30 dicembre 2008

Franciacorta Rosé Brut Antica Fratta

Angelo Peretti
Oh, vabbè: m'espongo al rischio che si dica che m'è piaciuto 'sto rosé perché adesso il rosato va di moda e soprattutto se ha le bolle e bla bla bla.
Invece no: questo Francacorta en rose m'è piaciuto e basta. Cremoso, denso, polposo, eppure bevibilissimo ed abbinabilissimo in tavola, talché l'ho perfino rischiato con un blu di capra (intendo formaggio, erborinato).
Quello dell'Antica Fratta è oggi marchio del gruppo Berlucchi. E qui mi fermo con le cose di cantina.
Per il vino, dell'avvincente cremosità ho detto. E aggiungo che ha note eleganti di piccolo frutto di bosco e di spezia fine e di vaniglia. E la bolla è sottile. E l'acidità perfettamente integrata nel corpo.
Me n'hanno offerta una bottiglia degli amici per Natale: bel regalo.
Aggiungo: la boccia che ho stappato era stata aboccata nel 2007, e non è info da poco.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

29 dicembre 2008

Champagne Millésimé 1996 Dufour

Mauro Pasquali
La bottiglia ispira già soggezione solo a vederla: un prodotto di 12 anni, il cui tirage è stato fatto il 19 aprile 2007 e il degorgement il 25 agosto 2008 non può passare inosservata.
Alla vista un bel colore giallo oro.
Al naso sentori di madeira si mescolano al frutto maturo.
In bocca grandissimo equilibrio e lunghezza gustativa. La vena ossidativa non disturba, anzi si armonizza pienamente con la frutta matura, donando sensazioni complesse e piacevoli.
Insomma un prodotto di grande complessità e personalità, da abbinare a grandi piatti di pesce e, perché no?, anche a piatti di carne, favolosa alternativa ad un rosso.
Tre beati faccini :-) :-) :-)

27 dicembre 2008

Pizzeria Du de Cope - Verona

La pizzeria Du de Cope (il due di coppe, che a briscola conta niente, secondo il modo di dire veronese) è il posto giusto per mangiar la pizza a Verona. Pizze in carta una quindicina, piccoline quanto a diametro rispetto alle padelle da turisti, il bordo alto alla napoletana (bene!), le materie prime sceltissime (ho adocchiato l'olio usato dal pizzaiolo: buon extravergine di buon oleificio veronese), la consistenza perfetta.
Ho divorato la romana, delicata, con le acciughe che sapevano di aggiuga e un origano profumatissimo. E poi assaggiato dagli altri piatti del mio tavolo la prosciutto e funghi col prosciutto cotto messo sopra alla fine, la tonno e cipolla con la cipolla di Tropea, la margherita che sapeva di bufala vera. Wow!
Per la pizza, roba da applausi. E poi le birre: oh, che bella scelta! Ho bevuto la floreale Wayan, piemontese, marchio Baladin. E anche il vino è ben scelto: poch'etichette, ma ben prese fra il meglio della veronesità. Ma il dessert...
Ho ordinato la millefoglie strachìn. Perché? Perché il locale è creatura di Giancarlo Perbellini, osannato (giustamente) e pluristellato (ancora giustamente) giovane chef scaligero. Vien da famiglia di pasticceri. E la famiglia ha come simbolo, emblema, marchio di fabbrica, appunto, la millefoglie strachìn, con la crema così morbida che sembra stracca, e s'adagia tra la sfoglia. O così dovrebb'essere. Solo che al mio tavolo l'han portata fredda, troppo. Sotto al limite dell'apprezzabile. Ma come, Giancarlo: m'esalti con la pizza e poi cadi sul vanto di casa? Vabbé, peccato veniale.
Pizzeria Du de Cope - Galleria Pellicciai, 10 - Verona - tel. 045 2092235

Bonnezeaux Les Melleresses 2002 Domaine René Renou

Angelo Peretti
Ci sono certi vini di cui ti capita di leggere, ma che è difficile, per limitata produzione e scarsa distribuzione, aver nel bicchiere. Fra questi c'era, per me, il Bonnezeaux, appellation della Loira, figlia dell'uva di chenin blanc. Ora n'ho avuta una bottiglina. E me la son goduta.
Leggo che René Renou, il produttore, è personaggio di spicco, presidente del Comité Vins dell'Inao, l'istituto delle denominazioni d'origine transalpine. E che ha concentrato la sua produzione su 8 ettari di vigna, su suoli di scisto e silice. Specializzandosi nei vins liquoreux. Con attesa delle muffe nobili.
Giallo dorato, il suo Bonnezeaux, appen'aperto, propone al naso lo zucchero di canna e qualche accenno di miele di castagno. Alla distanza, un sottile ricordo officinale, d'anice o di mentuccia.
In bocca la dolcezza è contenuta. Eppoi frutta secca. E soprattutto quei frutti antichi che non si trovano neanche dall'ortolano più attento: nespole di bosco, sorbe, pere fatte stramaturare sulla paglia. In fondo, un che di liquirizia. E, sotteso, l'influsso della botrite.
Vino elegante.
Acquistato on line a 29,90 euro in bottiglia da 0,50.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Il parere contenuto in questa segnalazione è rapportato alla tipologia di vino e poggia in primis sulla piacevolezza che la bottiglia ha saputo trasmettere. Il giudizio è dato in faccini stile sms. - un faccino è per un vino di corretta e comunque piacevole beva - due faccini per un vino di bel piacere - tre faccini per i vini appaganti, le punte massime delle rispettive tipologie.

24 dicembre 2008

Ma è Campania o Sudtirolo?

Angelo Peretti
Oh sì, d’accordo, non può bastare una degustazione d’una manciata di bottiglie. Ma se tanto mi dà tanto, la Campania, quella di montagna, è gran regione da bianchi.
Ho voluto mettermi una sera a tavola con un gruppetto d’amici e aprire una serie di bottiglie bianchiste campane, di quelle che son piaciute alle guide. Per farmi un’idea.
Devo dire che il Fiano fin qui m’aveva dato belle conferme, ché ho amato in particolare cert’interpretazioni che n’ha offerte Clelia Romano, leggi Colli di Lapio. Bianco davvero montanaro, il suo, e quasi un altoatesino trapiantato, chissà come, al sud. Il Greco lo conosco meno. E dunque, avanti con l’assaggio. O meglio, la bevuta. Trovandoci contrasti tra lo stile sudtiroleggiante, più fresco e minerale e scattante, e quello più mediterreneggiante, più denso e quasi tropicale nel frutto.
Primo test: due annate del Fiano dei Colli di Lapio e due annate del Greco di Pietracupa, a confronto. Poi, dell’altre bottiglie dei bianchi tratti dai medesimi vitigni. E un intruso, chiamiamolo così.
Qui di seguito com’è andata. Coi soliti punteggi: centesimi miei, decimi della masnada che assaggiava (ed è indicatore, questo, di pura piacevolezza) e poi di nuovo, soggettivissimi, i miei faccini che indicano se e quanto il vino lo riberrei di botta.
Fiano di Avellino 2007 Colli di Lapio
Naso da subito molto minerale. Vaghe tracce di zolfo. Bocca freschissima, salina, eppure anche direi tannica, eccome, nel finale. Bel frutto: litchie, soprattutto. Polposo. E poi rinfrescanti tracce di erba limoncella.
89/100 – 8,444/10 – tre lieti faccini :-) :-) :-)
Fiano di Avellino 2005 Colli di Lapio
Qui a momenti era standing ovation. È strapiaciuto a tutti. Bellissimo frutto polposo. Al naso e in bocca. E tracce di pietra focaia. E tensione. E agrumi uniti a una macedonia di frutta tropicale. Polpa e sostanza. Grande.
94/100 – 9,444/10 – tre lieti faccini :-) :-) :-)
Greco di Tufo 2007 Pietracupa
Ci ha un po’ divisi. Chi l’ha amato e chi meno, perché un po’ troppo maturo sul frutto, e dunque un pochetto meno fresco e scattante di quel che t’aspetti. Naso molto sulle frutta mature, dolci. Tropicaleggia un po'. E c'è albicocca, tanta. Finale tannico, molto, ed è il lato più piacevole. Resta comunque un vino fatto gran bene.
87/100 – 7,833/10 – due lieti faccini :-) :-)
Greco di Tufo 2006 Pietracupa
Il 2006 invece ha soddisfatto tutti, e me in particolare. Il naso è molto verde, con sotto tracce di frutto bianco. Parte centrale molto, molto acido, e poi emerge subito la tannicità. Finale estremamente asciutta e nervoso, che lascia tornare avanti il frutto. Bel vino.
90/100 – 8,611/10 – tre lieti faccini :-) :-) :-)
Greco di Tufo Novaserra 2007 Mastroberardino
Altro bianco che a me è piaciuto parecchio davvero (e quasi tutti han condiviso). Naso mineraleggiante. Finale asciutissimo, tannico, col frutto giallo che emerge e riemerge netto, pulito, affascinante. Grande finale.
90/100 – 8,722/10 – tre lieti faccini :-) :-) :-)
Fiano di Avellino 2007 Rocca del Principe
Naso sul frutto agrumato e tropicale. E similmente è tropicale e agrumato anche in bocca. Grande bocca, comunque, affascinante, ampia, polposa. Direi perfino sulla vena aromatica. Ma a voler cercare il pelo nell'uovo, ci avremmo voluto ritrovare un po’ di slancio in più.
88/100 – 7,889/10 – due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Greco di Tufo Cutizzi 2007 Feudi di San Gregorio
Legnosità leggermente presente su una bocca polposa e fresca. Ma a me in genere il legno sui bianchi non piace. Gran bel finale, l’ammetto, carico di frutto agrumato, e fresco e leggermente tannico. Vino fatto con gran cura, ma il nostro gruppo preferisce altri stili.
86/100 – 7,389/10 – due lieti faccini :-) :-)
Falerno del Massico Bianco Caracci 2005 Villa Matilde
E quest’è fatto con la falanghina. L’intruso. Ma che polpa! Direi che il vino qui lo si può dire davvero rotondo. Tropicaleggia. Ed ha sottilissima vena minerale. Ci avremmo però voluto trovare un po’ di slancio in più.
88/100 – 8,056/10 – due lieti faccini :-) :-)

Il parere contenuto in questa segnalazione è rapportato alla tipologia di vino e poggia in primis sulla piacevolezza che la bottiglia ha saputo trasmettere. Il giudizio è dato in faccini stile sms.
- un faccino è per un vino di corretta e comunque piacevole beva
- due faccini per un vino di bel piacere
- tre faccini per i vini appaganti, le punte massime delle rispettive tipologie.

Champagne Pur Meunier Extra Brut E. Prudhomme

Mauro Pasquali
Uno Champagne particolare, non facile. A cominciare dal vitigno: pinot meunier in purezza: una scelta insolita e che porta ad un prodotto interessante, complesso e con una grande lunghezza gustativa.
Se poi aggiungiamo la scelta di proporlo come un pas dosé, sicuramente ci troviamo di fronte ad un prodotto che non può passare inosservato.
La produzione biodinamica garantisce l'assoluta assenza di interventi invasivi in vigna e anche in cantina il rispetto del prodotto è stato assoluto.
Il risultato è uno Champagne con una freschezza ed una acidità notevoli, pur a oltre un anno e mezzo dal degorgement (data dichiarata 14 febbraio 2007).
Se a questo uniamo un rapporto qualità prezzo notevole (meno di 25 euro all'importatore), ci troviamo veramente al cospetto di un prodotto da acquistare e bere con soddisfazione.
Tre beati faccini :-) :-) :-)

Il parere contenuto in questa segnalazione è rapportato alla tipologia di vino e poggia in primis sulla piacevolezza che la bottiglia ha saputo trasmettere.
Il giudizio è dato in faccini stile sms.
- un faccino è per un vino di corretta e comunque piacevole beva
- due faccini per un vino di bel piacere
- tre faccini per i vini appaganti, le punte massime delle rispettive tipologie.

