31 luglio 2009

Vino in Vaticano

Angelo Peretti
Il web magazine Wine News ha scritto che, "stando ai rumors, il Governatore dell’Ufficio Economato della Santa Sede starebbe progettando una vera e propria enoteca con il meglio del vino italiano".
Vino in Vaticano, dunque.
Troppo facile e scontata la battuta sul Vin Santo e il Lacrima Christi.
La curiosità è vedere che scelte faranno col Sangue di Giuda.

30 luglio 2009

Giocarsi il vino col lotto

Angelo Peretti
Le retroetichette delle bottiglie - quelle che poi sarebbero le "vere" etichette, perché contengono i dati obbligatori per legge - indicano il lotto d'imbottigliamento. Un dato che però molti produttori scrivono in maniera astrusa. Lo capiscono solo loro. Invece, secondo me, sarebbe buona cosa se ci fossero giorno, mese, anno.
Ecco, mi capita sempre più spesso di guardare il lotto quando decido di stappare una bottiglia. Perché è un'informazione preziosa. Ti dice se quel tal vino ha riposato abbastanza nel vetro, e non è cosa da poco.
Credo che anche i degustatori delle guide e dei concorsi dovrebbero esser messi a conoscenza della data d'imbottigliamento dei vini che tastano. Non è la stessa cosa se un certo vino è nel vetro da una settimana, da un mese, da un anno. Cambiano - devono cambiare - le attenzioni, se non proprio i parametri di valutazione.
Se solo lo scrivessero tutti chiaro, il lotto. Essere criptici non aiuta in caso di valutazione: rischi di giocartelo il vino, col lotto illeggibile.

29 luglio 2009

L'appetito vien bevendo

Angelo Peretti
Leggo sulla versione on line del quotidiano La Stampa che uno studio, condotto dall'Università di Firenze, avrebbe appurato che siano sufficienti uno o due bicchieri di vino rosso per aumentare il flusso di sangue in "certe" zone del corpo (le virgolette sono sull'originale), aumentando così l'appetito sessuale delle donne.
La convinzione discenderebbe dall'esito di una ricerca condotta coinvolgendo 800 donne sane di età compresa tra i 18 e i 50 anni.
"Le donne che hanno assunto uno o due bicchieri al giorno di vino rosso - è scritto - hanno avuto un aumento del livello di desiderio sessuale" e comunque questo è stato maggiore che non quello delle donne che bevevano altri alcolici o che non assumevano alcol.
Opss! A questo punto mi chiedo se sia dunque a scopo precauzionale che le donne generalmente preferiscono bianchi e rosati.

28 luglio 2009

Côtes de Provence Sainte-Victoire Rose Bonbon 2008 Domaine des Diables

Angelo Peretti
Ditegli quel che volete, ai francesi, ma in fatto di marketing del vino non li batte nessuno. Vanno di moda i rosé? E allora avanti coi rosati di tendenza. Ben fatti. In tutti i sensi. Tecnicamente. Territorialmente. Stilisticamente. Comunicazionalmente. Aggressivi perfino nel packaging.
Prendete questo Côtes de Provence, sottozona Sainte-Victoire. Lo fa il Domaine des Diables, e allora in etichetta ti si ritaglia, giusto sulla o Rose, un cerchiolino che sotto fa vedere il color del vino, e da cui poi, sopra, spuntano due cornetti diavoleschi.
Il nome? C'è il gioco di parole fra rose e rosé, rosa e rosato. E poi il bonbon, la caramellina, evocativa, pur'essa nell'intitolazione.
Ci mettono il tappo sintetico, che teoricamente non è da gran vino, e allora, per nobilitare la scelta, in contr'etichetta che ti scrivono? "Garanti sans goût de bouchon", garantino senza sapore di tappo. Gli abbinamenti consigliati? "De l'apéritf au dessert, il accompagnera à merveille la cuisine du pourtour méditerrannéen et Asiatique". Universale.
Per il resto, è Provenza fin dal colore rosa salmone. E poi è fruttino al naso e in bocca (il bonbon...). E una vena verdina sauvignoneggiante, sottilmente aromatica. E poi un cenno di agrumi. Ed è tipicamente salatino. Ed è spregiudicatamente morbidino, che fa tanto moda. Ed ha la classicissima vena minerale ("de notre terroir"), che certo non guasta oggidì.
Se piace? E come fa a non piacere un vino del genere messo nel ghiaccio in una calda giornata estiva?
Preso on line su Vinatis.com a 8 euro.
Lieto il faccino :-)

27 luglio 2009

Le bottiglie inutili

Angelo Peretti
Ho messo un po' a posto la mia cantina. E per l'ennesima volta ho spostato quelle che chiamo le bottiglie inutili. In genere dei rossi igt. Veneti, veronesi. Quasi sempre figli dell'appassimento di uve di cabernet (o certe volte anche di merlot) e di corvina. Amaroneggianti.
Vini usciti nell'ultima manciata d'anni, dal 2000 in poi. Spesse volte sfornati da marchi importanti.
Bottiglie tecnicamente perfettine, cicciute e polposette nel frutto, vanigliate quel tanto, alcoliche, tanniche. Fatte per quel che s'è spesso sentito definire il mercato internazionale, che poi uno non sa neppure cos'è.
Son le bottiglie inutili, che probabilmente non stapperò mai, troppo grosse e grasse per metterle sulla tavola d'ognidì, troppo impersonali per darti delle emozioni.

26 luglio 2009

Salice Salentino Rosso Riserva 2003 Candido

Mario Plazio
Quello che non ti aspetti da un vino della famigerata annata 2003. E per giunta sudista. E che costa veramente poco. Cosa volete di più in questi tempi grami?
È fragrante e non tradisce maturità eccessive. Esibisce spezie, erbe (menta secca) e prugna.
La beva è snella senza cadere nella diluizione, resiste bene a centro bocca e finisce in maniera inattesa su ritorni di pepe e agrumi.
Solo dopo molto tempo di permanenza nel bicchiere escono delle note più calde di caffè, cacao e alcol che tradiscono il luogo e l’anno di provenienza, ma parliamo di sfumature.
Apprezzabili la coerenza e la compostezza: è perfetto oggi, ma saprà farsi amare ancora per due o tre anni.
Due lieti faccini :-) :-)

