispetto al progetto di legge sulla sicurezza stradale che è in discussione presso la Commissione Trasporti, che presiede l’onorevole Mario Valducci.
La proposta, vorremmo ricordarlo, è quella di abbassare il limite dagli attuali 0,5 grammi di alcol per litro di sangue a 0,2 g/l. Se passasse questa legge praticamente sarebbe vietato a chiunque il mettersi alla guida dopo aver consumato anche una sola birra o un bicchiere di vino.
La Fivi desidera sgombrare il campo da qualsiasi possibile illazione rispetto a una nostra volontà di incitare all’alcolismo tra i giovani e il desiderio di aumentare il numero di incidenti stradali. Siamo per il consumo moderato e consapevole del vino di qualità. La nostra volontà è un’altra, ovvero quella di difendere la possibilità per gli italiani di consumare anche un solo bicchiere di vino a pasto, il cui consumo è addirittura consigliato dalla stragrande maggioranza dei nutrizionisti a livello mondiale. Nessuno con un tasso dello 0,5 ha mai provocato un incidente a causa del suo tasso alcolico, e per questo motivo in gran parte del Vecchio Continente si era fissato già questo limite assai ristrettivo. Abbassandolo a 0,2 si criminalizza il vino e tutta la cultura millenaria che ha contribuito a creare fin dalla notte dei tempi.
Siamo anche stanchi di vedere la nostra produzione assimilata a sostanze alcoliche ben più pericolose per la salute dei giovani e degli adulti come i super alcolici di tipo industriale. Il vino artigianale ha uno stretto legame con il territorio, ha creato una solida economia locale grazie alla forte alleanza strategica con osterie, ristoranti, locande, wine-bar ed enoteche. Questa sorta di proibizionismo che sta colpendo il nostro paese rischia di mettere in ginocchio un intero settore, uno dei pochi che genera profitti e che incrementa il settore turistico italiano.
Chiediamo pertanto che venga assolutamente riconsiderato questo abbassamento dallo 0,5 allo 0,2 per il bene del vino italiano e delle nostre tradizioni enogastronomiche.
Chiediamo, invece, un giro di vite rispetto al consumo di stupefacenti, vera causa di incidenti mortali e che le forze dell’ordine non possono adeguatamente sanzionare per la mancanza di narcotest sulle nostre strade.
Fermiamo le stragi in modo intelligente con un controllo più capillare mantenendo gli attuali limiti che già sono molto stretti, senza per questo colpire ingiustamente chi si spezza la schiena nei campi e tra le botti per realizzare un prodotto artigianale e di tradizione millenaria come il vino.
Uno stato forte è quello che fa rispettare le leggi e non quello che crea limitazioni sempre più strette perchè non ha la possibilità di fare rispettare la propria legislazione.

Andando a cercare l'anima del Lugana

Angelo Peretti
Mica l'ho mai letto prima un bell'articolo così sul Lugana. E un po' mi rode che ci sia chi ha una capacità descrittiva del genere. Trattasi (l'autore) di Francesco Falcone, collaboratore dell'Enogea, la "newsletter bimestrale indipendente" di Alessandro Masnaghetti. E n'ha parlato, del bianco luganista, sull'ultimo numero del quaderno del Masna. Titolo: "Lugana. Il bianco delle argille". Ecco, magari la titolazione non è originalissima, ma rende.
Procuratevene una copia (solo per abbonamento e per posta: almasbag@tin.it la mail per prendere contatti) e leggetelo: bella lettura, l'assicuro. Descrive il carattere del vino, la sua capacità d'invecchiare, e poi il terroir, le singole aziende, la produzione. Senza peli sulla lingua. E con bella prosa. Vedi qui: "Fra le combinazioni uva-suolo venerate dalla scienza e dalla fantascienza, ciò che si avvera tra le argille moreniche della Lugana storica (profonde, purissime e bagnate dal Benaco) e l'uva trebbiano di Lugana (che d'ora in poi chiamerò turbiana) sono autentici effetti speciali: un vitigno normale si trasforma in un bianco di rango. Dotato di esclusiva freschezza, una freschezza saporita e scattante. E di insolito sapore, un sapore che ricorda qualcosa di salato, di speziato, di affumicato".
Ora, delle tante cose scritte da monsieur Falcone, una in particolare m'ha incantato. Quel che dice d'un mio vino del cuore: il Lugana Riserva del Lupo 2003 di Cà Lojera. Che per mia parte ho sempre detto e scritto di considerare il miglior Lugana che mi sia mai capitato di bere. Il Lugana più Lugana, intendo, quel che meglio m'ha descritto una terra che ho percorso in lungo e in largo e vissuto tante e tante volte.
Riporto, ché non si va solo a descrivere quel vino, ma l'essenza stessa di quel che sono o dovrebbero essere i bianchi della Lugana.
Ecco di seguito quel che scrive Falcone.
"Ho capito, in questi giorni di completa immersione nella denominazione, quanto i Lugana più autentici siano vini lenti a trovare i giusti equilibri, soprattutto quando si esasperano le selezioni in vigna e si cambiano le consuetudini in cantina. Ho capito, anche, ma non è stato facilissimo, quanto siano diverse le stagioni e le tipologie di questo vino, ciascuna in grado di segnarlo con un proprio carattere distintivo, non di rado eccessivo: l'acidità e la salinità acuta dei vini più essenziali (che in genere preferisco), il frutto maturo e speziatissimo delle vendemmie tardive, la timbrica minerale assai particolare delle selezioni più evolute. Sono gli umori e i malumori, il chiaro e lo scuro, la luce e l'ombra della turbiana. Solo un vino, finora, ha saputo miscelarli e fonderli senza rimanerne tramortito: si chiama Riserva del Lupo".
Ecco: condivido parola per parola, una per una. Solo che io così bene questi concetti non li ho mai saputo esprimere. E un po' mi rode, ripeto.