20 dicembre 2008

Recioto della Valpolicella Capitel Fontana 2004 Tedeschi

Angelo Peretti
Il Recioto valpolicellese, quello rosso, quello che è stato papà dell'Amarone, quand'è ben fatto è gran vino.
E mi piace parecchio. Ed anzi ho detto più volte - e non me ne vogliano gli amaronisti - che quand'è quello giusto, allora il Recioto è davvero il più gran vino della Valpolicella.
N'ho bevuta qualche sera, di Recioto, fa una gran bella bottiglietta. Quella del Capitel Fontana 2004 dei Tedeschi da Pedemonte.
Oh, è tutto un tripudio di ciliegia e amarena e prugna e spezia ed erbetta officinale questo Recioto. Ed ha equilibrio di zucchero e di tannino e di freschezza.
Fascinoso. Ed ha lunghezza e persistenza.
Bel vino, bel vino.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Il parere contenuto in questa segnalazione è rapportato alla tipologia di vino e poggia in primis sulla piacevolezza che la bottiglia ha saputo trasmettere.
Il giudizio è dato in faccini stile sms.
- un faccino è per un vino di corretta e comunque piacevole beva
- due faccini per un vino di bel piacere
- tre faccini per i vini appaganti, le punte massime delle rispettive tipologie.

19 ottobre 2008

Alto Adige Pinot Bianco Praesulis 2006 Gumphof

Gumphof Angelo Peretti
Oh, sì sì: che bel bianco, miei signori. Peccato averne ancora una boccia sola in cantina.
Il Praesulis di Markus Prackwieser sull’edizione 2008 di Vini d’Italia – leggi Gambero Rosso & Slow Food – è stato tribicchieruto, e per di più premiato per il tre bicchieri più conveniente.
Che sia gran vino, non ho dubbi, e non li hanno avuti neanche gli amici che se lo son bevuto con me. Che poi sia anche conveniente, meglio.
Convince (e avvince) per la personalità, che ha spiccatissima.
Al naso i fiori gialli e un pochetto la pietra focaia e, sotto, la susina.
In bocca, è un’eplosione di freschezza. Cristallina. E il vino è vibrante e nervoso e scattante. Eppoi ecco gli agrumi e la pesca nettarina e ancora la susina un poco acerba: bel frutto, croccante e succoso.
E la lunghezza è notevole, e nel bicchiere regge assai.
Buono, buonissimo.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Il parere contenuto in questa segnalazione è rapportato alla tipologia di vino e poggia in primis sulla piacevolezza che la bottiglia ha saputo trasmettere.
Il giudizio è dato in faccini stile sms.
- un faccino è per un vino di corretta e comunque piacevole beva
- due faccini per un vino di bel piacere
- tre faccini per i vini appaganti, le punte massime delle rispettive tipologie.

Finti ecologismi alberghieri

Angelo Peretti
Ma sì, ogni tanto uno sfogo penso anche di potermelo permettere. Anche per qualche sciocchezzuola. E allora eccomi qua a parlar d’alberghi, stavolta, mica solo di wine & food. Ma il soggiornare è parte integrante del girare terre e territori in cerca di cibi e vini buoni e di gente che quelle piacevolezze le produce. E a volte la fascinazione è l’albergo che te la fa cadere. Così come altre volte, l’ammetto, è proprio la stanza che ti dona valore aggiunto.
Ci sarebbe molto, proprio molto da dire sul sistema di clasificazione degli hotel, ché non sai mai a fronte d’un quattro stelle cosa ti troverai: può essere una stanza accoglientissima, può essere un buco dalla moquette lercia, chiazzata di chissà cosa e chissà come. Ma a parte questo, che m’irrita da tempo è quel foglietto che ti ritrovi sempre più spesso nel bagno.
Ormai ne son quasi ossessionato (e tu guarda da cosa si fa ossessionare, quest’uomo). Parlo del cartoncino dove sta scritto, in italiano e inglese e tedesco e francese e adesso – segno dei nuovi ricchi – magari anche in russo (ma quello mica lo so leggere), una frase che ti dice che il lavaggio degli asciugamani è un fattore inquinante delle acque, dei fiumi e dei mari, e che se vuoi contribuire a salvare la natura, allora la salvietta invece che buttarla in terra, la riappendi, e così il personale di servizio sa che non la deve cambiare.
Insomma: ti tieni il tuo aciugamano usato e puoi andartene in giro fiero perché hai dato il tuo contributo alla salvaguardia del mondo. Con spirito ecologista, che fa anche tendenza.
Detto così, può avere un senso.
Ma se poi ci pensi, ti viene un dubbio, che prende a roderti dentro. Questo: non è che è solo una furbata dell’albergatore?
Spiego.
Vero: se non mi faccio cambiar gl’asciugamani, non è necessario lavarli, e dunque un piccolo aiuto a salvare le acque dall’inquinamento da detersivi l’ho dato. E se i milioni di viaggiatori che affollano gli hotel facessero lo stesso, sai che beneficio?
Epperò c’è qualcosa che non fila. Gli è che l’albergatore il lavaggio lo paga (e forse anche, talvolta, il noleggio della biancheria). E se io non chiedo di cambiar l’asciugamano, lui non sborsa quattrini. Ma il servizio me lo fa pagare lo stesso.
La faccenda non quadra.
Intendo: se io salvo il mondo asciugandomi anche il giorno dopo nello stesso drappo, lui, il gestore, il tenutario, mica ha speso per il cambio, ma nello stesso tempo mica mi fa lo sconto sul prezzo dell’albergo.
Domando: dove sono andati a finire quei (miei) soldini? La risposta è ovvia: fra gli introiti dell’albergatore.
E qui m’incavolo. Cos’è, lo devo salvare solo io il mondo? E lui, l’albergatore, non ci mette niente?
Mi appenda anche un altro cartello, la prossima volta, nel bagno, e mi dica che, grazie all’impegno degli ospiti, l’anno passato si son lavati tot asciugamani in meno del necessario e che dunque si son risparmiati tot euro di lavaggi e quei tot euro l’hotel li ha versati a questa o quell’altra associazione che s’occupa d’ambiente. O ci ha piantuimato un bosco. O ci ha creato un angolo di parco pubblico. O insomma li ha adoperati davvero per fare un po’ più verde e salubre ‘sto pianeta.
Mi dica, con trasparenza, dove son finiti i miei quattrini, quelli che gli ho pagato saldando il conto alla reception, ma che non gli dovevo perché non gli ho fatto spendere per il cambio degli asciugamani. E allora tornerò volentieri. E volentieri lì mi riasciugherò nella tela usata.
Son piccole cose, si sa, e forse neanche serviva scriverci su. Però di trasparenza c’è bisogno, nel lavoro dell’ospitalità. E magari si può cominciare da qui, che è piccola cosa.
Inutile parlare di servizio, d’accoglienza, di stile, quando non si dà il primo esempio.
E scusate lo sfogo.

1 ottobre 2008

Son tutte buone le bolle del mondo, ma lo Champagne è meglio

Angelo Peretti
Cole Porter aveva ragione. Una delle sue canzoni, «Well did you Evah?», dice: «That French Champagne! So good for the brain!». Cioè: «Quello Champagne francese! Così buono per la mente!». E in effetti quest’estate ho letto non so dove che lo Champagne conterrebbe una certa categoria di polifenoli che aiutano il cervello a lavorare meglio. Anche se io a queste continue scoperte eno-salutistiche faccio molta, molta fatica a crederci.
Dicevo che Cole Porter aveva ragione perché bere Champagne, permettetemelo, è davvero un gran bere. E quando si assaggiano vini con le bolle, un buon Champa emerge sempre. E così è stato anche alla prima edizione del challenge «Bollicine del Mondo, continenti a confronto» organizzato da Euposìa-La Rivista del Vino, col patrocinio del Grand Jury Européen e con la collaborazione della Banca Popolare di Vicenza, dell'Ais di Lombardia e Veneto e di VeronaFiere.
Grazie alla cortesia di Beppe Giuliano, boss di Euposia, c’ero anch’io fra i giurati che hanno assaggiato alla cieca settanta spumanti metodo classico provenienti da mezzo mondo (dalla Tasmania alla Patagonia, da Israele al Caucaso, passando attraverso Italia, Francia e Spagna). E dopo tanta assaggiare, qual è la bolla che ha vinto? Ma quella d’uno Champagne, ovviamente! La classicissima Special Cuvée della Bollinger, che non tradisce mai.
Semmai, scorrendo i punteggi che ho dato alla mia sequenza di bicchieri e anche la graduatoria finale, stupisce il secondo classificato: uno spumante inglese. Sissignori: inglese. Il Pinot Noir 2005 di Camel Valley. Davvero ben fatto.
Aggiungo che, stando alla graduatoria ufficiale, terzo è un altro Champagne, quello della Deutz.
Detto questo, qui sotto descrivo alcune delle bolle assaggiate. Quelle che, nelle tre fasi preliminare e poi nella finale, mi hanno meglio impressionato. E che riberrei volentieri.
Dieci in tutto.
Champagne Brut Special Cuvée Bollinger
Ha naso floreale e insieme cenni vegetali di erbe fini. Perfino iodato. Bocca salina, succosa di piccolo frutto di bosco e di nocciola appena raccolta. Lungo e persistente. Vena boisée, crosta di pane, lievito. Lunghezza.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Pinot Noir Brut 2005 Camel Valley
Al naso è bolla che diresti champagnista, e invece è bolla britannica. Fruttatina. Brioche all'albicocca. Bocca in parallelo, con la presenza agrumata che si fa pian piano sempre più avvicente: arancia rossa. Tanto fruttino, lampone, fragolina di bosco. Leggerezza e leggiardia. Vena di morbidezza appena.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Champagne Brut Grand Cru Ambonnay 1999 André Beaufort
Qui l’olfatto trova classicità evoluta: nota vagamente ossidativa e boisée, da bolla nobile. Tracce speziate e vagamente canforate. Cenni officinali. Nuance di anice stellato. In bocca c'è consistenza cremosa epperò anche carattere notevole e polpa di tutto rispetto. Bel vino, complesso, difficile, ma pure appagante.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Champagne Brut Classic Deutz
All’olfatto è impostato classicamente sulla crosta di pane e sulla leggera vena boisèe. La bocca è in parallelo. Con l'aggiunta di un'itrigante vena di vegetalità officinale: salvia, ortica in bel rilievo. Vegetalità e freschezza vano a braccetto anche al palato. E c’è vena salina e un pizzico agrumata. E lunghezza. E si beve bene.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Brut Riserva Bianco 2000 Zamuner
Per me, confesso, una sorpresa. Che in casa Zamuner ci fosse passione spumantistica m’era più che noto, ma che avessero in cantina una bolla del genere m’era sfuggito. Naso classico, con la vena boisée e la nota vagamente ossidativa e l’accenno minerale. E poi pasticceria alla nocciola.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Champagne Brut Vintage 1999 Ayala
Naso classicamente impostato sulle vene evidentissime della crosta di pane, della bioche, del lievito, della frutta secca. Bel naso. Bocca cremosa e nel contempo vibrante. Parechia frutta secca. E vene citrine che offrono slancio e parlano di giovinezza. Buona lunghezza e salinità.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Trento Brut Riserva 2002 Letrari
Oh, oh! Letrari non tradisce. All’olfatto ha cla classica crosta di pane, la vena boisée, l’accenno minerale. Al palato è polposo e morbido nel comtempo. Con l'albicocca e la prugna gialla e la pesca bianca. E insieme i fiori, parecchi. E vene di vaniglia marcate. E sul fondo frutta secca, mandorla e nocciola.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Blanc de Blancs 2001 Yarden
Et voilà, le bolle d’Israele. Yarden è marchio famoso della zona del Golan. Conoscevo i suoi vini fermi, non le bolle. Questa ha naso champagnista: lieviti, crosta di pane, leggerissima nota boisée e tanta florealità. Bocca succosa e salina, con la carbonica ben integrata e una buona lunghezza sui toni della frutta secca.
Due lieti faccini :-) :-)
Franciacorta Extra Brut 1998 Faccoli
Ecco, non è esattamente il mio vino, ma piace sicuramente agli amanti d’una certa austerità spumantistica. Al naso la vena ossidativa, ricercata, è palese. C'è il legno, c'è la traccia minerale, c'è la fruitta secca. In bocca è sullo stesso piano, denso, robusto, avvolgente, ricco di personalità, ampio, lungo, evoluto verso vene speziate.
Due lieti faccini :-) :-)
Franciacorta Cuvée Lucrezia 2001 Bonomi
Naso da frutta essiccata, ma anche, stranissimamente, da carne secca, affumicata, speziata: da speck, insomma. Ecco, c'è vena fumée decisa sotto questo vino, all'olfatto. Intrigante. In bocca la polpa è piuttosto netta. E poi frutta secca e ancora la vena fumée sottesa e la speziatura fine.
Due lieti faccini :-) :-)