25 luglio 2009

Alsace Klevener de Heiligenstein l'Authentique 2007 Domaine Daniel Ruff

Angelo Peretti
C'è il klevener e il klevener de Heilingenstein. Sono nomi alsaziani. Il primo designa il pinot bianco, l'altro il vecchio traminer (o il savagnin rosé). Danno vita a due specifiche sottodenominazioni dei Vin d'Alsace. Poca roba. Che di solito non si trova fuori dell'area d'origine. Ed è già difficile trovarne qualche bottiglia là.
Il Klevener de Heilingenstein vien fatto, appunto, nelle vigne del paese di Heilingenstein e nella manciata di comuni che gli stanno attorno: quaranta ettari in tutto. E nel villaggio principe lo produce Daniel Ruff. E del suo Authentique un amico me n'ha portato una bottiglia. Che mi son bevuto davvero con piacere.
Bel naso, fra agrumi e spezia e fiori essiccati. E bocca succosa e ancora sontuosamente agrumata e fruttatissima. Il richiamo alla speziatura dei dolcetti tedeschi è netta e invitante. La freschezza è avvincente. La dolcezza ben integrata.
Che dire di più? Mettetevi a metà strada fra il Gewurztraminer e il Pinot Gris d'Alsazia e grosso modo capirete l'areale organolettico. Per me, vorrei averne qualche bottiglia ancora.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

24 luglio 2009

Chianti Classico 1995 Querciabella

Mario Plazio
Ecco, questo è il Chianti che vorrei. Lontano da inutili mascheramenti barricosi o da concentrazioni estreme fini a se stesse (o a spuntare punteggi nella stampa d’Oltreoceano).
Quando avvicini il naso avverti le note territoriali e giustamente evolute di terra, humus e a seguire tartufo. Poi compare anche la viola e una punta di alcol che vela leggermente gli aromi più fini.
La materia di classe rivela un profilo snello ma continuo e di notevole acidità vibrante.
A tratti sembra forse paralizzato dalle note terrose, ma col tempo sfodera anche aromi di fiori, spezie e mare.
Il tannino è ruspante, forse anche troppo, ma probabilmente siamo abituati a vini esageratamente levigati e non sappiamo accettare una certa ruvidezza che è congenita a certi vitigni e territori.
Un vino ancora vivo e che sembra all’apice dell’evoluzione.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

23 luglio 2009

Primo agosto: il cambiamento secondo Marco Sabellico

Angelo Peretti
Ho letto solo adesso il numero di luglio del Gambero Rosso. Rubrica Wine, di Marco Sabellico (nella foto). Titolo: "Agosto, si cambia!" e il riferimento è all'ormai imminente entrata in vigore della nuova Ocm (Organizzazione comune di mercato) del vino. Le rinnovate regole del settore vitivinicolo europeo, insomma. Che hanno messo in fibrillazione i consorzi di tutela, ché da adesso non potranno più fare i controllori, in quanto occorre rivolgersi a certificatori esterni.
Leggete qui sotto cosa scrive Sabellico, e le sue ipotesi pro futuro: meritano una riflessione.
"Morale: i consorzi - dice Marco - hanno perso la funzione di controllo, ci sono centinaia di posti di lavoro a rischio e soprattutto dal primo agosto qualcun altro dovrà fare i controlli. La soluzione più veloce e facile è fare ricorso a società di certificazione, che però, non essendo specializzate, non sono pronte, a meno che non assumano il personale già formato dai consorzi. I consorzi più grandi e strutturati sono già al lavoro e stanno siglando intese di questo tipo con le società di certificazione, ma dove i consorzi non ci sono o sono troppo piccoli la situazione è più complessa, probabilmente saranno le camere di commercio a svolgere questa funzione. Ma persi i soldi dei controlli, ce la faranno i piccoli consorzi a sopravvivere e a svolgere le loro funzioni? La soluzione più auspicabile sarebbe creare dei nuovi grandi consorzi che raggruppino più denominazioni".

22 luglio 2009

Un po' di Pepe (Emidio)

Angelo Peretti
Ho incontrato Emidio Pepe due volte. Tutt’e due al Vinitaly. Due anni fa per una degustazione di Montepulciano d’Abruzzo. Quest’anno per raccoglierne alcune parole destinate ad un libro. E sempre mi ha colpito la sua vivacità quasi di ragazzino. Gli anni sono avanti, ma quella luce negli occhi ti resta impressa.
Ti restano anche nella testa i suoi vini. Unici. Rustici. Personalissimi. Autentici. Raccontano la terra teramana, il microclima di Torano Nuovo, i suoi suoli tra il calcare e l’argilla.
All’ultimo Vinitaly mi ha spiegato tante cose mentre si sbocconcellavano un paio di piatti. Mi ha narrato della vigna e del vino.
La vigna. Lui alleva a tendone. E non gli piace invece “la” filare, al femminile. “Il tendone – m’ha detto – dà più equilibrio. È come un pannello solare: dà più forza all’uva, che viene più vellutata. Anche la filare potrebbe funzionare come un pannello solare, ma è messa in verticale anziché in orizzontale: prende poco sole! Ci sta forse qualcuno che mette i pannelli solari in verticale? No. Se lo mettesse, direbbero che quello è matto”.
La cantina. Lui fa pigiare coi piedi le uve del trebbiano e diraspare a mano quelle del montepulciano. M’ha raccontato: “Non uso la diraspatrice. Si mettono cinque persone e ogni otto ore di lavoro fanno cinque quintali di uva, a mano. Diraspano a mano, mettendo l’uva su una rete. I raspi restano sopra e vengono buttati e così pure i chicchi verdi. Gli acini maturi invece scendono sotto, solo parzialmente schiacciati. Il tannino cattivo se ne va e così il vino viene più morbido. Gli acini vanno direttamente nella vasca di cemento a fermentare. La fermentazione avviene senza follatura. Quando il mosto fermenta, la buccia è tutta bagnata. Anche facendo la follatura fai qualcosa che non va bene. Le pompe fanno morire gli esseri viventi che stanno lavorando nel mosto. Se usi le pompe, schiacci troppo e fai un gusto cattivo nel vino. Quello sta fermentando, non puoi andare a fare movimento. Lo danneggi. Quello lo devi lasciare stare”.
Un uomo modernamente antico. Come i suoi vini. Che non cercano il consenso a ogni costo. Che hanno personalità fin che ne vuoi. Prendere o lasciare: son così. E durano incredibilmente nel tempo.
Tra i simboli d'Abruzzo.