23 gennaio 2009

Trattoria Culata - Montegalda

Angelo Peretti
Il tempio del baccalà. Alla vicentina. Fianco strada, s'apre l'uscio: pochi posti auto davanti, un po' di più nel cortile retrostante.
Montegalda, terra di Vicenza, patria dello stoccafisso che qui cambia nome. Battuto, ammollato, poi cucinato. E da Culata lo si mangia con la polenta, canonicamente. In abbondante porzione. Deliziosamente tradizionale.
Consiglio di farne piatto unico. Magari ordinando solo i contorni, che portano abbastanza ricchi.
Insieme, una bottiglia del posto. Bianco, se si vuole, ma la tradizione chiede Tocai rosso. Pardon, Tai rosso o Barbarano, ché tocai mica lo si può più dire. C'è una lista di vini berici da cui si può tirar fuori la bottiglia giusta.
Se si osa un primo, tagliatelline in brodo coi fegatini. Alla fine dolcetti della casa, che però esaltano assai meno.
Obbligatorio prenotare, ché sennò faticate a trovar tavola. Oppure star lì con pazienza finché si libera. Tanto poi il servizio è rapidissimo.
Trattoria Culata - via Roi, 47 - Montegalda (Vicenza) - tel. 0444 636o33

22 gennaio 2009

Barolo Ravera 2004 Elvio Cogno

Angelo Peretti
E poi dicono che il Vinitaly non serve a niente...
Al Vinitaly di solto chiacchiero molto e bevo poco. L'anno passato, complice la felicissima soffiata d'un amico, tra le bottiglie provate c'è stata quella del Barolo Ravera 2004 di Elvio Cogno, da Novello. Ed è stata una gran fortuna, ché ho potuto fare un ordine d'un paio di casse (prima oltretutto che le guide lo strapremiassero) di quello che considero uno dei più bei rossi tastati negli ultimi tempi. E ogni tanto, così, me lo ristappo.
Giovanilissimo, e quindi ancora un po' ruspante, t'avvince di già adesso, però, per la sua eleganza. Penso a cosa potrà essere con un po' d'attesa ancora nel vetro, epperò è fin d'ora tanto godibile.
Ci trovi, insieme, già all'olfatto, vene di liquirizia e di china e di fieno, direi, e anche di menta ed erbe alpestri.
In bocca, la trama tannica è importante, epperò anche già ora comincia a tirar fuori il velluto. E il frutto rosso è ampio e persistente e avvincente. E il vino t'avvolge senz'essere mai eccessivo.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

20 gennaio 2009

Questione di prospettiva: quanto possono durare i rossi d'oggidì?