Il parere contenuto in questa segnalazione è rapportato alla tipologia di vino e poggia in primis sulla piacevolezza che la bottiglia ha saputo trasmettere.
Il giudizio è dato in faccini stile sms.
- un faccino è per un vino di corretta e comunque piacevole beva
- due faccini per un vino di bel piacere
- tre faccini per i vini appaganti, le punte massime delle rispettive tipologie.

10 settembre 2008

Un bianco inatteso in terra di rosé: il Bandol di Pibarnon

Angelo Peretti
Ho latitato un bel po’ sulle pagine d’InternetGourmet: ferie, impegni, di tutto un po’. Anche un ripensamento sul futuro di questo web magazine, che potrebbe cambiare di qui a non so quando. Ma, a proposito di ferie, rieccomi qui con una piacevole scoperta fatta nella settimana che sono stato in Costa Azzurra. Un bianco.
Reload. M’ero ripromesso di bere soprattutto rosé, da quelle parti. E ce ne sono tanti e di buoni assai di vini rosati, e ne fanno un vanto, e hanno successo: basta entrare in un supermercato per trovarci venti, trenta, anche settanta etichette diverse. Mica come in Italia, dove i rosati son tre o quattro tutt’al più, come se ci si vergognasse a metterli in vendita.

Ora, sono invece - ho detto - a parlar d’un bianco. Un Bandol bianco, per di più. E chi ha avuto modo d’avvicinare quella denominazione, sa che il bianco è prodotto in quantità esigua: è aoc rossista e rosatista, quella (e fa rossi e rosé di impressionante consistenza e d’ottima longevità, anche).
Dice il sommo Hugh Johnson che quella di Bandol è una piccola appellation costiera francese vicino a Tolone, «che produce i migliori vini di Provenza: rossi splendidi, vigorosi e serbevoli, soprattutto da mourvèdre», la quale è, aggiungo, una delle uve principe della Rhône. E fanno anche rosé dalle vigne più giovani. E il bianco è del tutto irrisorio come numeri.
Sia chiaro: mica posso dirmi esperto dei Bandol. N’ho bevuto qualcheduno (pochi) quando me n’è capitata occasione. Compro poi ogni anno da un triennio (su internet, ovvio) il rosé di Château de Pibarnon, che mi si è confermato affidabilissimo. Teso, secco, vibrante, che gratta in bocca come carta vetrata, e dentr’al bicchiere sta in equilibrio anche dopo mezz’ora, un’ora che l’hai versato, senza flettere dal lato dell’olfatto, senza cedere in fatto di personalità. Ed è privo - evviva! - di quelle sdolcinature che connotano troppi italici vini in rosa.
Di Pibarnon avevo provato anche qualche volta, con soddisfazione, il rosso, e che se proprio volete potete anche gustarvi in giovinezza, ma meglio è attendere i cinque-sei anni almeno d’affinamento, ché ha bella struttura e tannino, e fonde col tempo spezie terziarie col frutto avvolgente.
Ma il bianco loro l’avevo snobbato sempre. E avevo sbagliato. Ed ho rimediato all’errore quasi casualmente.
Ero dunque una sera a Vence, una ventina di chilometri sopra Antibes e Nizza. Ristorante Les Templiers, tre forchette sulla guida rossa, mica un colosso del gusto. Piccolo menù degustazione a base di astice. Buona carta vini, con tante mezzine, e dunque n’approfitto per chiedere un rosé (un Côtes de Provence, nulla di stratosferico) e poi domando se mi suggeriscono anche un bianco. M’indicano il Bandol 2007 di Pibarnon, in bottiglina 0,375. Tentenno: possibile che insieme al rosso e al rosé quelli di Pibarnon facciano bene anche il bianco in una denominazione che bianchista non è? Poi, stante la convinzione del maitre, cedo. E meno male che ho ceduto.
Bianco di grande struttura, s’è aperto pian pianino. Ma è stata un’escalation di profumi, di fragranze, d’aromi. Elegante all’olfatto, deciso al palato. Fresco. Ha fiori (il gelsomino, netto, e il tiglio) e frutto (l’albicocca, la pesca nettarina, quella bianca). Bianco «importante», che potrebb’essere anche – credo – longevo. Regge a meraviglia nel calice. Ho poi letto che usano le vigne (poche) esposte a nord, in modo che l’uva abbia maturazione lenta. Quanto all’uvaggio, è 40% clairette (pour la finesse, dicono sul sito), altrettanto Bourboullenc, per favorire la consistenza, e il resto altri vitigni, per la complessità.
Se vi capita, non esitate: è da bere.
Ringrazio il maitre che me l’ha fatto conoscere, il ristoratore che accetta di tenere in carta così tante mezzine, e mi domando anche in quanti ristoranti italiani avrei potuto avere simile professionalità.

Valcamonica Rosso Baldamì 2006 Rocche dei Vignali

Baldami_2 Angelo Peretti
La giovanissima e montanara igt della Valcamonica dovrà magari trovare col tempo una sua precisa fisionomia, però qualche bella bottiglia ce l’ha.
È il caso di questo Baldamì 2006 delle Rocche dei Vignali, che leggo essere una cooperativa (credo piccoletta, ché non ci sono gran vigne da quelle parti) nata appena nel dicembre del 2003.
Leggo altrettanto che questo rosso è fatto con uve di marzemino per metà, di merlot per un terzo e per il resto d’altri e non specificati vitigni.
E visto che son di lettura, eccomi a vedere anche ch’è fatto in acciaio: nove mesi d’affinamenti, si dice.
Ordunque, il vino l’ho trovato fruttato e canforato insieme, al naso, acoll’aggiunta di vaghe e stuzzicanti note officinali.
In bocca il piccolo frutto nero rotola che è un piacere. E il resto è frutto rosso macerato. Tannino e freschezza sono in equilibrio.
Vino succoso e di schietta personalità.
Due lieti faccini :-) :-)

Il parere contenuto in questa segnalazione è rapportato alla tipologia di vino e poggia in primis sulla piacevolezza che la bottiglia ha saputo trasmettere.
Il giudizio è dato in faccini stile sms.
- un faccino è per un vino di corretta e comunque piacevole beva
- due faccini per un vino di bel piacere
- tre faccini per i vini appaganti, le punte massime delle rispettive tipologie.

10 agosto 2008

Recioto di Soave 2004 Corte Moschina

Recioto Angelo Peretti
Corte Moschina è una new entry del panorama produttivo soavese. Ed è in zona estrema: a Roncà, terra di confine, Lessinia.
Mi è piaciuto assaggiare (ahimè, assaggiare, non bere) il loro Recioto di Soave, annata 2004. E spero di aver modo prima o poi di bermene una bottiglietta in santa pace.
Ci ho trovato un naso vagamente aromatico. E agrumi, frutta gialla, fiori macerati.
La bocca è in corrispondenza.
La vena agrumata, in particolare, è piuttosto netta al palato. E poi ci trovo cachi maturi, e albicocca essiccata, e pera stramatura. E ancora fiori secchi.
Ha bella lunghezza, questa garganega passita, bianco dolce della docg soavista. E sfoggia freschezza. E buon equilibrio.
Piacevole.
Due lieti faccini :-) :-)

Il parere contenuto in questa segnalazione è rapportato alla tipologia di vino e poggia in primis sulla piacevolezza che la bottiglia ha saputo trasmettere.
Il giudizio è dato in faccini stile sms.
- un faccino è per un vino di corretta e comunque piacevole beva
- due faccini per un vino di bel piacere
- tre faccini per i vini appaganti, le punte massime delle rispettive tipologie.

5 agosto 2008

Et voilà, adesso lo Stelvin va anche sui vini da invecchiamento

Angelo Peretti
Ciliverghe di Mazzano è un paesino grosso modo a metà strada fra Brescia e il lago di Garda. Un tempo, credo, era zona d’agricoltura e basta. Adesso è arrivato (anche qui) l’assalto dei capannoni e dei centri commerciali. Resta, però, una villa importante, quella dei Mazzucchelli. Che ha, in un’ala, un museo del catappi. Collezione ricchissima. Con pezzi antichi, qualcheduno anche civettuolo e qualche altro decisamente osè. E penso che il cavatappi possa davvero esser cosa da museo se avanza l’onda delle nuove chiusure per il vino.
Che io stia tendenzialmente dalla parte del tappo a vite è abbastanza noto a chi mi legge. Ma c’è chi ha dubbi sul fatto che questa tappatura non sia adatta alle bottiglie da invecchiare. Io comincio a pensarla decisamente in modo diverso: si può mettere lo Stelvin anche sui vini da far affinare a lungo. E una notizia che arriva dall’Australia via Wine Spectator sembra darne una prima conferma.