21 luglio 2009

La vendetta del pane

Angelo Peretti
Il pane, la sua fragranza. Volutamente, incoscientemente abbandonata, dimenticata, abiurata. Ora talvolta rimpianta. A tratti, solo a tratti, ritrovata. Ho avuto modo di conversarne pubblicamente - e peraltro d'altri temi ancora di gastronomia - qualche giorno fa a Verona con Licia Granello, giornalista di Repubblica. Donna intelligente. Gourmand curiosa ed errabonda.
Eravamo a Sorsi d'Autore, manifestazione di letteratura e vino. Si presentava il suo libro "Mai fragole a dicembre", Mondadori. Tomo di quattrocentottanta pagine, epperò diviso in capitoletti veloci da leggere, da assaporare, da gustare. Una scrittura pulita e dinamica. Consiglio di sbocconcellarlo nei giorni di vacanza.
Il pane, dicevo. N'ho voluto parlare perché m'aveva colpito come ne scriveva la Granello. Il pane era tutto, una volta. Poi siamo diventati ricchi, e l'abbiamo esiliato dal desco. "Poi - scrive Licia - è partita la delegittimazione. Abbiamo smesso di considerarlo un alimento importante, fondamentale, imprescindibile della nostra dieta quotidiana. Perché è cibo povero per antonomasia, e l'Italia del boom economico doveva individuare un capro espiatorio che la separasse visceralmente - nella pancia! - dalla guerra e dalla fame".
Ma c'è andata male. "Il pane - dice - allora si è vendicato. E piano piano ha perso la sua bontà. Ce ne siamo accorti con molti anni di ritardo, perché in fin dei conti non era così importante. Il trionfo della fettina, degli spaghetti con le vongole, dell'uovo di Pasqua e dei formaggini aveva spazzato il cibo d'antan così antico, superato, senza appeal, senza futuro".
Ed è vendetta atroce, quella del pane. Ché oggi è alimento a consumo orario. Poche ore dopo averlo preso, ecco che diventa duro il sasso o elastico come la gomma. Oppure sembra fatto di polistirolo. Sa di plastica. Immangiabile. E crescono le intolleranze alle farine. E gli stessi fornai s'ammalano d'allergia.
Allora, magari, ci si rifugia nel surrogato. Il cracker, il grissino, quant'altro si trovi in preconfezione. I pani dell'industria, del consumo veloce.
Ecco, dico io: questo surrogato di pane non è più simbolo di comunione. Il pane lo si divideva col compagno di tavola: com-pagno, quello che mangia il pane con te. Lo si univa all'altro alimento, che diventava com-panatico. Affratellava, univa. Oggi il pane in busta è simbolo della solitudine. La solitudine di chi vive freneticamente in mezzo ad altra gente, senza però averne condivisione alcuna. Semza compassione, senza com-passione, intendo. Il pane solitario. Ed anche questa è vendetta. E ce la siamo cercata.

20 luglio 2009

Ristorante Vecchia Malcesine - Malcesine (Verona)

Angelo Peretti
Non ho dubbi sul fatto che Leandro Luppi abbia raggiunto la propria maturità professionale. La sua cucina, nel suo piccolo ristorante stellato lacustre, il Vecchia Malcesine di Malcesine, alta riva veneta, è appagante, eppure anche nervosa e personale. E questi contrasti, privi di certe spigolosità d'un tempo, donano armonia. Come un Riesling della Mosella, se dovessi accostarla ad un vino la sua filosofia culinaria.
Ed è cucina, quella del Vecchia Malcesine, che poggia saldamente sul territorio, partendo dai pesci sottovalutati, quelli scioccamente definiti poveri, che non si pescano neanche più. Pur con qualche divagazione extra lago, sana eccezione che conferma tuttavia la regola.
Ho avuto la fortuna di cenare due volte di recente al Vecchia Malcesine: piatti coinvolgenti.
Ha insieme il velluto e il carattere la crema di patate, tartara di sarde del lago di Garda e caviale di aringa.
Pura creatività quel carpaccio bugiardo con olio dop, parmigiano reggiano e germogli che pare proprio carpaccio di carne e invece è anguria salata e scottata.
Splendidamente giocoso il "tonno del lago di Garda" crudo e cotto che valorizza con raffinatezza la carpa e il lavarello su un letto d'insalatina.
Sapidi e pieni gli spaghetti fatti in casa allo "scoglio di lago".
Intrigante e difficile e affascinante il risotto alla tinca affumicata e polvere di caffè hymalaiano, col caffè in polvere, sul fondo del piatto, che col calore del riso diviene gradualmente crema e cede carezzevole aroma.
Eppoi l'extra lago, con uno dei piatti più sensuali e geniali che mi sia capitato d'affrontare: un crudo di gamberi rossi di Sicilia con lime candito e gin tonic, e il sorso del gin tonic dal bicchiedere allunga all'infinito la dolcezza del gambero.
Grande.
Ristorante Vecchia Malcesine - Via Pisort, 6 - Malcesine (Verona) - tel. 045 7400469

19 luglio 2009

Guida poco che devi bere

Angelo Peretti
Ecco, se ragionare non si può, allora usiamo l'arma dell'ironia. Ed è davvero ironico e irriverente il cartellone ideato e fatto installare dai patron dell’agriturismo Casa Scaparone, una "osteria agricola" dalle parti di Alba, nel Cuneese. Dice: "Guida poco che devi bere". Rovesciando, scarnificando il tormentone probizionista del "se bevi non guidi".
Ben fatto, per la miseria, ben fatto!
Leggo che Oscar Farinetti, l'uomo che ha inventato Eataly, avrebbe detto che "è un'idea geniale". Condivido.
Dunque avanti con la battaglia dello sberleffo: sotto a chi tocca, e largo alla creatività. Ribelliamoci con un sorriso.
Ripeto: se non si può ragionare seriamente nei pubblici consessi, ché oggi domina la fobia proibizionista, e se dici che quello 0,5 è insensato, allora seppelliamola davvero con una risata, l'assurdità dell'alcoltest, figlia di quell'ideologia della "tolleranza zero" che massacra una cultura e un'economia.
Perché è chiaro che chi cerca lo sballo non gliene frega proprio un fico secco di alcun limite. E chi invece beveva - e con moderazione - per il sano piacere dello stare a tavola, oggi ha paura. Ma instaurare un clima di paura non è civiltà.