Angelo Peretti
Ma i vini di oggi sono davvero meglio di quelli d'antan? Se lo chiede Franco Ziliani in un intervento sul sito dell'Associazione Italiana Sommeliers.
Oh, oltre a interrogarsi, Franco si dà anche una risposta: dice che è pur vero che i vini d'oggidì è ben raro ch'abbiano difetti di tecnica enologica, "eppure - scrive - c'è qualcosa che non torna, che non mi convince interamente in molti di questi vini e che non mi fa pensare, come molti invece sono propensi a credere, che siano in senso assoluto migliori, o possano essere migliori, domani, dei vini prodotti in epoche, gli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, quando larga parte di queste acquisizioni e conoscenze tecniche erano ancora lontane".
Cos'è che non torna? Che si tratta in troppi casi di vini "talmente pensati e progettati - son parole ancora di Franco - per un'immediata fruibilità, per essere piacevoli (e un po' 'ruffiani') già da giovani (anche se si tratta di 'vin de garde', vini da invecchiamento come Barolo, Barbaresco, Brunello di Montalcino), da finire con l'essere privi di prospettive, condannati ad offrire il loro meglio, quando questo 'meglio' è effettivamente presente e oggettivamente percepibile, da giovani." Tanto da "indurre più di un osservatore ad essere scettico sul tipo di evoluzione".
Di mio, son tra gli scettici. Confermo.
Chi mi segue un po' più assiduamente sa che amo i vini invecchiati. Mi piaccion vecchiotti, e adoro soprattutto la scattante, integra freschezza fruttata dei Bordeaux anni Sessanta, Settanta e un po' Ottanta, prima che la scuola americana, che le norme parkeriane facessero cambiare le regole del gioco. E dunque la risposta è scontata: meglio quelli d'antan.
Ovvio, parlo di Francia, Bordeaux. E non son poi così convinto - tutt'altro - che le bottiglie italiche del passato avessero la medesima capacità di far scorrere gli anni. Ché difetti ce n'erano, oggettivamente, tanti. E la gente che sapeva il fatto suo in vigna e cantina non cen'era invece molta, e dunque poca era la disponibilità di bocce che superassero i decenni.
Ma sulle tricolori produzioni d'adesso, algidamente perfettine, ho i medesimi dubbi di Franco. Troppo pronti 'sti vini quand'escon di cantina, per poter durare a lungo. E son bocce che è spesso (quasi sempre) meglio bere magari al massimo dopo quattro o cinque anni, senz'illusione che possano star lì.
Penso ad esempio al mio veronesissimo Amarone e a certi Valpolicella Superiori, che siano di ripasso o no poco m'importa. Troppo zuccherosamente cicciuti per aver davvero giovinezza oltre il quinquennio, ritengo. Son fatti bene, sia chiaro, enologicamente parlando. Ma han troppo di tutto, e il troppo stroppia, e se non c'è equilibrio non c'è speranza di longevità. Magari sopravviveranno, ma è tutto lì. Niente slanci di seconda e terza giovanilità. Con le dovute eccezioni, magari.
Direte: e chi s'importa che durino? Son buoni adesso, e adesso ce li godiamo. Ecco, questo è il ragionamento da fare. Chi li ama, li beva in giovinezza. Come io continuerò a cercare nelle vecchie cantine degli appassionati, in Belgio, Germania, Svizzera, dov'è più facile trovar collezioni di bocec bordolesi d'antan. A prezzi che anche le mie taasche si posson permettere.

18 gennaio 2009

B come brett: la fobia del brettanomiceto

Angelo Peretti
Ma guarda i casi della vita. Avevo letto un paio di giorni prima, sul numero di gennaio di Decanter, un articolo di Linda Murphy, ed ecco che mi trovo in una sorta di situazione curiosamente simile.
Il pezzo era "Don't mention the B word". Cioè: "Non menzionate la parola B".
Raccontava la giornalista di quel che le era accaduto a una degustazione i primi anni della sua carriera. Un produttore le aveva chiesto cos'avesse trovato d'interessante. Lei: "lo Chateaunef-du-Pape 1989 di Chateau de Beaucastel". Al che lui: "Deve amare il brett".
Ecco, il brett. Il "nemico della moderna enologia". la B word neppur da nominare. Eppure...
Ne abbiam parlato a tavola, a casa di vignaioli del "mio" lago di Garda. Bel conversare con bella gente. Tra le bottiglie aperta, il Beaucastel '90. E il produttore a dire che non sapeva se versarlo nei bicchieri, perché... "Perché sa di brett", ho detto. Già, proprio Beaucastel (vabbé il '90, mica l'89 di Linda Murphy, ma siam lì) e proprio quell'odore da brettanomiceti. I brettanomyces: lieviti che s'insinuano in cantina, attaccano le botti, quelle vecchie soprattutto, e cambiano il profilo sensoriale del vino. E quando ci van giù duri, vengono fuori puzze sull'immondo. Però altre volte...
"Sebbene non sapessi allora cos'era il brett - scrive Linda Murphy -, adoravo quel carattere terroso, di pellame, di pancetta affumicata e di spezie, quel frutto carnoso e quella solida struttura". E allora come te lo spieghi che oggi è il pericolo pubblico numero uno nelle cantine e cantinone e cantinette di mezzo mondo? Che solo a sentirlo nominare viene il mal di pancia ai vigneron? Che temono la contaminazione più d'una grandinata tardo estiva?
Occorre distinguere. Un conto - e tiro in ballo ancora Decanter - son certi effetti per così dir "controllati" dei brett. Insomma: finché un vino austero tira fuori note di terra e pellame e carne affumicata e tabacco e tartufo e chiodo di garofano e altre spezie ancora, be', si dirà mica che è un difetto. Certo che quand'invece dà puzze di pollaio, letame, cerotto, cane bagnato, sudor di cavallo, piscio di ratto, allora no che non va.
E dunque ecco che nelle cantine ci si divide: chi teme il brett e fa di tutto per eliminarlo, chi invece ne cerca un pochetto per avere maggior complessità, e chi semplicemente "quel che viene viene", dicendo che alla fin fine il vino "sa di terroir".
Per me, non mi straccio le vesti se in un vino vecchiotto e dal carattere netto ci sento un po' di brett. Mica lo cerco, sia chiaro. Ma in certe vecchie bocce - che so, Barolo, Bordeaux - non me la sento di dir che non mi va. Vini che abbiano personalità, chiaro. Ché la pulizia nel bicchiere mi piace. Ma non quand'è tanto artificiosa da somigliare alle tette delle attricette ritoccate col Photoshop. E dunque, e sto con Linda Murphy: quando l'effetto è contenuto, il tollerare o meno il brett è questione soggettiva.
Ma il cantiniere è all'erta. Se volete scandalizzarne uno, mentre tastate, chiedetegli perfidamente: "Ma non sa un po' di brett?" Diventerà paonazzo. Ah, ricordate: effetto opposto se avete davanti un mastro birraio, ché le grandi birre lambic fermentano col brett.
A proposito: com'era - si chiederà magari qualcheduno - quel Beaucastel '90? Non indimenticabile, ma terroso e animalesco, e l'ho bevuto, il mio bicchiere.