Sul numero di luglio c’è un pezzo di Harvey Steiman dal titolo «Doing the Twist, Retroactively», che potrei tradurre con «Avvitando, retroattivamente», che non suona bene ma rende l’idea. Vi si racconta che, nel mentre tra i produttori di vino si discute ancira se sia il caso di rimpiazzare il sughero con le chiusure alternative, in terra d’Australi ce n’è uno, di vignaioli, che ha fatto un passo ancora più in là: la Leeuwin Estate, il marchio ritenuto migliore per lo Chardonnay della terra dei canguri, di recente ha reimbottigliato e ovviamente ritappato tutta la sua collezione di vecchie annate con lo screw cap, il tappo a vite. E la raccolta di Chardonnay della casa data dal 1980, e in azienda ce ne sono grosso modo dodici casse per ogni annata. Le bottiglie sono state aperte una per una, assaggiate, trasferite in vetri adatti al tappo a vite, colmate con lo stesso vino, e ritappate sotto azoto per evitare d’innescare processi d’ossidazione. Il tutto con un lavoro d’un paio di mesi e un costo intorno ai sessantamila dollari, che non è una cifretta di poco conto.
Si dirà: un colpo di testa, la ricerca di pubblicità tutto sommato a buon mercato. E poi, si obietterà, chi ci assicura che lo Stelvin è meglio del sughero per far durare il vino? Vabbé, tutto è opinabile al mondo, però in quell’azienda australiana i primi esperimenti d’imbottigliamento con lo screw cap risalgono al 1993, e la serie storica comincia dunque a essere parecchio affidabile: quindici anni non sono pochi, lo si ammetta. E Denis Horgan, il patron della Leewin Estate, dice a Wine Spectator che quelli in tappo a vite si son sempre dimostrati più freschi di quelli in sughero.
Ora, chiaro che prima di condividere una simile affermazione occorrerebbe metterci il naso e la bocca su quei vini. Ma non ho grandi dubbi nel pensare che possa davvero essere così. Del resto, i recenti test fatti alle Fraghe sul Chiaretto e sulla Garganega dimostrano che anche solo dopo quattro-cinque mesi dall’imbottigliamento, lo Stelvin è una soluzione di gran lunga migliore rispetto al sughero in termini di mantenimento di slancio, freschezza, giovinezza aromatica del vino.
Resta il dubbio sui rossi. Ma adesso, sostiene l’editorialista di Wine Spectator, il tappo a vite sta cominciando a diventare abbastanza comune nelle cantine australiane anche per i rossi che si possono invecchiare. E Penfolds, la più grossa griffe del vino da quelle pareti, mette un sughero solo la sua portaerei, il costosissimo Grange, ma per il resto, i rossi, anche quelli che viaggiano sui 200 dollari a boccia, sono in tappo a vite.
Ci meditiamo un po’ su?

20 luglio 2008

Il sogno d’un Sud a Sommacampagna

Angelo Peretti
Il bello di poter scrivere, e soprattutto direi di poter scrivere di vino, è che a volte ti capita di vivere delle emozioni. Una l’ho potuta assaporare qualche giorno fa a Sommacampagna, in quel luogo di quiete a due passi dal casello dell’autostrada che è la casa di Carlo Nerozzi, leggi Le Vigne di San Pietro.
Ordunque, Carlo e il suo socio Giovanni Boscaini, entrato nel team aziendale un annetto fa portando in dote vigneti in Valpolicella, m’aspettavano per una colazione insieme, conversando di vino. E ho scoperto un insospettato Nerozzi gourmet. Ma l’emozione - ché è di questo che voglio parlare - è arrivata alla fine, quando in tavola sono arrivate due bottiglie. L’una del 1993, l’altra del 1995.
Quella del ’95 è stata una vendemmia particolare alla Vigne di San Pietro. Vabbé, i tre bicchieri del Gambero Rosso & Slow Food qualcuno dice che non ti cambiano la vita, e magari è proprio così, però credo facciano piacere. E Carlo il premio tribicchierato l’ha ottenuto con l’edizione ’98 della guida, con un vino, appunto del ’95. Quel vino era il Sud, un passito da uve di moscato coltivate a Sommacampagna. Venne fatto solo quell’anno.
Ebbene: era tanto, tanto tempo che non mi capitava più di provarlo, quel passito. L’ultima volta che l’ho bevuto credo sia stato qualche mese dopo l’uscita della guida. Il posto lo ricordo: il Giardino delle Esperidi a Bardolino. E dunque vedermene stappare una bottiglia m’ha fatto davvero gioire. E il vino è tuttora straordinario. Ma il bello non era finito.
Assieme al Sud, Carlo ha portato in tavola un’altra bottiglia. Altro formato: 750 (il Sud era nella mezzina da 375). Etichetta bianca con un cigno disegnato. Nome del vino: O Canto do Cisne, il canto del cigno. Annata 1993. Si leggeva: «Vino dolce per cuori delicati prodotto con una moscato, vinificato solo per chi è amico, da Carlo e Sergio Nerozzi». In tutto, cinquecento bottiglie, mai messe in commercio: la mia era la numero 458.
Che cos’hanno in comune questo sconosciuto Canto do Cisne e l’applaudito Sud mai più rifatto? Che sono l’uno figlio dell’altro. Che sono anche l’una l’omaggio d’un figlio al padre scomparso, che aveva sognato un vino speciale.
Spiego.
Il ’93 è stato l’anno in cui Sergio Nerozzi, padre di Carlo, è mancato. Ma era stata sua l’idea di cavar fuori dall’uve di moscato delle Vigne di San Pietro un vino speciale. L’uva veniva raccolta, fatta appassire e poi selezionata grano per grano. Per ricavarne la dolcezza senza impurità di sorta.
Nel ’94, Carlo decide di fare a modo suo: nasce il Due Cuori, passito di moscato, e Due Cuori si chiama tuttora il vin bianco dolce delle Vigne di San Pietro.
Nel 1995 però c’era voglia di sperimentare. Carlo decide allora di non far pulire l’uva dagli acini botritizzati. Viene pigiato tutt’assieme. Ne esce un moscato d’impronta quasi siciliana. Ecco perché gli viene dato il nome di Sud. E quel vino vince i tre bicchieri.
Si somigliano, oggi, quei due vini? Il Canto e il Sud, intendo? Per certi tratti, direi proprio di sì.
Il Sud del ’95, certo, è denso, concentratissimo, caldo, quasi oleoso. Mentre il Canto del ’93 è più deboluccio in quanto a struttura: vino fragile, lo definirei, com’era fragile Sergio a quel tempo. Ma entrambi, ecco, hanno un tratto aromatico distintivo. Anzi, due: l’albicocca essiccata in primissimo piano e, sotto, un’elegante vena officinale che direi di mentuccia.
Oh, poi, sia chiaro, il Sud vince in complessità: è vino solare, ha vene di frutto tropicale, cenni di noce, ricordi di nocciolo di pesca, memorie di miele. Ha più alcol (15 gradi, contro i 12,5 del prototipo). E sfoggia un’ampiezza e una lunghezza che si ricordano e avvincono. E una freschezza quasi inaspettata con quella dolcezza. Ma, si sa, è proprio l’equilibrio fra zuccheri e acidità - questa è almeno la mia opinione - che fa buono un passito.
Ma il Canto e il Sud son padre e figlio. E il Sud è il vino del figlio che ha voluto reinterpretare a suo modo il sogno del padre.
Poi basta. Poi Carlo è tornato a fare il Due Cuori. Meno mediterraneo, più nordico. Buonissimo, certo, ma concettualmente diverso: vira sull’agrumato.
Il Sud? «Magari deciderò un giorno di aver voglia di tornare a farlo» dice. La vigna di Moscato, del resto, lì a Sommacampagna c’è sempre. Non si sa mai.

Dindarella 2007 Brigaldara

Brigaldara Angelo Peretti
Ecco: una bottiglia così non me la sarei mai aspettata. Un rosato da rara uva autoctona valpolicellese fatto da uno dei re dell’Amarone.
Il sire amaronista è Stefano Cesari, alias Brigaldara. Uno che sa far grandi rossi.
Il vino in rosa è la sua Dindarella. Dall’omonimo, semisconosciuto e semiestinto vitigno di Valpolicella.
D’un rosa abbastanza pronunciato, ha naso speziatino, con tanto fiore (la rosa thea) e cenni fruttati. Di piccolo frutto, intendo.
In bocca, eccolo beverino. Da beva spensierata. Ed è succoso di fruttino. E con la ciliegia croccante e con il ribes c’è anche, direi, del fico, rosso e maturo. Inattesa presenza fruttata. E ancora un che di nocciola. E sotto ritorna la vena di spezia.
Fresco, succoso, lungo.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Il parere contenuto in questa segnalazione è rapportato alla tipologia di vino e poggia in primis sulla piacevolezza che la bottiglia ha saputo trasmettere.
Il giudizio è dato in faccini stile sms.
- un faccino è per un vino di corretta e comunque piacevole beva
- due faccini per un vino di bel piacere
- tre faccini per i vini appaganti, le punte massime delle rispettive tipologie.

13 luglio 2008

Il Chiaretto e il tappo a vite

Angelo Peretti
Di dubbi non ne avrei neanche uno: vedessi sullo stesso scaffale il medesimo vino bianco imbottigliato in sughero e in tappo a vite, prenderei senz’esitazione alcuna quello con la vite. Ormai n’ho provati così tanti - soprattutto neozelandesi (oh, i grandi Sauvignon Blanc!) e austriaci (i Grüner Veltliner), ma anche tedeschi (i favolosi Riesling) e francesi - che non mi faccio più alcuna remora. E anzi mi son fatto convinto che il tappo a vite di nuova generazione, lo screwcap, o lo Stelvin (che è nome di una ditta, ma scommetto che finirà per diventare accezione comune, come lo Scotch per identificare il nastro adesivo trasparente o la Bic per la penna a sfera) è la soluzione ideale per il bianco. E per il rosato, ovviamente, e qui di seguito parlerò proprio di rosè - di Chiaretto, anzi - sotto Stelvin. Sui rossi magari ci vorrà qualche riflessione in più, ma se il vino dovesse invecchiare a lungo, perché no?
Che io stia dalla parte del tappo a vite l’ho già detto apertamente in passato su questo web magazine. E l’esperimento che s’è fatto qualche giorno fa da Matilde Poggi - leggi azienda agricola Le Fraghe, a Cavaion Veronese, due passi dal casello autostradale di Affi - me n’ha dato rinnovata convinzione.
Che cos’ha avuto di speciale questo test cavaionese? Ha avuto che s’è potuto confrontare l’identico vino - il Bardolino Chiaretto Ròdon del 2007 - messo in bottiglia con le due chiusure. La stessa vasca, Matilde l’ha imbottigliata nello stesso giorno un po’ col sughero e un po’ con lo Stelvin. E adesso, qualche mese dopo l’imbottigliamento, ha voluto chiamare a raccolta un drappello di giornalisti per far la verifica di come fossero andate le cose. Il risultato lo dico subito ed è scontato: Stelvin batte sughero, alla grande.
Non che il Chiaretto in sughero fosse male. Ed anzi, appena stappata la bottiglia, c’era fra i colleghi chi l’apprezzava più dell’altro: frutto più evoluto, più immediato, più corposetto, con un pelo di speziatura in più. Mentre il Ròdon in tappo a vite sembrava dapprima uscire con una certa ritrosia, soprattutto dal lato olfattivo, e in bocca era più verde. Ma passati un paio di minuti non c’era più storia: il Chiaretto in sughero se ne restava lì dov’era, ed anzi tendeva un po’ ad accucciarsi, mentre quell’altro in tappo a vite esplodeva di giovanile fragranza floreale e fruttata ed anzi andava crescendo di momento in momento, e gratificava per la salinità, per la succosità del fruttino. Talché i bicchieri del rosato in chiusura tradizionale son rimasti mezzi pieni, mentre gli altri si son presto svuotati: bevuti, altroché degustati! E gli stessi che avevano dapprima preferito il Ròdon in sughero si sono ampiamente ricreduti.
Ora, gli è che il sughero fa passare un po’ d’aria, portando a micro-ossigenare il vino, e quindi ad evolverlo, mentre lo Stelvin produce riduzione, e dunque di fatto quasi congela il vino così com’è al momento dell’imbottigliamento. Va da sé che appena versato il primo sorso, l’uno si mostra maturo e l’altro no. Ma, ripeto, è questione di attimi, e l’esuberanza del vino tenuto in tappo a vite ripaga ampiamente della brevissima attesa. Figurarsi poi se la bottiglia la si apre per metterla in tavola: nella durata d’una cena la bottiglia tappata con lo Stelvin sarebbe di gran lunga la più appagante, consentendo di godere appieno del vino nella sua durevole giovinezza.
Detto questo, due considerazioni sul caso in sé.
La prima: Matilde ha avuto coraggio. Mica facile per un produttore di qualità mettersi a imbottigliare in Stelvin. Di solito, il vino lo si mette in tappo a vite solo per il mercato internazionale, soprattutto quello inglese (a proposito: Decanter, il celebre wine magazine britannico, ha pubblicato di recente un pezzo intitolato «50 reasons to love screwcaps» - 50 ragioni per amare il tappo a vite - dicendo che, in particolare per i bianchi, il tappo a vite non è affatto un’alternativa economica e scadente, ma la scelta più indicata per mantenere intatti aromi e sapori). E s’usa poi dire che i ristoratori e gli enotecari d’Italia lo rifiutano. Lei ha deciso di provare lo stesso, e il vino l’ha venduto ugualmente tutto. E sotto vite ha messo anche, sperimentalmente, un po’ della sua Garganega Camporengo e un pochetto del suo Bardolino. Di obiezioni ne ha avute poche, di rifiuti netti uno, da parte di un ristoratore veneziano. Dunque, che aspettano gli altri vigneron? Avanti con la vite, che non dà problemi di bottiglie da buttare perché sanno di tappo e che invece consente di richiudersi la boccia e di berla più avanti se si è in casa, o di portarsela via comodamente se si è al ristorante. D’accordo, non c’è la ritualità della stappatura canonica, ma l’integrità del vino è garantita, e non è cosa da poco.
Seconda considerazione: occorrerà riflettere e fare esperienza su come vinificare il vino destinato al tappo a vite e come prepararlo per l’imbottigliamento. È vero che in Stelvin il vino si conserva (quasi) tal quale, e dunque giovanilissimo. È altrettanto vero che certe note evolutive possono piacere. Sul Chiaretto, in particolare, io amo trovarci il fiore che vira nella clorofilla, e poi il fruttino - la fragolina, il lampone, la ciliegia croccante e un po’ acerba - e poi però voglio anche la spezia ch’è tipica, in parte veronese del Garda, della Corvina (e in parte bresciana del Groppello). Ma quella speziatura esce generalmente col tempo. E dunque occorrerà anticiparne la presenza, se la si vuol far meglio percepire e si utilizza il tappo a vite. Come, non so: mica faccio vino, mica sono enologo. Io i vini li bevo e ne scrivo. Ma son certo che il bandolo della matassa è lì, pronto a farsi trovare. Per chi cocciutamente lo vorrà cercare. Eppoi un’ipotesi su chi andrà avanti nella ricerca io ce l’avrei: Matilde cocciuta il giusto lo è...