18 luglio 2009

Soave Classico Monte Fiorentine 2001 Cà Rugate

Mario Plazio
Semplicemente uno dei più buoni bianchi italiani assaggiati negli ultimi mesi.
Da tempo il Monte Fiorentine dei fratelli Tessari è un vino esemplare per aderenza al territorio e grande eleganza. Mancava la prova del tempo alla quale il vino ha reagito con una dimostrazione davvero inaspettata.
Il naso è complesso, diviso tra note ancora fresche di limone confit e aspetti più evoluti che vanno dalla cera d’api alla mandorla, fino a sfumare nella crema di tartufo (come un buon Mersault).
La mineralità è data da sentori di sasso bagnato.
Tutto questo ci viene offerto con assoluta eleganza formale, senza alcun eccesso.
La dinamica gustativa ricorda anche qui un vino francese di quelli “giusti”, per gradualità e compostezza. Di Soave porta con sé una spensierata leggiadria che troppo spesso negli ultimi anni si tende a soffocare a vantaggio di strutture muscolari del tutto inutili.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

17 luglio 2009

Grazie mille, Mr. Johnson

Angelo Peretti
Sono un fan di Hugh Johnson. Il più grande giornalista del vino al mondo. Se c'è un suo pezzo su Decanter lo leggo tutto d'un fiato. L'uscita della sua guida annuale - tascabile e praticissima e iper sintetica - è un appuntamento che non mi perdo: mi son messo a comprarne l'edizione inglese, per evitare l'attesa di quella italiana.
Cito qui di seguito un suo pensiero: "Mi domando quanti lettori si stiano stancando come me del legno. Il troppo è troppo. I vini ben fatti non hanno bisogno di sapere di falegnameria, e neppure di quel sentore di vaniglia che asciuga la bocca, così come un buon piatto non ha bisogno di ketchup".
Cosa dite? Che è una frase ovvia per voi che siete appassionati di vino "vero"? Può essere, ma 'sta roba Hugh Johnson l'ha scritta nel febbraio del 1993. Quando dire cose del genere significava essere in controtendenza.
L'ho riletta, quella frase, sull'ultimo numero di Decanter: ci son due pagine d'omaggio al suo settantesimo compleanno. E si riportano brani d'una sua intervista e citazioni di vecchi articoli.
Per esempio, novembre 2001: "Perché i winemaker ci stanno dando vini da 14 gradi e mezzo, che se passi il primo bicchiere ti procurano di sicuro il mal di testa? La ragione è che è più facile fare vini che vincono i concorsi se hanno più alcol. Sono l'unica persona che legge il grado alcolico e sceglie il più basso? La qualità d'un vino non viene dalla sua forza, ma dalla concentrazione: non c'è nesso fra le due cose".
Riporto poi la fine dell'intervista di questi giorni: "Sono un ottimista, così tendo ad aspettare molto tempo prima di bere un vino, spesso troppo a lungo. Ma penso che se è buono oggi, forse lo diventerà un po' di più. Poi commetto l'errore fatale: mi piace bere i vini che siano over the top, oltre il loro apice. Ma un vino che è passato si dichiara in una certa maniera, le sue origini diventano chiare e così puoi perdonargli le sue mancanze perché ti porta indietro con la memoria. Non c'è nulla di oggettivo: posso amare un vino perché amo la persona che l'ha fatto. Sono del tutto sfacciato su quest'aspetto".
Grazie mille. Mr. Johnson.

16 luglio 2009

La fame, il cibo, l'acqua

Angelo Peretti
Chi l'ha già letto, il testo lo riconoscerà subito, e dunque non c'è suspense.
Per gli altri, invito alla lettura - attenta - della lunga citazione qui sotto, e poi dico chi è l'autore. Avvertendo che si tratta di cosa recentissima.
"Il problema dell'insicurezza alimentare va affrontato in una prospettiva di lungo periodo, eliminando le cause strutturali che lo provocano e promuovendo lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri mediante investimenti in infrastrutture rurali, in sistemi di irrigazione, in trasporti, in organizzazione dei mercati, in formazione e diffusione di tecniche agricole appropriate, capaci cioè di utilizzare al meglio le risorse umane, naturali e socio-economiche maggiormente accessibili a livello locale, in modo da garantire una loro sostenibilità anche nel lungo periodo. Tutto ciò va realizzato coinvolgendo le comunità locali nelle scelte e nelle decisioni relative all'uso della terra coltivabile. In tale prospettiva, potrebbe risultare utile considerare le nuove frontiere che vengono aperte da un corretto impiego delle tecniche di produzione agricola tradizionali e di quelle innovative, supposto che esse siano state dopo adeguata verifica riconosciute opportune, rispettose dell'ambiente e attente alle popolazioni più svantaggiate. Al tempo stesso, non dovrebbe venir trascurata la questione di un'equa riforma agraria nei Paesi in via di sviluppo. Il diritto all'alimentazione, così come quello all'acqua, rivestono un ruolo importante per il conseguimento di altri diritti, ad iniziare, innanzitutto, dal diritto primario alla vita. È necessario, pertanto, che maturi una coscienza solidale che consideri l'alimentazione e l'accesso all'acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani, senza distinzioni né discriminazioni".
Affermazioni importanti, che fanno riflettere.
L'autore? Papa Benedetto XVI. Parole prese pari pari dalla sua enciclica Caritas in Veritate: è del 29 giugno scorso.

15 luglio 2009

Ma il Tavernello è il miglior vino d'Italia?

Angelo Peretti
Su un'autorevolissima testata com Il Sole 24 Ore, Nicola Dante Basile c'informa che al quarto posto fra i vini più venduti al mondo c'è il Tavernello. Proprio lui, "il vino in brick di cartone poliaccoppiato Tetra Pak": fra Italia e un'altra quindicina di paesi se ne piazzano qualcosa come 140 milioni di confezioni.
Mi vien da sorridere quando, trovandomi a criticare la spregiudicata ruffianeria di certe bottiglie, mi si obietta che "però vendono e dunque son buone". Mi si dice: "Se i consumatori premiano quella bottiglia, allora è buona". In questi casi, rispondo immancabilmente che se il successo commerciale è sinonimo di bontà, allora il Tavernello è in assoluto il miglior vino d'Italia. Forse del pianeta intiero. E del resto anche tecnicamente sa il fatto suo. Quel che non avrà mai - e che non può e neppure vuole avere - è la personalità, la rispondenza a quel che in Francia chiamano terroir. Eccola qui la differenza.
Ma non mi si dica che il vino buono è quello che vende di più, se non si è disposti a cantar le lodi del Tavernello.