17 gennaio 2009

Casa Pagnano - Asolo

Angelo Peretti
Ero ad Asolo, nel Trevigiano, per una serata dedicata all'extravergine, che da quelle parti fanno gran bene, anche se in quantità piccoline.
M'hanno trovato stanza per la notte in un bed & breakfast di due camere in collina, a Pagnano. Dal centro di Asolo son pochi minuti di macchina. Ci son stato benissimo: è Casa Pagnano.
Due stanze da letto, dicevo, una un po' più grandicella, l'altra più minuta, ma carina assai. Mobili antichi. E
arredano la sala da pranzo comune altre cose d'antichità (o di moderno rifacimento con grande gusto, ché il marito della titolare è restauratore ed ha laboratorio in cortile, ed è lui che ha costruito le porte e ricuperato e impiantato le travi massicce del tetto). Ampio lo spazio cucina, dove ti verrebbe voglia davvero di spignattare. Frigo fornito di yogurt e Prosecco (dei Colli Asolani, ovvio).
Una verandina in legno che fa da ingresso (col cesto di caramelle sul tavolo e libri che parlano del luogo e fiori). E di legno è la scala che immette ai locali.
La colazione mattutina vede in tavola salumi, pani fatti in casa (dalla titolare), brioche di pasticceria (dal fornaio del paese), marmellate, e insomma sei tentato d'abbuffarti già di buon'ora.
Avverto che il bagno, spaziosissimo, è in comune, esterno alle stanze. L'ingresso alla casa della famiglia è al pian terreno.
Casa Pagnano - Via Vallorgana, 22 - Pagnano d'Asolo (Treviso) - tel. 0423 529276

16 gennaio 2009

Champagne Grande Réserve Veuve Devaux

Angelo Peretti
Mi era piaciuto, e continua a piacermi, il '99. Adesso ho potuto bere (macché assaggiare...) il 2000. E devo dire che lo Champagne della vedova Devaux si conferma un bell'acquisto.
Classicissimo, porge all'olfatto memorie di lievito, di crosta di pane, di nocciola. Didattico, perfino.
La bocca è discretamente cremosa. Perfino vellutata. Il vino è piuttosto materico. E mostra bel carattere. Tornano le frutta secche, e la nocciola in particolare. E insieme le vene burrose. E c'è nota di frutti bianchi maturi.
Può andare per l'apero, ma sta a suo agio anch'in tavola.
Ha un prezzo che ritengo ragionevole: comprato on line a 26,50 euro la bottiglia.
Due lieti faccini :-) :-)

15 gennaio 2009

Alla sua maniera (ma che direbbe il proto?)

Angelo Peretti
C'erano una volta i correttori di bozze. Proto, li chiamavano. Erano i tempi in cui i giornali e i libri non si facevano col computer. Così quegli oscuri lavoranti di tipografia passavano e ripassavano i testi per trovare errori e svarioni. E avevano due ossessioni: la gestione dei righini e gli a capo. Nel primo caso, era ritenuto un affronto alla professione lasciare una riga solitaria alla fine o all'inizio della pagina: le vedove e le orfane, le chiamavano. Nell'altro caso, andavano alla caccia di quelle involontarie paroline scostumate che inavvertitamente fossero nate dalla divisione sillabica. Ché era inammissibile che una riga cominciasse con sesso (per esempio dalla spezzatura di pos-sesso o con-sesso) e men che meno - figurarsi! - con fica (per esempio dalla suddivisione di magni-fica, quali-fica, speci-fica).
Mi son venuti in mente vedendo l'etichetta d'un vin dolce della zona di Lison, Veneto orientale. Il Terra di Bonifica di Toni Bigai. Che scrive, birichino a di poco: Ter - a capo - Ra di - a capo - Boni - a capo - Fica. Una svista dovuta al fatto che non ci son più i proto d'una volta? Macché, non ci credo. Perché poi leggi la contr'etichetta, e vedi che è tutta giocata sulla provocazione.
Dice così: «Terra di bonifica è un vino dolce ottenuto da uve bianche Picolit e Tocai, prodotte in zona non vocata, frutto di una lunga fermentazione in barrique, vuole contrastare l'egemonia e la presunzione di chi solo si fregia di una zona vocata. Inizio a produrre vino dolce, punto d'arrivo per un vero enologo, "questa è la mia opinione e io la condivido.» Geniale.
Ora, di Toni Bigai non so praticamente null'altro. Mi si dice che è eclettico personaggio del vino che vuol rilanciare la sua terra, quella "non vocata" di Lison, appunto. E che per questo s'è messo in proprio, affrancandosi dall'azienda paterna. E, avendone tastati i vini, condivido il termine usato da Vini d'Italia, la guida del Gambero Rosso & Slow Food: rusticità.
E il Terra di Bonifica? Vino strano, inconsueto. Al naso ha toni quasi di lieviti: mi ricorda, che so, le birre bianche del Belgio (che poi è la stessa nota che ho incontrato in un altro vino dello stesso produttore: si chiama A Mi Manera, "alla mia maniera", un bianco da uve, mi pare, di tocai, picolit, malvasia e chardonnay, ma mi potrei sbagliare). In bocca ha vaghe e piacevoli vene aromatiche e andamento burroso e bella sapidità che aiuta la beva. Passito personalissimo. Fatto davvero "alla sua maniera". Nella mia scala di piacevolezza, gli darei due lieti faccini :-) :-)
Aggiungo: chi ha la possibilità, li tenga d'occhio i vini di Toni Bigai. Potrebbe sorprendere.
Sia chiaro: è solo una mia opinione, ma va da sé che io la condivido...