CorDeRosa 2007 Le Vigne di San Pietro

Corderosa Angelo Peretti
Chi mi legge abbastanza di frequente sa che nelle estati passate ho amato il CorDeRosa, il rosé delle Vigne di San Pietro, e la nuova annata non fa eccezione.
È davvero un rosato buonissimo questo vino di sola corvina veronese. Fatto a Custoza.
Ha il colore del rosolio, brillante fior di pesco, chiaro.
Al naso, davvero ha le rose. E poi i fiori primaverili di prato. E il fruttino di bosco, la fragolina soprattutto. E tanta speziatura dolce. Invitante.
Il palato è succoso di fruttino ancora e poi di mela asprigna e croccante. Fresco, lunghissimo, salino. Di nuovo la spezia, intrigante.
Si beve e si ribeve che è un piacere. Leggero, eppure di grande personalità.
Buono buono: un gioiellino.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Il parere contenuto in questa segnalazione è rapportato alla tipologia di vino e poggia in primis sulla piacevolezza che la bottiglia ha saputo trasmettere.
Il giudizio è dato in faccini stile sms.
- un faccino è per un vino di corretta e comunque piacevole beva
- due faccini per un vino di bel piacere
- tre faccini per i vini appaganti, le punte massime delle rispettive tipologie.

26 giugno 2008

Se l’estate vuole la vivacità: Lambrusco & Co.

Angelo Peretti
Oh sì, questa è la stagione delle bolle. Degli spumanti, intendo. Con lo Champagne che spopola, alla crisi della stagnazione che impera, del petrolio alle stelle, dei mutui sempre più difficili da pagare. Il Prosecco se la cava bene, mi pare. E poi è nata la moda delle bollicine rosa. Del resto, in tempo d’estate, bere vivace è piacevole. E fra il vino vivace c’è quello frizzante. Lambrusco in primis. Ma non solo.
A questo proposito, dico che debbo alla cortesia del Consorzio Vini Reggiani l’aver potuto comodamente assaggiare una serie di bottiglie lambruschiste, cui si sono aggiunte alcune bocce della doc a me prima pressoché sconosciuta dei Colli di Scandiano e Canossa.
O meglio: la struttura consortile in questione si chiama esattamente Consorzio per la promozione del marchio storico dei vini reggiani, è nato nel 2000 e rappresenta 29 cantine (il 96 per cento della produzione) delle doc Reggiano e Colli di Scandiano e di Canossa.
Dentro la prima denominazione, quella del Reggiano, si son fatte nel 2007 nove milioni di bottiglie. Nell’altra, un milione e seicentomila bocce.
Fin qui i numeri.
Ora, vi dirò che di tanto in tanto non disdegno, soprattutto in stagione calda, di stappare un Lambrusco. Va da sé che l’ideale sarebbe mettersi a tavola nella zona di produzione, con quei mangiari grassocci che fan da quelle parti e che sembrano fatti apposta per chiamare a gran voce la compagnia dei vini mossi che nascono sulla stessa terra. Ma non mi dispiace metterci un rosso mosso anche con la grigliata: costine, braciole, salametti, wurstel.
Eppoi c’è il vantaggio del prezzo: costano poco poco.
Detto questo, aggiungo che di vini reggiani con le bollicine n’ho tastati quasi una trentina, tra rossi e bianchi, secci e dolci e aromatici. E qui di sotto scrivo di quelli che più m’hanno interessato. E siccome questi tasting mi piace farli in compagnia, avevo con me altri cinque o sei compagni di bevuta, e dunque qui di sotto il giudizio sarà il mio in faccini, ancora il mio in centesimi e poi, sempre in forma centesimale, quello medio del team, in modo da vedere gli scostamenti fra il mio parere e l’altrui.
Eccoci qui.
Reggiano Lambrusco Piazza San Prospero Ca' de' Medici
A me è piaciuto parecchio. Tratto da uve si lambrusco salamino, Maestri e Montericco in parti uguali (così dice la scheda), propone al naso il fruttino rosso (nero). Magari, ecco, all’olfatto non appare così pulitissimo, nel senso che t’aspetteresti slancio ancora maggiore, ma la bocca è davvero buona. Al palato dà soddisfazione: fruttino ancora tanto, e toni di prugna e sapidità e carbonica quasi cremosa. Leggera pepatura. Vene floreali escono con gradualità. Si beve a brente, a secchiate.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
83/100 – voto medio 78,125
Reggiano Lambrusco Secco Assolo Medici
Fa tanti bei vini la cantina Medici: si va a botta sicura, e lo dimostrano questa scheda ed altre che seguono. Fra i vini tastati, l’Assolo è quello che più m’ha intrigato. Prevalentemente a base della varietà del lambrusco salamino. Ha naso proprio – come dire - da Lambrusco. Tipico. Un pelino aggressivo magari, rusticheggiante, ma anche quella può essere tipicità. Toni da mora abbastanza accentuati e da prugna, un pochetto, direi. Sottile vena floreale. Bocca fruttata, sapida, anche morbida, con la carbonica espressa, ma non aggressiva. Finale morbidamente disteso su toni di fruttino maturo. Buona persistenza. Si beve volentieri.
Due lieti faccini :-) :-)
79/100 – voto medio 78,375
Reggiano Lambrusco Concerto Medici
Il Concerto è un Reggiano famoso. Giustamente, ché si beve bene. Fatto tutto coll’uve di salamino. Ha naso un pochettino vinoso. Toni leggeri di fruttino, di caramella alla mora, di prugna stramatura. In bocca c'è, insieme, sapidità e concentrazione. Tannino piuttosto evidente. Buona lunghezza sul tono di mora matura, persistenza quasi inaspettata. Ha, nel suo genere, polso e polpa.
Due lieti faccini :-) :-)
77/100 – voto medio 75,875
Reggiano Lambrusco Vigna di Tedola Reggiana
Leggo che all’azienda agricola Reggiana questo vino lo fanno con uve dei lambruschi Marani e Maestri e col malbo gentile, raccolta nella vigna di Tedola. Una sorta di cru, insomma. Ha, il vino, naso tipico, lambruschista. Vene pepate sotto alla mora. E bocca tannica, quasi aggressiva. Ma sotto c'è mora, parecchia, e accenno di prugna molto matura, e ancora nota speziata, di pepe nero. Discreta persistenza. Buona polpa, apprezzabile densità.
Un faccino :-)
76/100 – voto medio 75,875
Reggiano Lambrusco Secco Quercioli Medici
Et voilà, terzo vino targato Medici. Salamino e Marani sono le due varietà d’uva lambrusca impiegate. Naso tra il piccolo frutto e il fiore, la violetta. Bocca un po’ dolcetta, con toni di violetta piuttosto accesi. Più floreale che fruttato. Ma è una florealità un po' rustica, epperò anche abbastanza accattivante. Sotto, la vena dolce è piuttosto palese, e questo magari è un limite. Ma con la cucina della sua terra dovrebbe starci parecchio bene.
Un faccino :-)
76/100 – voto medio 74,500
Colli di Scandiano e Canossa Malvasia Brut Medici
Che strano questo bianco frizzante. Aromatico. Ha naso citrino, agrumato, con note tropicaleggianti di ananas e papaja. Bocca in perfetta corrispondenza. Fatica magari un po’ a distendersi, ma l'aromaticità è piacevole. Semplice, leggerino, ma da aperitivo estivo ci può stare. Col prosciutto e melone.
Un faccino :-)
74/100 – voto medio 73,250
Colli di Scandiano e Canossa Malvasia Dolce Medici
La versione dolce della Malvasia. Naso aromatico, note di pera williams, di frutta tropicale. Tracce floreali, fior d'arancio. La bocca è in perfetta continuità. Vino semplice e piacevole assieme.
Un faccino :-)
74/100 – voto medio 71,750

Il parere contenuto in questa segnalazione è rapportato alla tipologia di vino e poggia in primis sulla piacevolezza che la bottiglia ha saputo trasmettere.
Il giudizio è dato in faccini stile sms.
- un faccino è per un vino di corretta e comunque piacevole beva
- due faccini per un vino di bel piacere
- tre faccini per i vini appaganti, le punte massime delle rispettive tipologie.