14 luglio 2009

C'era una volta il Durello

Mauro Pasquali
Questa è una favola e, come tutte le favole, dovrebbe avere un lieto fine. Ma qualche volta anche le fiabe non finiscono proprio così bene. Il finale di questa fiaba non è ancora scritto e forse non lo sarà mai. Ognuno è libero di immaginarlo lieto o triste. Da parte mia vi è, al momento, una grande paura: che il Principe Azzurro non giunga in tempo per svegliare Biancaneve.
Esisteva una volta, sui monti che fanno da confine fra le province di Vicenza e Verona, un'uva che dava un vino aspro, acido, quasi imbevibile. Non per nulla l'uva aveva diversi nomi, ma tutti richiamavano le sue caratteristiche: cagnina, rabiosa, durasena, caina, quasi a voler indicare, e così era, un'uva scorbutica, difficile da trattare e da vinificare. Il vino che se ne otteneva, dicevano i contadini, aveva “garbo”, intendendo con questo non la gentilezza, bensì l'esatto opposto.
Poi arrivarono dei vignaioli che cominciarono a capire la durella e a trattarla meglio. Cominciarono a farla maturare e, soprattutto, cominciarono a vinificarla nel modo che le è più congeniale, spumantizzandola. Sì, perché la durella ha naturalmente un'acidità fra le più alte delle uve conosciute e questo la rende oltremodo adatta ad essere spumantizzata, sia che si produca un metodo classico, sia che si opti per un più veloce charmat.
Queste persone non dimenticarono, poi, che il durello era anche un vino di tutti i giorni, da pasto, e cominciarono, pian piano, a migliorare anche il vino fermo, rendendolo bevibile e gradevole al palato.
E venne la stagione d'oro del Durello: inizialmente tre, quattro produttori, poi, via via sei, sette, dieci. Oddio, non numeri grandi come altre zone, ma pur sempre bei numeri per il Durello. Numeri interessanti anche commercialmente, sull'onda di un prodotto che, finalmente, usciva dal limbo dei pochi appassionati e cominciava a farsi conoscere al grande pubblico. E, soprattutto, un prodotto che manteneva intatte la propria personalità e le proprie caratteristiche.
Poi... poi arrivò qualcuno che cominciò a pensare che, forse, il Durello era ancora troppo “rustico”, con troppa personalità per piacere a tutti e, per poter fare un ulteriore salto di vendite e volle renderlo più “facile”, più internazionale (ahi, ahi, ecco che ricadiamo nel solito vizio italico di inseguire le mode). E il Durello si trovò così, di punto in bianco, ad essere trasformato in una brutta copia di altri prodotti, riducendosi ad essere né carne né pesce. Si trovò a competere con altri spumanti e, nella smania di rincorrerli e di ritagliare per sé uno spazio nel loro mercato, cominciò a snaturarsi, ad ammiccare alla dolcezza, a diventare ruffiano, lui che ruffiano e facile non era mai stato.
E arriviamo ai nostri giorni. Il Durello giace, come Biancaneve, apparentemente morto. Forse arriverà qualcuno che, come il Principe Azzurro risvegliò Biancaneve, risveglierà il Durello e lo porterà a vivere nel suo castello incantato e gli darà nuova vita. O, forse, il principe azzurro, non arriverà mai e Biancaneve si sveglierà attorniata dai sette nani e continuerà, per tutta la vita, a fare da serva ai simpatici minatori.

13 luglio 2009

Quando la tipicità è nemica del tipico

Angelo Peretti
Se avrò tempo, nell'aprile del prossimo anno - manca una vita - ci andrò anch'io a quell'Assemblea delle Biodiversità del Mezzogiorno che Luciano Pignataro (nella foto), bravissimo giornalista e blogger partenopeo, e prima di tutto bella persona, ha in animo d'organizzare. Ci andrò a maggior ragione avendone letto quella sorta di manifesto ideale ch'è contenuto sul suo portale e che chi vuole - e lo consiglio - può leggere per intiero cliccando qui. Per gli altri, più pigri, riporto due passaggi. Emblematici.
Il primo è questo: "Secondo voi cosa è più pericoloso per la sopravvivenza delle 45 specie di fagioli nel Parco Nazionale del Cilento? I fagioli borlotti in scatola o i fagioli di Controne? E per la sopravvivenza del Piedirosso? Il Cabernet Sauvignon o l'Aglianico? Da un punto di vista commerciale globale, immediato, sicuramente le 45 specie e il Piedirosso hanno da temere maggiormente dai borlotti e dal Cabernet, ma sul piano ideologico, di prospettiva, la concorrenza della tipicità citate è di gran lunga più insidiosa e determinante".
Il secondo è questo: "Chi osteggia l'omologazione del gusto e il processo di globalizzazione gastronomica trova scudo più facile e immediato nella forza di uno o due tipicità per fermarlo: diciamo il Fiano piuttosto che lo Chardonnay, il pomodorino del piennolo piuttosto che il Roma. Il rischio culturale di questo atteggiamento è quello di rispondere con una semplificazione ad una semplificazione con l'ottenimento dello stesso risultato: la distruzione della biodiversità. Chè è noto il processo imitativo delle campagne, restie alle novità e rapide nel cambiamento appena il vicino inizia a fare reddito con un prodotto o una tecnica diversa".
Parole sante. Anzi, sacrosante.
Nel momento in cui un prodotto "tira", una tipicità "vende", tutti a piantarla, a coltivarla, ad allevarla. Estirpando, annientando, annullando altre tipicità. Nell'attimo in cui una tecnica produttiva - vedi l'appassimento in Valpolicella - dà risultato, tutti a seguirla ciecamente. Col risultato d'una buona redditività di breve periodo e un crollo reddituale a medio-lungo.
Attratti e ingolositi dal prezzo, si va a copiare il prodotto di successo. Ma la legge dell'economia è implacabile: quando l'offerta supera la domanda, il prezzo crolla. Inevitabilmente. E intanto quel che poteva essere la produzione alternativa, storica e tradizionale, se n'è finita nel dimenticatoio. Magari estinta.
Cosa che fa dire a Luciano - ma non nell'articolo sopra linkato, bensì su Facebook - che "la tipicità è la migliore alleata della omologazione del gusto". Letto, approvato, sottoscritto.