13 gennaio 2009

Ancora i vini della Valle dell'Agno: La Bertolà

Mauro Pasquali
Dopo aver parlato di Masari, ecco ancora dei vini interessanti dalla Valle dell'Agno, nel Vicentino.
Vini ancora firmati da Massimo Dal Lago.
L'azienda in questo caso è la tenuta La Bertolà
Ecco qui sotto le mie impressioni.
Aggiungo che il sito internet dell'azienda dice che "il vigneto di 22 ettari ha un’esposizione sud ed è stato mantenuto nel suo originario habitat circondato da boschi e prati. In questa dolce collina si coltivano due varietà di rosso: Cabernet Franc e Carbernet Sauvignon, e tre di bianco: Pinot Grigio, Chardonnay, Riesling secondo un rigido protocollo chiamato Regola della Valle d’Agno, in cui sono stati recuperati gli antichi principi dell’agricoltura locale".
Chardonnay 2007 La Bertolà
Un po' chiuso all'inizio. Note di nocciola e frutta fresca. In bocca buona mineralità e sapidità, per concludere con classici aromi di frutta tropicale.
Un faccino :-)
Cabernet Sauvignon 2007 La Bertolà
Complessità al naso con sentori di frutta rossa, soprattutto lampone. In bocca tannini morbidi e avvolgenti. Buon finale con lunghezza discreta. Può solo migliorare.
Un faccino che potrebbero diventare due a breve :-)
Pinot Grigio 2007 La Bertolà
Una piacevole sorpresa. Al naso soprattutto sentori di gemme di bosso e fiori bianchi. In bocca note interessanti e quasi aromatiche. Polpa di frutto matura con grande avvolgenza gustativa e una lunghezza incredibile con grande armonia.
Due beati faccini pieni e convinti :-) :-)
Riesling 2007 La Bertolà
Al naso si viene subito avvolti da note di erbe officinali, basilico con una dominante balsamica interessante. In bocca grande equilibrio e lunghezza con note floreali di ritorno.
Due beati faccini pieni e convinti :-) :-)

12 gennaio 2009

Masari e i vini della Valle dell'Agno

Mauro Pasquali
Alcune schede di vini che reputo molto interessanti, prodotti in Valle dell'Agno, nel Vicentino, da Massimo Dal Lago e Arianna Tessari.
L'azienda è Masari ed è nata nel 1998 con la volontà - dice il sito internet - "di coltivare e vinificare le uve provenienti dalle colline della vallata dell'Agno, sita nella parte settentrionale della provincia di Vicenza, rivalutando così la tradizione agricola che in questo territorio si stava quasi perdendo".
Ho avuto occasione di assaggiare tutta la loro produzione (di Massimo anche quella che proviene dalla tenuta La Bertolà, di cui parlerò in un prossimo appuntamento).
Quelle che leggete qui sotto sono le mie impressioni.
AgnoBianco 2007 Masari
Vitigni: 60% garganega e 40% durella.
Al naso subito la mineralità. E poi note di fiori bianchi e la morbidezza della garganega. In bocca tutta la sapidità e la freschezza della durella esce prepotente. Un bel vino e una bella beva che riassume le caratteristiche migliori dei vitigni da cui proviene.
Due beati faccini pieni e convinti :-) :-)
San Martino 2006 Masari
Vitigni: cabernet 50%, merlot 50%.
Al naso ti avvolge subito una decisa nota di caffè. Poi cioccolata, cuoio. In bocca l'aroma ti prende in un grande equilibrio con note sapide e tannini morbidi. L'uscita è lunga e piacevole.
Due beati faccini pieni e convinti :-) :-)
Masari 2006 Masari
Vitigni: cabernet 70%, merlot 30%.
Un grande vino. Peccato solo l'eccessiva giovinezza. Un affinamento più lungo può solo fargli del bene. Al naso spezie con preponderanza di pepe nero. I tannini un po' spigolosi denunciano l'eccessiva gioventù del vino. Da riprovare fra un paio d'anni dopo il completamento della sua evoluzione.
Due beati faccini che potrebbero diventare tre :-) :-)
Doro 2006 Masari
Vitigni: 60% durella, 40% garganega.
Una grande conferma. L'evoluzione dalle prime annate di questo splendido passito e la scelta di puntare solo su durella e garganega premiano. Al naso la frutta tropicale matura e l'albicocca. Ed aprono ad una bocca dove la dolcezza e la morbidezza sono sapientemente bilanciate dall'acidità e dalla sapidità.
Tre beati faccini :-) :-) :-)