8 giugno 2008

Quei Chianti così poco Chianti, così tanto Rùfina

Angelo Peretti
Confesso che della Rùfina (accento sulla u) e del suo Chianti sapevo e continuo a saper pochetto, anche se adesso ho avuto la possibilità di farci una bella full immersion. Non geografica, ahimè, ché non ho potuto andare in loco, ma enoica. Ma n’ho assaggiato un bel po’ di vini, una trentina abbondante. E n’ho bevuti, anche, visto che alcuni poi me li son molto volentieri portato in tavola.
Sapevo, certo, ch’è una delle sottozone della denominazione garantita del Chianti. N’avevo talvolta sbevacchiato qualcheduno dei (pochi, pochissimi) famosi. Ma niente di più. Senonché una certa curiosità m’era venuta leggendo Francesco Falcone sulla’Enogea d’ottobre-novembre di Alessandro Masnaghetti, ch’esordiva così: «Ho trascorso una settimana in un Chianti diverso e mi sono divertito. È la Rufina, qualcuno magari non la conosce, ma forse varrà la pena che si sforzi. “Integrata” senza volerlo nel grande carrozzone chiantigiano, da anni si nasconde dietro un marchio comune che significa sopravvivenza. Ma la sua storia è forte e meriterebbe una dignitosa autonomia. Allo stesso tempo, di quel carrozzone è il simbolo più autorevole: complesso, selvaggio, ambivalente».
Non so se quelli della Rùfina condividano le parole della rivista del Masna, e il suo titolo, «Rufina: il Chianti non Chianti» - dal quale, è evidente, ho costruito anche il mio, di titolo -, però a me han fatto venire voglia di provarli, quei vini. Il caso poi ha voluto che m’arrivasse, attraverso Lucia Boarini, l’invito a un fine settimana in zona e che invece un’infausta combinazione d’eventi m’impedisse d’andare, accrescendo così la curiosità. E allora la curiosità, almeno nel bicchiere, me l’ha voluta soddisfare il Consorzio di tutela, dandomi una nuova occasione «decentrata» di tastare le bottiglie.
Ordunque, dopo aver provato tre diecine di Chianti Rùfina, che idea mi son fatto? Che ha ragione Enogea, e che vale la pena approfondire davvero la conoscenza con quell’area e quella denominazione. Che lì c’è molta gente che seguita a far vino rosso secondo uno stile che vorrei dire territoriale. Ch’esiste uno specifico terroir, o meglio, più d’uno. E che quest’appartenenza salta fuori anche nelle bottiglie di quelli che più strizzano l’occhio alle mode internazionali della corposità e della morbidezza: evidentemente quella è terra che non vuol farsi domare, e alla fine prevale. Che presenta a tratti una rusticità di rosso montagnaro (ed è la zona incastonata fra gli Appennini) più che una morbidezza da stereotipo chiantigiano. Che il sangiovese mi sembra qui a tratti davvero vitigno indomito. Ed è una soddisfazione. Anche se – temo – non sarà sempre facilissimo per i produttori piazzare quei loro vini così personali in un mercato che tuttora privilegia altri stili più omologati. Un motivo in più perché chi si trovasse nella zona in questi mesi estivi, faccia una deviazione in zona, e beva. Ovvio, se ha chi guida al posto suo, o se ha prenotato stanza nel luogo.
Adesso, recensirli tutti, i vini tastati, è problematico. E dunque devo farne una selezione. Dicendo però che altri «esclusi» meriterebbero citazione, e invitando dunque chi passasse di là a fare altre scoperte. M’accontento di segnalarne quindici, mettendo al solito il mio giudizio in faccini, il mio punteggio centesimale e anche la valutazione, pur’essa in centesimi, della decina d’amici che hanno bevuto con me quelle stesse bottiglie.
L’ordine della top è questo: prima i faccini (che non sono una valutazione assoluta, ma indicano piacevolezza correlata alla tipologia), a parità di faccini (antidemocraticamente, ammetto) i miei centesimi, a parità di miei centesimi, il voto medio della mia masnada d’assaggiatori.
Si vedrà che i faccini non sempre corrispondono al voto centesimale. Si noterà poi che il voto medio a volte si discosta anche molto sensibilmente dal mio, ed è giusto che così sia: mica ho la verità rivelata, io. Chi andrà a rivedersi il pezzo di Enogea, constaterà magari poi che mi scosto talvolta dai giudizi di Falcone, e anche questo è il bello dell’essere persone che pensano ciascuno a modo suo.
Dico infine di fare attenzione, ché nella top 15 ci sono ben tre Chianti Rùfina «base», in mezzo a una sfilza di Riserve, ed è pure un bel segnale: si può bere bene anche spendendo poco, da quelle parti del Chianti.

Rùfina top 15

Chianti Rufina Riserva 2004 Fattoria I Veroni
Il colore non è densissimo, evviva! Il naso ha fruttino macerato, frutta in composta, vene balsamiche, foglie essiccate. In bocca torna il frutto e il sentore officinale e il mallo di noce. Ha nota acidula, che rende piacevole la beva, e succosa. Ha il chinotto. E il rabarbaro. Ha complessità considerevole. E lunghezza. Mi piace.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
90/100 – media 85,286
Chianti Rufina Riserva 2004 Le Coste
Quasi l’opposto del preceente. Senza il quasi. Colore rubino brillante. E sfumature porporine. Naso con frutto quasi macerato e pepe e terra nera bagnata. Bocca fresca, acidula, con toni terrosi piuttosto espressi, quasi torbati, e vene di tabacco, di sigaro. Tannino rusticheggiante e acidità in rilievo. Montanaro, quasi. Ha carattere e corpo e potenza, eppure anche slancio vitale, freschezza. Un vinone che sembra promettere un'evoluzione di tutto rispetto. Complesso e possente e fresco insieme. Ha gran corpo, ma non lo fa pesare.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
90/100 – media 85,000
Chianti Rufina Riserva Poggio Gualtieri 2000 Fattoria di Grignano
Fruttone al naso, macerato. E fiore appassito. In bocca ha polpa, potenza, concentrazione. E frutto stramaturo ancora. Epperò anche intrigante vena agrumata, da arancia rossa di Sicilia, maturissima, dolce e acidula assieme. Ed è vino possente ed elegante. Buono. Una sorta di mediazione tra i primi due in elenco.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
90/100 – media 81,286
Chianti Rufina Riserva 2005 Villa di Vetrice Flli Grati
Naso da gingerino, da pepe. Bocca fresca, beverina perfino, eppure ha anche parecchio tannino, ed è un bel tannino. Il frutto è acidulo, e succoso. Leggere vene di china, venature dulcamare, noce. Buona lunghezza. Ma è soprattutto la beva ad essere invitante. Vino che ha personalità rustica. Fuori standard. Spiazzante, ma anche intrigante.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-) :-)
88/100 - media 84,286
Chianti Rufina 2005 Il Pozzo
Al naso c'è fruttino: mora e prugna. E leggera traccia di fiore appassito. E lieve speziatura. In bocca è composto e composito assieme. La freschezza, che ha tono nervoso, trova equilibrio nel tannino. C'è velluto e carattere. Buona lunghezza. Tornano fuori la mora insieme con la violetta che sta sfiorendo, appassendo. E, sotto, una lieve pepatura. Buono. Bel vino montagnoso, rusticoso.
Due lieti faccini e quasi tre:-) :-)
85/100 – media 78,000
Chianti Rufina Riserva Nipozzano 2005 Marchesi de' Frescobaldi
Colore molto scuro. Il naso ha fruttone, e vene di chinotto e note di mallo di noce, e di nocino. E la bocca è sullo stesso piano. Concentratissima. Potente. Tannica. Epperò anche dotata di buono slancio di freschezza, che conferisce snellezza. E sul fondo, assieme, una sottile vena di vegetalità officinale e un che di iodato.
Due lieti faccini :-) :-)
89/100 – media 81,714
Chianti Rufina Riserva del Don 2003 Colognole
Al naso fruttone, spezia dolce, florealità. Bocca ampia, densa, fruttatissima. Bel tannino, elegante e ben espresso. Lunghezza, densità. Rovere leggermente in rilievo, ma è giovane. Bel vino.
Due lieti faccini :-) :-)
86/100 – media 82,857
Chianti Rufina Riserva Stellario 2005 Scopetani
Legno piuttosto in rilievo. E vene iodate. E sotto, il frutto. In bocca, ecco che riemerge immediatamente la vena salmastra. E fruttata, poi. E c'è freschezza che rende poi succoso il frutto. E il rovere è comunque un po' presente, e solo per questo mi tengo un po’ risicato nella sintesi, ché se si riassorbisse lo riberrei molto volentieri, questo vino. In ogni caso, al mio team è piaciuto parecchio, come dice il voto medio.
Due lieti faccini :-) :-)
85/100 – media 83,286
Chianti Rufina Riserva Vigneto Montesodi 2005 Marchesi de' Frescobaldi
Colore nerissimo. E al naso frutto concentratissimo e quasi in confettura. E spezia dolce. E in bocca è tannicissimo e potente e muscoloso e concentrato. E il frutto è stramaturo e dolce. Ed è vino molto giovane, che piace a chi ama la grande concentrazione.
Due lieti faccini :-) :-)
85/100 – media 82,286
Chianti Rufina Riserva 813 2005 Scopetani
Colore molto scuro. Naso da uve surmature, strafatte, quasi di là del limite. Pepe. E la bocca è poi densissima, quasi da masticare, Epperò c'è anche freschezza nervosa. Tannicissimo. E c'è l'alcol che riscalda. E comunque sul fondo c'è una sottile vena iodata, e poi anche un po' mentolata. Muscolo.
Due lieti faccini :-) :-)
85/100 – media 82,143
Chianti Rufina Riserva Vigna Macereto Villa Masseto 2005 Scopetani
Naso dal frutto un po' compresso, e vene di terra. E la bocca è in continuità, con una terrosità netta, personalissima. E sotto c'è il frutto che si fa avanti. Mora soprattutto. E poi il fiore macerato. E c'è freschezza acida che dà slancio alla beva. E c'è lunghezza, che evolve ancora sulla terrosità nera, quasi torbata. E affiora appena un cenno di mallo di noce. E c'è, sul fondo, un ricordo appena appena di toscano. E di china, e di zenzero. Gioca più sul muscolo, comunque, che sulla finezza.
Due lieti faccini :-) :-)
85/100 – media 82,000
Chianti Rufina Riserva 2004 Fattoria di Grignano
Il naso esprime frutto, parecchio, e surmaturo. E la bocca è piena, densa. E c'è vena alcolica, parecchia. Gioca le sue carte soprattutto sul muscolo, sulla potenza. E comunque ha lunghezza considerevole.
Due lieti faccini :-) :-)
85/100 – media 81,143
Chianti Rufina Riserva Cedro 2004 Lavacchio
Naso tra il frutto surmaturo e le vene terziarie animalesche. In bocca c'è freschezza e slancio, e anche tannino, parecchio. E ci trovo comunque buon equilibrio. E il frutto è macerato e ci sono vene di china e note appena appena mentolate. Manca un po’ nella finezza, magari, ma quanto a personalità...
Due lieti faccini :-) :-)
85/100 – media 79,571
Chianti Rufina 2005 Fattoria di Basciano
Colore molto più scuro degli altri Rùfina basic. Mora. Spezia pepata. In bocca c'è bella struttura e tannino ben modulato e morbidezza. Vino che ha carattere, che nutre ambizione. Magari il finale è leggermente amaro, ma trovarne di vini base di questo genere, e il voto medio dei miei soci di bevuta lo dice chiaramente…
Due lieti faccini :-) :-)
84/100 – media 81,714
Chianti Rufina 2004 Colognole
Naso tra il terroso e lo speziato. In bocca c'è bel tannino e freschezza ben modulata e mora e un po' di prugna. Vena sottilmente vegetale, rinfrescante. Buona lunghezza, sulla corda di una vaga vinosità.
Due lieti faccini :-) :-)
84/100 – media 77,429

Il parere contenuto in questa segnalazione è rapportato alla tipologia di vino e poggia in primis sulla piacevolezza che la bottiglia ha saputo trasmettere.
Il giudizio è dato in faccini stile sms.
- un faccino è per un vino di corretta e comunque piacevole beva
- due faccini per un vino di bel piacere
- tre faccini per i vini appaganti, le punte massime delle rispettive tipologie.