12 luglio 2009

Côtes de Provence Les Confidentielles 2008 Domaine Saint Andre de Figuiere

Angelo Peretti
Leggo che questo rosé è stato fatto per la prima volta nel 2008. Nel senso che mai prima le uve di questo vigneto erano state vinificate in rosa.
Vino bio, per il quaranta per cento dall'uva di mourvèdre, eppoi per il resto, in parti uguali, cinsault e grenache. I vitigni della Provenza e più in su della Rhône. Roba tosta.
Leggo pure che ha fatto macerazione pellicolare a bassa temperatura e pressatura pneumatica e fermentazione e affinamento in acciaio. In bottiglia a metà febbraio.
Adesso passo al bicchiere.
Il colore è tra il fior di pesco e l'aranciato. Classicamente Provenza.
Il naso è sottilmente, elegantemente floreale e agrumato. In bocca c'è sale e polpa di fruttino rosso e florealità assieme, e freschezza ed equilibrio e mineralità sottesa. E il finale è asciutto.
Bel rosé provenzale.
Costicchia: comprato su Vinatis.com a 22,50 euro, che non è poco.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

11 luglio 2009

Far l'amore nelle vigne

Angelo Peretti
Il brano è Due Mondi. L'album Anima Latina. Lucio Battisti. Dice: "Voglio te, una vita. Far l'amore nelle vigne". M'è venuto in mente leggendo l'ultimo numero di Decanter, "the world's best wine magazine", la miglior rivista di vino al mondo, come s'autodefinisce. Sul numero d'agosto, appena arrivato, c'è un servizio piuttosto curioso. Firma Margaret Rand. S'intitola "40 things every wine lover should do", le quaranta cose che ogni appassionato di vino dovrebbe fare. Al quinto posto: far l'amore in un vigneto.
Una considerazione: mi piace che una delle testate che fanno tendenza nel mondo del vino cominci a non prendersi sempre e per forza sul serio. Il vino è anche divertimento. Sennò diventa una qualsiasi, barbosa porzione dello scibile.
Ora, così per gioco, vorrei riprendere le prime dieci di quelle quaranta cose.
1. Imparare a usare il decanter.
Dice Decanter (il giornale): non dovete decantare solo per questioni pratiche: i bianchi e i rosé sono affascinanti nei decanter.
Dico io: verissimo, ma siamo sempre di corsa. Ed è un peccato. Comunque, se siete tra quelli che non sopportano la solforosa nei bianchi giovani, prendetevi una bacinella, riempitela di ghiaccio e poggiate sui ghiaccioli il decanter riempito col vostro vin bianco giovinetto. Il ghiaccio lo mantiene freddo, la pancia del decanter aiuta la solforsa a disperdersi.
2. Comprare qualche bicchiere Riedel di vetro soffiato (e farne cadere uno).
Dice Decanter: i bicchieri Riedel aiutano davvero il vino ad esprimersi. Ma sono cari. E una volta ve ne rompono uno, un'altra ve ne cade un altro, e allora cominciate a chiedervi se non possiate trovare qualcosa di più economico. Potete.
Dico io: a me piacciono i Rastal della linea Harmony. Sono eleganti, pratici, maneggevoli. E soprattutto costano poco e sono (quasi) indistruttibili.
3. Sposare un vignaiolo (una vignaiola).
Dice Decanter: anche loro si devono sposare. Ma vi deve piacere vivere in campagna, perfino in febbraio, e non dovete aver problemi a svegliarvi presto.
Dico io: sono sposato con un'insegnante, e credo mi solleverebbe qualche obiezione.
4. Bere vino del vostro anno di nascita.
Dice Decanter: provate a esser nati in una grande annata. Chiunque sia oltre i 40 dovrebbe prendere in considerazione i Bordeaux, il Porto, i Sauternes, i Vouvray dolci o i Riesling tedeschi.
Dico io: da questo punto di vista, ho avuto una certa fortuna a nascere nel '59. Buona annata in Francia e in Germania. E infatti non è poi così raro che riesca a stappare Bordeaux e Riesling del mio anno.
5. Far l'amore in un vigneto.
Dice Decanter: per forza furtivamente e di notte, in un famoso vigneto. Alcuni sono più adatti di altri. Quelli tedeschi possono essere pericolosi con le loro pendenze, quelli di Chateauneuf-du-Pape troppo scomodi con tutte quelle pietre. Gli angoli più riparati della Côte d'Or possono essere una buona soluzione.
Dico io: e con l'umidità notturna dei vigneti come la mettiamo? Perché no in piedi, addossati a un antico muro di cinta d'un brolo veronese o d'un clos borgognone?
6. Cenare a foie gras e Château d'Yquem.
Dice Decanter: è la più sublime combinazione di cibo e vino che esista.
Dico io: bisognerebbe aver sposato una vignaiola ricca (vedi punto 3).
7. Bere un grande Bordeaux in un bicchiere di plastica con del cibo preso in un takeaway.
Dice Decanter: ok, già fatto. Ma potreste fare un ironico omaggio al film Sideways.
Dico io: adoro Champagne e patatine fritte (di quelle in busta).
8. Visitare Vega Sicilia
Dice Decanter: è come Fort Knox, non accettano visitatori, perfino i commercianti di vino vengono rifiutati.
Dico io: e anche berseli, i vini di Vega Sicilia, non è così facile (vedi punto 6, che rimanda al punto 3).
9. Bere un Madeira di quando Maria Antonietta era sul trono di Francia (o almeno di quando Vittoria era sul trono britannico).
Dice Decanter: ci potrebbe essere un'altra connessione più immediata ed emozionante col passato?
Dico io: segnarsi di cominciare ad avvicinare il mondo dei Madeira.
10. Raccogliere fossili in un vigneto grand cru di Chablis.
Dice Decanter: il posto ne è pieno.
Dico io: so che è una bestemmia, ma faccio fatica a bere chardonnay.

10 luglio 2009

Macché nero: al massimo uno spumante abbronzato

Angelo Peretti
Leggo su più di una testata che la celeberrima maison spumantistica trentina Ferrari ha deciso di regalare casse del Ferrari Perlè Nero 2003 ai capi di stato riuniti a L'Aquila per il G8.
Congratulazioni all'ufficio stampa dei Lunelli per la grande visibilità mediatica. Però, mi domando: ma non lo sanno quelli dello staff della casa tridentina che dare del Perlè Nero al presidente Obama non è politically correct? Al massimo, avrebbero potuto preparargli una limited edition di un Perlè Abbronzato.

9 luglio 2009

Ma quanto bevono i grandi del mondo?

Angelo Peretti
Inutile nasconderlo: sono preoccupato. I grandi del mondo, riuniti a L'Aquila per il G8, devono decidere di cose serissime. E intanto si sbronzano.
Credo proprio vada a finire così, perché leggendo i giornali di questi giorni e le quintale di comunicati stampa che m'intasano la casella di posta, Obama & company sono impegnati a bere fiumi di vino, altro che sciogliere i nodi della finanza, dell'economia, della sicurezza, dell'ambiente.
Qualche esempio? Da una parte apprendo che "su iniziativa della Presidenza del Consiglio e del Dottor Guido Bertolaso, Luca Maroni ha selezionato i migliori vini d’Abruzzo per i pranzi e le cene del G8 serviti all’Aquila ai Capi di Stato". Sul sito del Gambero Rosso leggo invece che è lo staff gamberista ad aver selezionato per i big internazionali "alcuni dei prodotti simbolo (dai salumi ai formaggi, dalla pasta ai dolci) firmati dalle migliori aziende artigianali italiane e affiancati dai vini di 60 delle cantine italiane di maggior prestigio". Un altro sito avverte che il Giustino B., un Prosecco della Ruggeri, "non è uno degli Otto Grandi della Terra, ma sarà comunque presente al G8 che si terrà all'Aquila dall'8 al 10 luglio 2009. Giustino B., insieme a Ferrari di Trento e a Bellavista del Franciacorta, tanto per citarne alcuni, verrà degustato e sicuramente apprezzato da tutti". E potrei continuare.
Dico: non sentite anche voi un brivido correre lungo la schiena?