10 gennaio 2009

Federico Giotto: la ricerca del terroir

Angelo Peretti
Considero Federico Giotto un genietto. Non dico genio, perché è giovane. Enologo. Consulente.
I "suoi" vini - e dico "suoi" fra virgolette, per dire che c'è sì ovviamente il suo intervento, ma mai invasivo, a mio vedere, ed anzi rispettoso - mi piacciono. Puliti. Armoniosi. In equilibrio.
Dà una mano a gente che comunque fa scuola, che è punto di riferimento e di discussione nei rispettivi territori. Che so: Corte Sant'Alda nella Valpolicella dell'est, Villa Monteleone nella Valpolicella classica, Le Vigne di San Pietro sulle colline moreniche del Garda, Le Fraghe in terra di Bardolino settentrionale, Firmino Miotto nella zona di Breganze, le Sorelle Bronca nel Coneglianese, Ilaria Ferrucci, succeduta a papà Stefano, in Romagna, ed altri ancora.
Guarda avanti, Federico. Quasi da visionario. Ma ha i piedi per terra. Nella terra. Perché è alla terra che guarda in realtà per orientarsi nel far (nell'aiutare a far) vino. E alla gente. Terra e gente. E vigna. Terra, gente, vigna: terroir. Ecco: quelli che aiuta a far nascere son propriamente vini di terroir. Che hanno un'anima. E per questo mi piacciono.
Per chi non lo conoscesse, pubblico qui sotto un link ad un suo video che ho scovato sul web. Certo, è un filmato pubblicitario della sua società di consulenza, la Giottoconsulting. Ma lui è proprio quello lì, come parla nel video. E dice cose che sembrano semplici, elementari. Ma che tali non sono. Buona visione.

9 gennaio 2009

Tecnicamente difficile

Angelo Peretti
Una delle notizie clou degli ultimi giorni del 2008. Gossip. Fonte: il settimanale A. Che ha raccolto una dichiarazione sconvolgente. Questa: "Il mio sogno ricorrente è fare l'amore in una vasca da bagno colma di cioccolato caldo fuso. Consiglio a tutti di provare..." Dichiarante: Michelle Hunziker.
Ora, non discuto dei gusti. Anzi, apprezzo la fantasia. Eppoi il cioccolato mi piace. Temo d'esserne dipendente. Una droga. Se mi mettono un limite anche qui, la patente è andata.
Ma dico: mi pare tecnicamente difficilotto. Intendo, far l'amore in una vasca di cioccolato. Denso, tannico: com'è che ti ci muovi? Caldo, poi, può dar noia seria. E come fare a tenerlo a temperatura? Che sennò comincia a solidificare e son guai. Pregasi fornire istruzioni. Dettagliate.

8 gennaio 2009

Corte Gondina - La Morra

Angelo Peretti
Ci sono stato quest'estate. Non ricordo se era fine luglio o i primissimi d'agosto. Tornavo da una breve vacanza in Francia. Mi è ricapitato fra le mani il depliant adesso. E m'è venuta un po' di nostalgia.
Sono stato proprio bene a Corte Gondina. In paese a La Morra, terra di Langa. Hotel di poche stanze ricavato dalla ristrutturazione della vecchia abitazione d'una maestra, Radegonda Oberto, detta, appunto, Gondina.
Parcheggio interno. Stanze ampie e ben arredate. Cortiletto per la colazione mattutina o per oziare la sera. Piscinetta con miniprato attorno per trascorrerci qualche ora in perfetto relax. E la mattina, uno straordinario buffet di cose buone, ma proprio buone: formaggi langaroli, salumi di valore, confetture da leccarsi le dita, pane che sa di pane.
Chi avesse voglia d'una sosta in zona di Barolo, tenga a mente quest'indirizzo.
Corte Gondina Hotel - Via Roma, 100 - La Morra (Cuneo) - tel. 0173 509781