Alice Relais nelle Vigne - Vittorio Veneto

Angelo Peretti
Un posto da coccole. Per dormirci, per rilassarsi. Per immergersi poi nelle vigne del Prosecco.
Alice Relais nelle Vigne è un bed & breakfast di quelli che quando ci hai dormito una notte vorresti tornarci. E quando la mattina ci hai fatto colazione con tutte quelle marmellatine, quei dolcetti fatti in casa, quei pani fragranti, a dire il vero ti viene più voglia di metterti seduto a leggere un buon libro che non partire per la visita della terra prosecchista. Epperò per questa visita è il punto d’appoggio ideale, nel territorio di Vittorio Veneto, nella frazione di Carpesica. Con le vigne fuor dalla finestra, tutt’intorno.
Stanze spaziose, ben arredate, linde. Unico inconveniente – ma per me che ci sono abituato non lo è stato – è che il prete della vicina cappellina ha l’abitudine di far suonare le campane di buonora e a lungo. Ma quest’è vita di paese: è peggio in città lo sferragliare dei tram o il vibrare della metro che passa sotto l’hotel.
In tutto, una diecina di stanze. Materiali naturali, arredi etnici. In bagno, il set da doccia Musk di Etro. Nel giardino, la vasca idromassaggio.
Alice Relais nelle Vigne – Via Gaetano Giardino, 94 – Loc. Carpesica – Vittorio veneto (Treviso) – tel. 0438 561173

1 giugno 2008

Sono un bevitore A-B-C

Angelo Peretti
Ho scoperto di essere un bevitore A-B-C. L’iluminazione m’è venuta leggendo il numero di maggio di Wine Spectator, la più diffusa fra le riviste enoiche al mondo. La copertina è dedicata allo Chardonnay. E nell’editoriale si legge che in giro c’è uno slogan ipersintetico che recita così: «A-B-C». L’acronimo sta per «Anything But Chardonnay», ossia, traducendo un po’ liberamente, «Datemi da bere quel che volete purché non sia Chardonnay». Ecco, mi ci riconosco: in generale, lo Chardonnay non mi piace. Non lo sopporto, con quel suo odore, come dire... da Chardonnay. Inconfondibile.
Oh, vabbé, lo ammetto: ci sono grandi Chardonnay. Penso alla Borgogna, ovviamente. Agli elegantissimi bianchi delle vigne di Montrachet. O ai grassi Corton. Agli Chablis, che si fanno burrosi col tempo. Vini cui certamente riconosco personalità, eleganza, perfezione stilistica, classe. Ho in mente un Corton-Charlemagne bevuto quest’inverno: un esempio di opulenza e insieme di snellezza, una sorta di quadratura del cerchio. Tutto vero. E dunque se debbo giudicare il vino nelle sue componenti, non c’è che dire: grandi bottiglie. Purché via piaccia lo Chardonnay. E a me lo Chardonnay con quel suo odorino, come dire... da Chardonnay, proprio non lo sopporto.
Chissà per quale strano meccanismo rifiuto un vino bianco che abbia nella sua linea aromatica traccia della presenza dello chardonnay (scrivo in minuscolo: intendo il vitigno). Vallo a sapere: credo che potrei essere un caso di studio. Ma non c’è dubbio: sappiate che se per caso fossimo insieme a cena e volete farmi bere un bicchiere di vino, la (mia) regola è A-B-C, Anything But Chardonnay, fatemi bere un po’ quel che volete voi, purché non sia Chardonnay.
Che poi non è verissimo. Un vino a base di chardonnay lo bevo anch’io. Ma ha le bollicine. E si chiama Champagne. Che è blanc de blanc quand’è fatto di chardonnay, appunto. E ce n’è di elegantissimi, floreali, suadenti. Epperò, ecco che se mi proponete di optare fra un blanc de blanc e un blanc de noir, fatto con le uve di pinot (nero o meunier), figuratevi dove vado a parare: sul blanc de noir, ovvio. E non è un caso che se mi si mette nel bicchiere una serie di cuvée, la scelta, generalmente, va a finire sulle bolle che pinoteggiano di più (e chardonneggiano di meno, ovvio).
Che volete farci: ognuno ha le sue idiosincrasie. Io ci ho quella per lo Chardonnay: A-B-C.
A dire il vero ce n’ho un altro di rifiuti idiosincratici (si scrive così? se è giusto bene, sennò pazienza): quello per i Sauvignon italiani. Non mi piacciono, con quelle presenze costanti – chi più, chi meno – di erbe verdi e di pipì del micio. E sì che invece tracanno con piacere i Sauvignon blanc che vengono dalla Loira o dalla Nuova Zelanda. Ma A-B-S, Anything But Sauvignon, suona male, e poi non è del tutto vero, come ho detto: non mi piacciono i Sauvignon italiaci, e non ne ricordo uno che m’abbia fatto venire un brividido. Tutto qui.
Ripeto: difficile sapere da dove nascano questi rifiuti. Chissà in quale recondito cassetto della mia psiche si cela l’arcano. Ma a dire il vero: chi se ne frega? Ce n’è così tanta di roba buona da bere al mondo, che mica per forza occorre stappare Chardonnay o Sauvignon tricolori.
Ma torno a Wine Spectator, e al servizione portante del numero di maggio, dedicato allo Chardonnay. Il magazine americano lo Chardonnay lo difende. In maniera convinta e convincente, pure. E che cosa dovrebbe dire, dopo aver aperto l’editoriale scrivendo che lo Chardonnay è il vino preferito d’America, e che gli americani ne bevono ogni anno più di 700 milioni di bottiglie (alla faccia!). Con consumi in crescita, per di più. E potrebbero forse dire lorsignori che son contro lo chardonnay, avendo constatato che è la varietà dominante nei vigneti della California?
Unicuique suum, a ciascuno il suo. A loro lo Chardonnay. A me altri bianchi. E pace.

11 maggio 2008

Quelli del Tai Rosso

Angelo Peretti
Premesso che non mi piacciono le premesse, stavolta tocca farne una anche a me. E si tratta di premettere un concetto che ho già espresso altre volte: una denominazione, un vino. È così che mi piacerebbe l’assetto delle doc: un nome geografico, un vino corrispondente, e poi semmai le sottozone, i terroir, i crû. Invece no.
Prendiamo la doc dei Colli Berici, nel Vicentino. Già era abbastanza complessa di suo. Ma quand’è stato il momento di trovar soluzione alla rogna d’avere una tipologia che si chiamava Tocai Rosso, e che come ogni altro Tocai doveva esser bandito in ossequio ai diritti ungheresi e alle disposizioni comunitarie, s’è pensato di farne due. Cosicché adesso con quell’uva, al posto di quello che simpaticamente al Consorzio di tutela chiamano «il - vino- che- non- si - può - più - chiamare - Tocai», si fanno due tipologie, entrambe a denominazione d’origine: il Barbarano e il Tai Rosso.
Dicono che sia per distinguere la zona storica, quella attorno a Barbarano, appunto, da quell’altra, di più recente estensione. Sarà.
Devo però ammettere che i già-Tocai rossi di Barbarano e dell’altra zona hanno elementi distintivi. Soprattutto nel colore. Intendo che le due aree hanno continuità cromatica interna, ma anche distinzione l’una dall’altra: un po’ più chiaro il Tai Rosso, un po’ più carico il Barbarano, senza peraltro raggiungere chissà quale densità.
E tutti i Barbarano hanno la medesima tonalità, e tutti i Tai Rosso l’altra. E quest’è un bene, ché offre riconoscibilità - diciamo - di terroir.
Detto questo, che cos’è mai ‘sto vitigno fu-tocai ed oggi tai? Dicunt sia parente stretto del cannonau sardo e del grenache del sud-est francese e dell’alicante ispanico. Come sia arrivato in terra vicentina, vallo a sapere. S’è però bene acclimatato. Ed offre vini che un tempo erano magari scipitini e che oggi invece sono d’interesse. E stilisticamente migliorano, mi par di poter dire. Ed hanno carattere piacevole senz’esser piacione, e beva simpatica, epperò anche, nei casi migliori, bella personalità. Ed è quel tipo di rosso che accompagna il pasto con nonchalance, che gioca sulla beva e non per forza sulla ciccia, sul muscolo, sul tannino, sull’alcol, sul colore. Ché anzi qui di colore ce n’è poco, e tante volte verrebbe d’affermare che più che rosso è cerasuolo. Un po’ come dalle mie parti, in terra di Bardolino. Ed anzi, ci trovo parecchie affinità stilistiche fra il Tai-Barbarano e il mio Bardolino. E c’è pure quel tratto aromatico che accomuna molti tai ad alcuni rossi bardolinisti: il sentore spiccato di lampone, intendo. Succoso, dissetante, appagante.
Insomma: c’è una via ad un «nuovo» stile di rosso che accomuna in certi tratti la terra gardesana e quella berica. E sarebbe un concetto da approfondire.
Ma torno all’ex-Tocai. Rosso. Di recente, m’è capitato d’assaggiarne, sia nella versione Barbarano che in quella Tai Rosso. L’occasione è stata offerta dal fatto che quelli di OlioVinoPeperoncino, il web magazine intendo (andate a vederlo: vale la pena), s’erano messi in testa di approntare una sorta di disfida dalle parti di Montalcino fra i vini di là e quelli di Vicenza. E siccome si stappavano le bottiglie, c’era posto al tavolo. E n’ho approfittato, dunque. E qui di seguito dico qualcosa delle tre o quattro bocce che mi son più piaciute, col mio solito giudizio in faccini, da uno a tre.
Colli Berici Barbarano 2007 Faccin
Buono. Al naso c’è frutto maturo, più della media dei vini che ho assaggiato nella giornata. E bocca in parallelo. Con note quasi da vin brulè, e non è certo un male: frutto rosso, intendo, e vene di scorza d’agrumi, e spezia (cannella e garofano). Piacevole. C’è bella freschezza e discreto tannino. Mi dicono che è vino di Cognola, un locus barbaraniano che ha proprie specificità. E questa specificità andrebbe valorizzata ulteriormente, credo. Magari cambiando anche la bottiglia, che oggi è di vetro incolore, e non è il massimo per garantire stabilità.
Due lieti faccini :-) :-)
Colli Berici Barbarano 2007 Cantine Colli Berici
Oh, che naso intrigante, di karkadè! Ce l’avete presente quell’infuso dal sapore un po’ retrò, che si beve caldo, in tazza? Viene dalle foglie dell’ibisco. Ed ha aroma particolarissimo. E lo ritrovi in questo vino. Che aggiunge la rosa canina, e il fiore macerato. E poi in bocca s’offre sapido, quasi asprigno nella percezione fruttata. E c’è lampone. Un vino ragazzino, nervosetto, birbantello. Che si fa bere volentieri, soprattutto se si cerca non già la perfezione stilistica - che a volte annoia - ma un po’ di genuina rusticità.
Due lieti faccini :-) :-)
Colli Berici Tai Rosso Cà Basso 2004 Graziano Basso
Leggerissimo, anche qui c’è un tono di karkadè. Che dunque è una sorta di carattere peculiare del tai. E c’è speziatura minuta. La bocca è una spremuta di fruttini di bosco, di lampone, di mirtillo. E c’è, leggera, la memoria di prugna un po’ acidula. E c’è discreta persistenza e buona beva.
Due lieti faccini :-) :-)
Colli Berici Tai Rosso 2007 Cavazza
Fruttino dolce, quasi da caramellina, al naso. Caramellina al lampone, of course. E bocca beverina, salina: ti verrebbe voglia di finire il bicchiere e versarne da subito un altro. Col fruttino succoso ed asprigno che disseta. Il ribes, direi, è ben presente. E c’è discreta persistenza.
Due lieti faccini :-) :-)
Colli Berici Tai Rosso 2007 Colli Vicentini
Ecco qua un altro Tai che ricorda, lievissimamente, il karkadè e la rosa canina. E c’è speziatura sottile, anche, all’olfatto. E un che di lampone e di fruttini di bosco. E un cenno erbaceo. In bocca l’acidità si fa avanti a spallate. E sotto c’è il frutto che attende d’uscire. Vino rusticheggiante, nervoso. Da riprovare magari in estate. Ma gli tributo fiducia.
Un faccino e quasi due :-)

Il parere contenuto in questa segnalazione è rapportato alla tipologia di vino e poggia in primis sulla piacevolezza che la bottiglia ha saputo trasmettere.
Il giudizio è dato in faccini stile sms.
- un faccino è per un vino di corretta e comunque piacevole beva
- due faccini per un vino di bel piacere
- tre faccini per i vini appaganti, le punte massime delle rispettive tipologie.