Côtes du Rhône Belleruche 2007 M. Chapoutier

Mauro Pasquali
Quando si apre una bottiglia che costa meno di 10 euro - anzi 8,70, per essere precisi -, sei anche disposto ad accettare che non tutto sia perfetto, o quasi. Sei anche disposto a scendere a qualche compromesso. Ma quando apri una bottiglia come questa, capisci che chi va in giro a dichiarare che non è possibile bere vini straordinari se non pagando decine e decine di euro, capisci che questa persona o è in malafede o si fa incantare dal nome e non dalla sostanza. Chapoutier non è certo l'ultimo arrivato. La casa fa vini nella valle del Rodano da due secoli. Vini che costano anche qualche decina di euro e che sono (quasi) sempre ad un livello qualitativo di eccellenza. In questo caso stiamo parlando di un prodotto che dovrebbe essere nella parte bassa della gamma ma, che prodotto!
Uve grenache e syrah, al naso un bel frutto croccante con note di piccoli frutti di bosco e amarene. In bocca grande complessità dove, ai sentori nasali, si aggiungono aromi di spezie e liquirizia ed una bella acidità. Un finale asciutto e fresco, che lascia la bocca bella pulita.
Un vino da comprare e bere subito, magari abbinandolo a delle costolette di agnello ai ferri.
Tre beati faccini pieni e convinti :-) :-) :-)

8 luglio 2009

Un'autostrada distruggerà i vigneti della Mosella?

Angelo Peretti
Ecco qua la soluzione: fare strade, autostrade e ferrovie al posto dei vigneti. Altro che patente a punti: questa è soluzione perché giri meno vino. O così almeno credo la pensino i politicanti di mezz'Europa, visto che l'hobby preferito è quello di distribuire a piene mani vie di traffico tra le vigne.
Dalle mie parti si sta aspettando che l'alta velocità rada al suolo ettari di vigna in Lugana, buttando giù perfino un cascinale antico: e pensare che se vuoi spostare di tanto così una finestrella a casa tua sembra di chiedere chissà che cosa.
Adesso leggo su Decanter che in Germania, nella Mosella per la precisione, c'è il progetto di far passare una nuova autostrada, con tanto di gigantesco ponte, di traverso fra alcuni dei migliori cru del mio amatissimo Riesling. Giù asfalto fra i vigneti di Himmelreich e Würzgarten. E largo all'inquinamento e alla modificazione di quel magico microclima che fa sì che lì si producano alcuni dei più grandi bianchi del mondo.
Ma, dico io, siamo impazziti?
E pensare che da quelle parti c'è anche qualche produttore che non è d'accordo coi suoi colleghi che s'incavolano, e sostiene che invece l'autostrada porterà nuovi visitatori e maggiori affari. Ma va là.

7 luglio 2009

La buona educazione non c'è nei menù

Angelo Peretti
Metti una sera a cena in riva al lago. Il cielo e l'acqua sono d'argento, poi virano verso le cento sfumature del grigio e del blu, finché cala il buio e le lucine dell'altra riviera somigliano a un presepio.
Metti che in tavola ti portino cucina dai sapori delicati e precisi.
Metti che al tavolo accanto al tuo ci sia un tale e che il tale blateri a voce altissima e gracchiante per tutta la sera, senza interrompersi mai, a bocca vuota e perfino a bocca piena. Petulante. E che il suo commensale, per di più, si fumi una pestifera sigaretta dietro l'altra.
E allora il cielo è meno argenteo e il presepio è meno fascinoso e il fritto meno fragrante. E insomma, la serata è quasi da buttare.
La buona educazione non la si trova nei menù di certa gente.

5 luglio 2009

Che splendido bere che ho trovato in Franciacorta

Angelo Peretti
Questa è la cronaca, o sedicente tale, d'un incontro che qualche mese fa avrei detto impossibile. Primo: perché la controparte è persona con la quale ci siamo mandati reciprocamente a quel paese per mesi. Secondo: perché il tale mi ha provocato dicendomi che io, champagnista convinto, avrei potuto trovare in Franciacorta delle bolle da spettino.
Il tale è Giovanni Arcari, wine talent scout - la definizione è di Franco Ziliani - che bazzica ormai da bel tempo per cantine a cercar l'essenza del vino. Che ha idee sue sulla materia enoica (e questo è un pregio). Che ha un caratterino di carta vetrata (ma anch'io, del resto). E che adesso è diventato anche wine blogger col suo TerraUomoCielo, titolazione che riprende quella d'un progetto che lo vede impegnato ad allevare giovani talentuosi vigneron bresciani.
Ordunque, partito alla volta della Franciacorta, mi son preparato al match, ed è stato match durissimo, talché, seduti a tavola attorno all'una, ci siamo alzati verso le otto di sera. E - volete che vi dica? - ne sono uscito sconfitto: vero, ho trovato gran belle bolle franciacortine, e dunque mi sa che da quelle parti cercherò di tornare più spesso. E bravo Arcari.
Una, in particolare, di quelle bolle, starà scritta a lungo nell'album della memoria: un Franciacorta Rosé Camossi, sboccato addirittura nell'ottobre del 2007. Pinot nero all'ottanta per cento, ammorbidito con un taglio di chardonnay, zucchero bassissimo. Sintesi scritta sulla mia Moleskine: "wow!", e credo non serva altro, per il mio ricordo. Per chi non ha avuto la stessa mia fortuna, dirò che vi ho trovato naso fascinoso, elegantissimo: fruttini tanti e rose in fiore, tante anch'esse, e poi albicocca e pesca perfino e addirittura vaghe tracce officinali. Pazzesco. E poi bocca polposa, robusta da vin rosso, pinoteggiante in toto con quella fragolina così persistente. Uno dei più bei vini con le bollicine che mi sia ritrovato nel bicchiere negli ultimi tempi.
Buono anche il resto che ci siamo scolati.
Prima il Franciacorta Brut, base di casa Camossi, appena 7 grammi di zucchero, eppure morbidamente avvolgente nella carbonica benissimo gestita. Piacevole aperitivo.
Poi il Franciacorta Dosaggio Zero di Colline della Stella, casa che i vini li fa solo non dosati, e ci vuol coraggio mica da poco a far scelte così estreme. Ed estrema è anche - per la Franciacorta - la loro vigna, su terrazze a trecencinquanta metri d'altitudine (vedasi foto). La base mai ha visto legno. Ed è vino che ha carattere e personalità, ed è salato e sapido e tagliente e affilato, e ancora è quasi crudo, alla faccia della sboccatura ormai remota, datandosi ai primi di febbraio del 2008, e dunque promette ancora gran bell'evoluzione. Da mettere in cantina a botta sicura.