7 gennaio 2009

Amarone, non pervenuto

Angelo Peretti
Che succede all'Amarone? Il vinone figlio dell'appassimento valpolicellese ha avuto in questi anni il vento in poppa. E il mercato pare resti posizionato sul buono. Con successo di vendita tuttora notevole in America, nel Canada, in Scandinavia, in Giappone. Eppure...
Eppure l'Amarone è il grand'assente dalla top 100 di Wine Spectator, la rivistona statunitense del vino, che dichiara orgogliosamente (e ci mancherebbe!) duemilioni e 476 mila lettori (il dato, certificato, è della primavera del 2008).
Fra i migliori cento vini dell'anno, secondo l'influentissimo wine magazine a stell'e strisce (beccatevi un punteggio oltre i 90 centesimi sulle loro pagine e vedrete gli ordini impennarsi), ci son quindici etichette italiane: sette son toscane (tre Chianti, tre Supertuscan, un Nobile), tre piemontesi (Barolo), due Friulane (bianchi), uno a testa per la Sicilia (un rosso igt), la Campania (una Falanghina) e il Veneto (un Soave). Amarone, non pervenuto.
Ma non basta. L'ultimo numero di Wine Spectator, quello che va da metà dicembre a metà gennaio e riporta la top 100, pubblica anche tre pagine intiere delle "highest-scoring releases of 2008", i vini insomma che han preso le valutazioni più alte sui vari numeri della rivista. E anche lì manca l'Amarone, mentre spopolano toscani e piemontesi, ma non solo.
Ma come, il super-rosso valpolicellista non è il vino preferito dagli yankees come ci han sempre predicato in questi anni? Evidentemente no, almeno per la critica vinicola. Il mercato amaronista continua ad andar bene, pare, ma per vini che giocano sul muscolo e sulla potenza come l'Amarone, la visibilità internazionale è importante. Esser trendy è vitale, ché quest'è soprattutto vino da special occasion. E se Wine Spectator comincia a snobbarti, qualche rischio ci può anche essere. Che stia cambiando la moda?

6 gennaio 2009

Champagne Extra Brut Fallet-Prévostat

Angelo Peretti
Santo cielo: adesso è tutta in salita. Intendo: dopo aver cominciato l'anno con uno Champagne del genere, dovrò impegnarmi per ritrovare altrettanta pienezza & piacevolezza.
Giallo dorato. Bolla finissima.
Naso complesso. Estremamente. Lievito, crosta di pane, sì, e piccolo frutto di bosco, e spezia tanta, e una leggera vaniglia, perfino cioccolato al latte.
Bocca setosa. Velluto. Pane caldo, appena sfornato, e note officinali. Focaccia al rosmarino. Tanto frutto giallo maturo. Croissant calda e burrosa ripiena di confettura di pesca. Panini al burro. Vene agrumate: kumquat. Citrino e vagamente aromatico.
Son le note che mi sono scritto in progressione.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

5 gennaio 2009

Statisticamente, una sbronza colossale

Angelo Peretti
I giorni scorsi s'è fatto un gran parlare di bollicine. Con tanto di statistiche.
Ho letto che in Italia "l’ultimo dell’anno salteranno 80 milioni di tappi". Considerato che siamo in 60 milioni, ma ci sono anche poppanti e ragazzini, vorrebbe dire che ciascuno di noi in una sola notte s'è ingollato più d'una bottiglia e mezza di spumante, diciamo due. Una sbronza colossale.
La fonte aggiungeva che di quei 60 milioni di bocce, 7 sarebbero state straniere. Avendone aperte due, vuol dire che rappresento quasi lo 0,00003% del consumo interno di bolle estere. È bello trovare una tua dimensione.

4 gennaio 2009

Rheingau Erbacher Macrobunn Riesling Kabinett 1989 Lagwerth von Simmern'sche

Angelo Peretti
Bere un bianco quasi ventenne potrà sembrare astruso a chi ha limitata visione de' bianchi. Ché non c'è nulla di strano a mettere nel bicchiere bianchi invecchiati, purché sian di quelli che reggono, ovvio. E se poi il bianco in questione è un Riesling tedesco, allora vent'anni possono perfino esser piccolo tempo.
Non ricordo dove e quando (e a quanto) ho comprato questa bottiglietta dell'89: 375 ml, gradi 9,5. Però ho fatto bene a comprarla. E a stapparla.
Il naso l'ho trovato perfino didattico: idrocarburi. Talché annusando il calice sembrava d'essere in una stazione di servizio a far gasolio. Oh, il Riesling del Reno è questo qui, quand'invecchia. E poi, coll'aprirsi, toni di spezia dolce e quasi vanigliata.
La bocca dolcina il giusto, tenuta in equilibrio da una freschezza ancora discreta. E memorie anche qui di spezia, e di dolcetto tedesco di Natale.
Avesse tenuto un po' di lunghezza in più...
Il guaio? Che vini così son pressoché inabbinabili col cibo. Ho provato: quasi impossibile. Alla fine ho ceduto: un gotto in solitudine.
Due lieti faccini :-) :-)

3 gennaio 2009

Oh, le patatine fritte...

Angelo Peretti
Oh, sì: non dovrei. Nessuno dovrebbe, probabilmente. Mangiar patatine fritte, intendo. Ma son come la Nutella: prima o poi ci caschi.
Ci son ricascato l'ultimo dell'anno. Per aperitivo, in due, un sacchetto di patatine classiche della San Carlo e una mezzina di bolle.
Bolle serie: Champagne. Il mio Champagne del cuore, il Brut Réserve di Michel Furdyna. Spettacolare, appunto, da apero. E anche a tavola ci sta eccome. Patatine e Champagne: che perversione.
Ecco: cerco di rifuggirle. Ma a volte proprio non resisto. Soprattutto certe sere che torno tardi da qualche conferenza, convegno, degustazione. Una sosta all'autogrill, un sacchetto dagli scaffali (ma perché tengono solo le confezioni maxi?) e poi sgranocchiare: croc! Che passione quello scrocchiare, quel crunch. Ché anche il suono conta. Credo ci facciano sopra degli studi. Perfino.