4 maggio 2008

Bollicine gardesane

Angelo Peretti
Ma sì, va bene: il lago di Garda, spumantisticamente parlando, non è certo mica come il lago d’Iseo. Là, nel Sebino sud, ci hanno i loro Franciacorta, che stanno spopolando, brut o satèn, poco importa. Qui dalle mie parti, sul benacense laco, si fa soprattutto vino fermo, e la bolla la si mette invece in bottiglia quasi per sfizio. O per completezza di gamma: giusto magari per i pacchi-regalo di fine anno. Epperò, adesso che si fa avanti (spero) il caldo, qualche bollicina nostrana la si può anche infilare nel ghiaccio, pronta all’uso. Ché ce n’è di buone. E perfino di curiose.
Un’occasione per un assaggio di bell’ampiezza delle bolle del Garda l’ho avuta a Manerba un paio di settimane fa, grazie all’invito gentilissimo della pro loco e dell’amico e collega Luigi del Pozzo. Insieme, Gigi e la pro loco, han riproposto la mostra, appunto, degli spumanti gardesani. E li ho provati tutti,. quelli che c’erano (una trentina, mica poco), assistito con garbo dal piccolo staff dell’Ais - leggi Associazione italiana sommelier - mentre nel palasport finiva il rito dello spiedo all’ora di pranzo.
Ora, va chiarito quali siano le tipologie di spumanti che si fanno in terra gardesana. E dunque parto dalla zona dov’ero ospite: la riva bresciana, la Valtènesi in particolare. Lì se ne fanno di due tipi, essenzialmente: i Garda Chardonnay Brut, e qualcheduno di buono c’è, ma non era presente all’assaggio, e i metodi classici «di fantasia», spesso a base pur’essi d’uve di chardonnay, ma anche, qualche volta, di groppello vinificato in bianco (e perché no? somiglia o no il groppello al pinot nero? e allora?).
Più giù, s’entra in zona luganista. E la doc del Lugana prevede anche la versione spumante, che ha il mio disaccordo, ma mica per cattiva qualità, ché anzi di bolle luganiste ce n’è di buone. Gli è che ho un connaturato rifiuto per la troppa confusione ne’ disiciplinari: una denominazione, un vino, è questo che vorrei. Nulla vieta poi di far spumante coll’uva di turbiana, ma sotto magari a un’altra denominazione: perché no Sirmione, ad esempio?
Passiamo il Mincio, ed eccoci fra le colline del Custoza e del Bardolino. E anche qui c’è bolla. L’una e l’altra delle doc prevedono versioni spumantizzate: il Custoza Brut da una parte, il Chiaretto Spumante dall’altra. Il Custoza quasi solo charmat. Il Chiaretto (sei produttori in tutto, per ora) con qualche escursione nel metodo classico.
In alto, nel Sommolago - leggi Garda Trentino - torna di scena lo chardonnay col Trento doc (oggi si dovrebbe leggere & scrivere, stando allo slogan lanciato al Vinitaly, Trentodoc tutt’attaccato, ma a me non piace molto), ma - ahimé - di questi non ve n’era boccia a Manerba (e credo che in realtà siano due o tre in totale).
Di seguito dò qualche cenno degli assaggi: le dieci bolle che più mi son piaciute. Ma, nell’insieme, il livello è buono, lasciatemelo dire. Ed è molto, molto meglio di com’era una manciata appena d’anni fa.
Eccoci con le recensioni: solito criterio dei faccini di piacevolezza, da uno a tre.
Costaripa Brut metodo classico Costaripa
Mattia Vezzola è star della spumantistica italiana: firma bolle in Franciacorta, per la maison Bellavista. Meno conosciuta è la sua microattività gardesana, nella Moniga natìa, col fratello Imer. E questo loro Costaripa Brut è da applauso. Grande naso: crosta di pane, frutta secca, spezia, vena minerale. In bocca, densità carnosa, carattere a iosa. E terziari che avanzano in mezzo a un frutto polposo. Succoso.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Cuvée dei Frati metodo classico 2004 Cà dei Frati
Ma dico: alla Cà dei Frati le imbroccano tutte. Prendete questa Cuvée: trovar gente che non gli piaccia è proprio difficile. È bollicina ben fatta, vivaddìo. Al naso, i lieviti, la nocciola, la frutta gialla. Bell’ampiezza, definizione. In bocca, eccolo che si offre avvolgente, denso, morbidamente cremoso. E c’è frutto pulitissimo: giallo. E c’è la nocciola appena raccolta. Lunghezza. Densità. Buono.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Lugana Brut Tenuta Roveglia
Adesso anche lo spumante si son messi a fare elegante, alla Roveglia? Al naso c’è frutto: pesca bianca, vena d’agrume, magari ancora da perfezionare un pochetto. Ed è più avvincente il palato: compare, ampio, il fior d’arancio. Eppoi ancora la pesca bianca, croccante, quand’è ancora un po’ indietro. E l’albicocca un po’ acerba pur’essa. E un cenno tropicaleggiante, d’ananasso. E lunghezza, densità.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Bardolino Chiaretto Spumante metodo classico Monte Saline
Romano Giacomelli ha il Chiaretto spumante nel sangue. Quanto ci ha ragionato, sudato, progettato sopra a quel suo rosato bardolinista metodo classico! I risultati gli rendono onore. Il vino ha delicatissima fragolina e lampone e petalo di rosa ed erbetta di prato. La bocca è intrigante: tanto fruttino, succosamente denso. E bolla sottilissima. E sale, sapidità. Uh, salato e succoso assieme. Bel bere.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Lugana Brut Cascina Maddalena
Con quel loro fantastico microvigneto in mezz’alle case, alla Cascina Maddalena mica ci possono fare vini che non abbiano personalità, e infatti eccolo qui uno spumante per chi ama le bollicine senza mezze misure. Al naso tanta pesca gialla. E poi frutta in composta, fieno, nocciola. In bocca densità, potenza. Epperò anche crema. E grassezza. Sul fondo, sottesa, la vena minerale del trebbiano luganista.
Due lieti faccini :-) :-)
Lugana Brut metodo classico Pilandro
Frutto dalla polpa bianca, e fiori (biancospino) e anche un po’ di fieno secco: ecco quel che trova l’olfatto, ed è interessante bouquet. In bocca, parecchio fruttino di bosco e una vena di nocciola e un pizzichino di spezia (di cannella, direi). E buona cremosità. E polpa ce n’è un bel po’, confermando carattere. Dal fondo, la vena minerale ecco che s’avanza pian piano, all’insegna dell’argille luganiste.
Due lieti faccini :-) :-)
Bardolino Chiaretto Spumante Villabella
Nuovo nato della casa vinicola di Calmasino, questo Chiaretto Spumante è figlio del metodo charmat lungo. Ed è un bel prodotto, che non potrà che strapiacere - ritengo - nell’estate. Fruttino e spezia (cannella), classicamente, al naso. Il bocca ha un’invidiabile consistenza cremosa, vellutata perfino. Stuzzichevole e avvolgente assieme. E fruttino e leggerissima cannella. Ben fatto, ben fatto.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Lugana Brut metodo classico Cà Maiöl Provenza
Uh, che ostico che è al naso questo brut luganista: canna di fucile, polvere da sparo. Insomma: bolla che sfodera carattere al primo impatto. In bocca, stessa mineralità. Ma, sotto, c’è la nocciola, la crosta di pane, il croissant, la confettura d’albicocca. La carbonica è decisa, nervosa. Eppure c’è consistenza cremosa. Bollicina d’impegno. Da piatto d’una certa importanza, perfino.
Due lieti faccini :-) :-)
Il Pelèr Bottarelli
Leggo ch’è uno spumante fatto con uve di prosecco e pinot bianco. Da dove provenienti, non so. Però l’azienda è della riva bresciana e il vino è aperitivo disimpegnato. All’olfatto propone fiore bianco, margheritine di prato, biancospino. In bocca è morbidello, ma quest’è il tono che piace ai più, oggi. Epperò c’è anche bel fruttino, e del fieno secco, e un leggerissimo tocco di spezia. Semplice, leggero.
Un lieto faccino e quasi due :-)
Lugana Brut La Rifra
Verde. Vegetale intendo, al naso. Di erbe pratensi primaverili. E con cenni floreali, di margheritina. Insieme, vegetalità erbacea e florealità. Accattivante direi. In bocca, ecco, magari è un po’ morbido, come del resto s’usa sovente oggidì, ché c’è tanta gente che la bolla l’ama, appunto, all’insegna della morbidezza. Epperò c’è anche buon corpo. E fruttino di bosco: ribes. E discreta lunghezza.
Un lieto faccino e quasi due :-)

Il parere contenuto in questa segnalazione è rapportato alla tipologia di vino e poggia in primis sulla piacevolezza che la bottiglia ha saputo trasmettere.
Il giudizio è dato in faccini stile sms.
- un faccino è per un vino di corretta e comunque piacevole beva
- due faccini per un vino di bel piacere
- tre faccini per i vini appaganti, le punte massime delle rispettive tipologie.

Champagne Grande Réserve Veuve Devaux

Angelo Peretti
Quando nel mondo dello Champagne si parla di vedova, si pensa subito a Veuve Cliquot. Ma ce n’è un’altra che va annoata: Veuve Devaux.
Ho provato un paio d’estati fa il rosé, ed era davvero interessante, anche per il buon rapporto qualità-prezzo. Adesso ho appena bevuto il Grande Réserve, e confermo che la maison dal punto di vista del raffronto fra soldini sborsati e valore del vino è di quelle da segnarsi.
È fatto – ho letto – per il 61% di pinot noir e per il resto di chardonnay, e quanto son puntigliosi i francesi a dire delle loro percentuali in cuvée...
Il naso coglie il fruttino di sottobosco e cenni di florealità.
In bocca, la spuma è cremosa, la bolla sottile. Avvolge. Ed esce, in pienezza, il frutto bianco, di buona polpa, e un ricordo abbastanza preciso d’albicocca un po’ acerba. E, sul fondo, quelche lievissimo cenno balsamico.
Comprato on line a 21 euro, e ne vale la pena.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Il parere contenuto in questa segnalazione è rapportato alla tipologia di vino e poggia in primis sulla piacevolezza che la bottiglia ha saputo trasmettere.
Il giudizio è dato in faccini stile sms.
- un faccino è per un vino di corretta e comunque piacevole beva
- due faccini per un vino di bel piacere
- tre faccini per i vini appaganti, le punte massime delle rispettive tipologie.