Breganze Vespaiolo 2008 Firmino Miotti

Angelo Peretti
Oh, oh! Ecco che arriva il Vespaiolo a far capolino fra i bianchi che intrigano nel panorama bianchista del Veneto. Ecco: è così che si valorizza quest'uva fin qui un po' bistrattata. Lavorando sodo in vigna e in cantina. Come han fatto in casa Miotti.
Ebbene sì, 'sto Vespaiolo di Breganze intriga un bel po'. Perché ha un carattere curioso e a tratti magari rustichetto, ma con quel suo frutto e quella vena mandorlata sa dire la sua.
Ha dunque naso fruttato assai, e sono sentori di pesca gialla matura, di nespola del Giappone, e anche un pochetto - dicevo - di mandorla amara. Eppoi alla lunga escono i fiori.
La bocca è piuttosto polposa, eppure intrisa di nervose vene acide. C'è ancora tanto frutto giallo avanti con la maturazione. In corrispondenza coll'olfatto. E di nuovo la mandorla e direi quasi il nocciolo di pesca, in rilievo.
Un vino, insieme, di carattere e di beva.
Due lieti faccini :-) :-)

3 luglio 2009

Un galateo del tappo a vite

Angelo Peretti
In italia il tappo a vite - e meglio sarebbe a dire capsula a vite - ancora stenta, sul vino. Ma all'estero, e soprattutto nei "nuovi mondi" vinicoli - ma anche sempre di più in Germania, che "nuovo mondo" è affatto -, è invece ormai pressoché norma. Tant'è che chi siede al tavolo d'un ristorante non si formalizza. A meno che succeda di porsi la questione evidenziata da un lettore di Wine Spectator sull'ultimo numero della portaerei della comunicazione enoica internazionale.
Dice costui che, uscito a cena in un buon ristorante, ha ordinato il Two Hands Shiraz, imbottigliato in tappo a vite, appunto. Il cameriere ha portato al tavolo la bottiglia e l'ha lasciata lì, chiusa, e questo non gli è evidentemente piaciuto molto. "Qual è la maniera corretta di servire un vino col tappo a vite?" si chiede dunque il lettore?
Wine Spectator risponde d'aver domandato il parere a un certo numero di sommelier e che no, non esiste uno specifico protocollo di servizio per i vini con lo screw cap. Ma se è pur vero che il tappo a vite riduce nella sostanza il rischio che il vino risulti contaminato dal tca, responsabile di quello che si chiama "odore di tappo", questo non vuol dire che il vino possa esser messo lì sul tavolo come nulla fosse.
La presentazione della bottiglia va effettuata dunque nella maniera convenzionale, in modo che il cliente possa verificare se l'etichetta e l'annata corrispondono. Inoltre, chi fa servizio dovrebbe comunque stapparla e versare un po' di vino a chi l'ha ordinato. Perché se il rischio tca è quasi inesistente, c'è sempre la possibilità che il vino non sia a posto perché ha patito il caldo o ha preso luce. E c'è anche il caso, seppur raro, che la capsula non tenga perfettamente, lasciando passare aria.
Ben detto.
Per il resto, io rimango della mia opinione: sia lode allo screw cap! Tappo a vite sempre sui bianchi e sui rosé, e sui rossi parliamone. Eppoi piantiamola di dire che è poco elegante: alla fin fine, la bottiglia con la capsula avvitata la si apre con la stessa rotazione che s'usa per il tappo a fungo degli spumanti...

2 luglio 2009

La crisi, i cambiamenti, la sopravvivenza

Angelo Peretti
Non sono un economista. Per la maggior parte dell'ultimo decennio, mi hanno pagato per ricoprire un ruolo che gli americani chiamano di strategist. Mi sono occupato di pianificazione strategica, che consiste - grosso modo - nel leggere un sacco di lavori degli economisti e degli analisti per poi filtrarne i contenuti attraverso una sfera di cristallo. Ma anche questo c'entra poco con quel che vorrei dire qui sotto, perché non ho dati scientifici su cui basarmi. Allora, consideriamola solo una sensazione "a pelle". E non mi sentirei affatto offeso se qualcuno alal fine comentasse con un: "Ovvio".
Dico dunque questo: ritengo, appunto "a pelle", che la crisi finanziaria globale in atto lascerà conseguente durevoli su molti aspetti della nostra vita. E in particolare - perché è di questo che scrivo su InternetGourmet - nelle abitudini correlate alla vacanza, alla fruizione della ristorazione e al consumo di vino.
Parlo di tendenze che erano certamente, in parte, già in atto. Ma le difficoltà sistemiche le hanno - è mia convinzione - trasformate da contingenti a strutturali. Come cristallizzandole. Per qualche tempo a venire, ché di immutabile al mondo c'è nulla.
Intendo la propensione alla vacanza breve (e questo è palese pressoché a tutti), l'indeterminatezza nei flussi di clientela presso la ristorazione (il ristoratore sapeva prevedere con ottima approssimazione quanti coperti avrebbe venduto per ogni giorno della settimana, organizzandosi di conseguenze in sala e in cucina, mentre adesso la gente arriva - se arriva - all'ultimo minuto in qualunque giornata) e la propensione al consumo di vino (c'entra, certo, la questione della patente a punti, ma non è tutto lì).
Le cause, le motivazioni di questi trend sono molte, e non necessariamente interconnesse tra di loro. Si potrebbero anche esaminare una per una, e gli operatori di settore e le loro realtà associative è bene lo facciano (o ci provino). Ma penso che sia il fenomeno in sé, complessivamente, che va considerato.
Dunque, credo occorra che gli attori delle filiere dell'accoglienza, della ristorazione, della produzione vinicola ripensino radicalmente se stessi e il loro approccio all'organizzazione aziendale e al mercato. Per chi lo saprà fare, si apriranno probabilmente praterie inesplorate, con nuove opportunità di business. Per gli altri, sarà lotta per la sopravvivenza.