1 gennaio 2009

Bordeaux trentenni che si bevono eccome

Angelo Peretti
Sul finir dell'anno, fra Natale e l'ultimo, ho preso da qualche tempo l'abitudine di mettere assieme una degustazione di vecchi Bordeaux. Li compro man mano, prendendoli qui e là, soprattutto da collezionisti. Spuntando buoni prezzi. E poi me li bevo con un drappello d'enoappassionati. Stavolta è toccato ai Bordeaux del '78: trent'anni spaccati
Hugh Johnson, il sommo, nella sua pocket guide, dice che in quell'annata i rossi bordolesi furono "bei vini, ma alcuni mancano di corpo". Annata classicheggiante, insomma. E così m'è parso dalle bottiglie che abbiamo stappato. Alcune, ahimè, già di là dal capolinea (e qui sotto dunque non ne parlo), alcune semplicemente corrette, alcune altre per fortuna da bere con gioia.
La sintesi? Che i vecchi Bordeaux mi piacciono per la loro fantastica capacità di mantenere beva e piacevolezza nel tempo. Ché erano i vini dal frutto croccante e dalla vena acida e dal poco alcol e dal tannino non invadente. I vini dei tempi classici. I vini che piacciono, tuttora, a me.
Pensate: stappare bottiglie trentenni e trovarle, talvolta (e spesso) giovani ancora. E ad alcune daresti si e no cinque anni, e invece sono avanti di tre decadi.
Riporto dui di seguito il mio personalissimo giudizio in faccini, coll'aggiunta del voto medio, in decimi, conferito dai presenti.
Pauillac 1978 Chateau Grand Puy Ducasse
Ecco, questo qui, o meglio, questa bottiglia (ché bisognerebbe aprirne altre per vedere se si son diversamente conservate) è uno di quei vini che, per dirla con Johnson, si bevono ma "mancano di corpo". Eppoi quel che di legno a disturbare. Naso dal frutto sottilissimo. Lievi toni di liquirizia. Bocca fresca, ma un po' vuotarella. Finale sottilmente tannico.
6,181/10 - un faccino :-)
Saint-Emilion 1978 Chateau Cadet-Piola
Naso nettamente sul frutto rosso. In bocca il tannino è ancora quasi verde. E s'arrotola e sìinterseca sul frutto. E c'è bella struttura, ma la lunghezza non è di quelle che entusiasmano. E nel bicchiere, pian piano, va a spegnersi un pochino. In ogni caso, un buon rosso.
7,318/10 - un faccino e quasi due :-)
Graves 1978 Chateau Carbonnieux
Ed è subito lampone. Netto al naso, succoso e acidulo in bocca. Poi, all'olfatto ha proprio toni giovanili di frutto piccolo, anche di melograno. Bellissimo. In bocca appassiona magari meno. Ed ha acidità piuttosto alta. In ogni caso, averne.
7,818/10 - due lieti faccini :-) :-)
Pomerol 1978 Chateau La Croix de Gay
Naso un po' ostico da subito, ma poi s'apre sul frutto rosso. Bocca tannica, ma che fatica pur'essa ad aprirsi verso il frutto. Man mano invece eccolo concedersi. Ed escono fuori avvincenti note di menta e cioccolato.
8,182/10 - due lieti faccini :-) :-)
Saint-Julien 1978 Chateau Lagrange
Il naso magari fatica ad aprirsi. Il frutto si concede quasi con ritrosia, ma pian piano ecco le note officinali, e addirittura un che di prezzemolo. In bocca si presenta da subito d'una freschezza incredibile. Ed ha toni di amarena, di karkadè, di pompelmo rosa. E bel tannino. Vellutato, avvolgente.
8,318/10 - due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Saint-Emilion 1978 Chateau Croque Michotte
Bel vino, bel vino. Un Saint-Emilion di quelli classici. Balsamico al naso, erbaceo. Peperone anche, direi. E con note terziarie mineraleggianti. La bocca è ruvida, maschia. La prugna è matura, quasi essiccata. La lunghezza è considerevole. Tannino e freschezza in equilibrio. E vene officinali sempre più ampie. E lunghe.
8,864/10 - tre lieti faccini :-) :-) :-)
Margaux 1978 Chateau du Tertre
Uh, uh! Una delle star della serata. Un Margaux classicamente Margaux. Al naso da subito eucalipto e frutta rossa (il cassis, soprattutto), affascinante. E s'apre con progressione. E in bocca è uguale. Morbido, ma con una lunghezza stratosferica. Velluto, seta.
9,182/10 - tre lieti faccini :-) :-) :-)
Pauillac 1978 Chateau Pedesclaux
Ai punti, vince lui. Naso da subito ostico, chiuso. La bocca sa immediatamente di tabacco da sigaro, da pipa. Ed è però lunghissimo, e si apre con grande gradualità verso il fruto rosso, e diventa man mano succoso, e fresco. Di poi al naso butta fuori vene officinali, mentolate. E va avanti ancora in complessità. Wow!
9,318/10 - tre lieti faccini